Fin dalla sua origine, circa 4,5 miliardi di anni fa, il pianeta Terra è stato, ed è tuttora, soggetto all’azione di forze che ne modificano continuamente l’aspetto: un ipotetico osservatore, vissuto sulla Terra molti milioni di anni fa, avrebbe potuto osservare i continenti in posizioni diverse da quelle attuali; inoltre, si può rilevare come la distribuzione delle catene montuose e delle sedi di alcuni fenomeni, quali il vulcanismo e i sismi, non è casuale, ma sembra seguire uno schema preferenziale. Dello studio e dell’interpretazione di questi fenomeni si occupa un ambito della geologia, detto tettonica (dal greco tektoniké, arte del costruire). Un primo tentativo di spiegare le modificazioni avvenute sulla litosfera si deve alla teoria della deriva dei continenti, formulata all’inizio del ’900: in passato i continenti sarebbero stati tutti uniti e si sarebbero in seguito progressivamente spostati e allontanati. Tuttavia, non erano chiare le cause di tali spostamenti; molte informazioni utili in questo senso furono raccolte qualche decennio più tardi, attraverso l’esplorazione dei fondali oceanici: alla fine degli anni ’60, la loro interpretazione permise di formulare la teoria della tettonica a placche, secondo la quale la litosfera terrestre è costituita da una serie di porzioni, o placche, in movimento reciproco, causato da moti convettivi che avvengono nel mantello.
Osservando su un planisfero i profili della costa occidentale africana e di quella orientale del Sud America, si può notare come esista tra loro una perfetta corrispondenza. Questa constatazione, supportata da una serie di prove, consentì al meteorologo tedesco A. Wegener (1880-1930) di formulare, nel 1915, la teoria della deriva dei continenti: secondo questa teoria, circa 240 milioni di anni fa tutte le terre emerse si sarebbero trovate riunite in un unico grande blocco, un supercontinente chiamato Pangea (dal greco pán, tutto, e géa, terra), circondato da un unico oceano detto Panthalassa (dal greco pán, tutto, e thálassa, mare). In seguito, circa 180 milioni di anni fa, la Pangea si sarebbe divisa in due grandi parti: a nord, la Laurasia, costituita dalle attuali porzioni del Nord America, della Groenlandia, dell’Europa e dell’Asia; a sud, il Gondwana, formato dalle attuali porzioni del Sud America, dell’Africa, dell’India, dell’Australia e dell’Antartide; questi due grossi blocchi, separati da un oceano chiamato Tetide(da Teti, nome della divinità greca del mare), si sarebbero poi successivamente divisi e progressivamente allontanati l’uno dall’altro, “andando alla deriva” e originando gli attuali continenti. Wegener riteneva che i continenti, formati di materiale relativamente poco denso (mediamente simile al granito e chiamato Sial), galleggiassero come zattere su un involucro fluido sottostante di materiale più denso (simile al basalto e chiamato Sima). Oltre alla già citata corrispondenza fra le coste dei continenti, la teoria formulata da Wegener era avvalorata anche da prove geologiche, paleoclimatiche e paleontologiche.
Esiste una continuità fra le rocce che si trovano lungo le coste dei continenti sudamericano e africano, attualmente separati dall’oceano Atlantico, e ciò ne testimonierebbe un’origine comune, a cui avrebbe fatto seguito la loro separazione. L’analisi di rocce sedimentarie rinvenute in alcune aree del pianeta indica che esse si sono originate in zone con climi diversi da quelli propri delle latitudini a cui ora si trovano; quest’apparente contraddizione si può spiegare ammettendo che i continenti non siano sempre stati alle latitudini attuali, ma che si siano spostati. Esistono notevoli affinità tra i fossili di organismi terrestri ritrovati sulle due coste dell’oceano Atlantico. In un primo tempo, si ipotizzò l’esistenza di “ponti continentali”, cioè sottili strisce di terra che attraversavano l’oceano e che avrebbero permesso agli organismi di spostarsi; tuttavia, questa possibilità fu poi esclusa e la presenza di questi fossili fu spiegata ammettendo che, in alcuni periodi della storia della Terra, continenti oggi distanti tra loro fossero uniti e popolati da organismi della stessa specie. La “rivoluzionaria” teoria della deriva dei continenti fu fortemente osteggiata dai geologi contemporanei di Wegener, anche perché non venivano chiarite le cause degli spostamenti e, d’altra parte, non si conoscevano forze tanto potenti da provocare il movimento dei continenti; secondo Wegener, i continenti sarebbero andati alla deriva come iceberg che si muovono sul mare, sotto l’effetto di forze gravitazionali differenziali, legate alla forma della Terra, o di rigonfiamenti della superficie terrestre che indurrebbero la crosta a spostarsi per ristabilire l’equilibrio (queste supposizioni, comunque, non erano dimostrate). La teoria della deriva dei continenti cadde in oblio fino agli anni ’60, quando fu nuovamente presa in considerazione in seguito alle rilevanti scoperte che si andavano accumulando grazie all’esplorazione dei fondali oceanici.
La ricerca oceanografica si basa su un insieme di mezzi speciali di esplorazione, tra cui navi oceanografiche, batiscafi e laboratori sommersi, ai quali si sono aggiunti più recentemente i satelliti artificiali. Le profondità oceaniche vengono studiate soprattutto per mezzo di dragaggi, perforazioni e l’impiego di strumenti quali magnetometri (che misurano l’intensità del campo magnetico terrestre) ed ecoscandagli (che, inviando segnali acustici verso i fondali, consentono di valutarne la profondità in base al tempo impiegato dal segnale a compiere il tragitto di andata e ritorno). I risultati delle numerose spedizioni oceanografiche condotte negli anni ’60 hanno permesso di descrivere in modo dettagliato i fondali, la cui morfologia risulta alquanto varia e movimentata; inoltre, si è potuta rilevare la presenza di lunghe fratture, le dorsali oceaniche, interessate da un elevato flusso di calore endogeno e si sono potuti valutare il debole spessore e l’età relativamente giovane dei sedimenti marini; una circostanza che, tuttavia, si rivelò di fondamentale importanza fu la scoperta del paleomagnetismo e delle inversioni periodiche del campo magnetico terrestre, registrati nelle rocce dei fondali oceanici. Le misurazioni del campo magnetico compiute in mare aperto hanno evidenziato la presenza di anomalie magnetiche, cioè di piccolissime deviazioni in più (positive) o in meno (negative) rispetto ai valori normali medi dell’intensità del campo magnetico terrestre. Le anomalie positive sono dovute al fatto che in una data zona di crosta, sede di magnetismo fossile, quest’ultimo ha orientazione uguale a quella del campo magnetico attuale e vi si somma; l’opposto accade nelle zone sedi di anomalie magnetiche negative. Le anomalie magnetiche positive e negative sono distribuite alternativamente, secondo fasce lineari e parallele, con simmetria bilaterale rispetto alla dorsale oceanica. Esse rappresenterebbero, dunque, la prova che la crosta oceanica si è formata in tempi diversi e che essa è tanto più antica quanto più ci si allontana dall’asse della dorsale; inoltre, a distanza crescente dalla dorsale si trovano spessori sempre più alti dei sedimenti.
I risultati delle ricerche oceanografiche permisero nel 1963 agli scienziati inglesi F.J. Vine e D.H. Matthews, i quali si avvalsero di ipotesi avanzate nel 1960 del geologo americano Harry H. Hess, di formulare la teoria dell’espansione dei fondali oceanici. Secondo questa teoria, il magma che risale dal mantello in corrispondenza delle dorsali oceaniche, solidificandosi, forma nuova crosta terrestre, che si sposta poi lateralmente sui due fianchi della dorsale, provocando così l’espansione dei fondali oceanici alla velocità di pochi centimetri all’anno. Di conseguenza, a meno che la crosta terrestre non si stia progressivamente accrescendo (ma non abbiamo dati che lo confermino), la formazione di nuova litosfera terrestre in corrispondenza delle dorsali oceaniche deve essere compensata dalla distruzione (cioè dallo sprofondamento nel mantello) di una quantità paragonabile di litosfera in altri luoghi della superficie terrestre: tale fenomeno avviene, in effetti, in corrispondenza delle zone cosiddette di subduzione (fosse oceaniche).
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, i risultati delle numerose ricerche condotte sui fondali oceanici permisero di dare una risposta alla domanda lasciata inevasa dalla teoria della deriva dei continenti (che cosa permette ai continenti di spostarsi?) e, con il contributo di numerosi scienziati, si giunse alla formulazione della teoria della tettonica a placche, che può essere compendiata nei seguenti punti:
Questo aspetto, in particolare, mette in luce il carattere potentemente unificante della teoria della tettonica delle placche, che è in grado di interpretare e spiegare globalmente i fenomeni endogeni (che si originano all’interno della Terra) e la loro particolare distribuzione. Sono state individuate sette placche principali, aventi grande estensione – pacifica, nordamericana, sudamericana, eurasiatica, africana, indo-australiana e antartica – e un certo numero di placche minori (dette anche microzolle), tra cui ricordiamo le placche di Nazca, di Cocos, caraibica, delle Filippine e araba. Alcune placche sono costituite solo da litosfera oceanica (per esempio, la placca pacifica), altre, invece, sono formate da litosfera sia continentale, sia oceanica (per esempio, la placca africana) e altre ancora sono costituite prevalentemente da litosfera continentale (per esempio, la placca eurasiatica).
Le placche interagiscono reciprocamente attraverso i margini e, come abbiamo anticipato, è lungo queste linee di confine instabili che si focalizzano i vari fenomeni endogeni. A seconda del tipo di interazione che avviene fra due placche fra loro in contatto, si possono distinguere tre diversi tipi di margine: costruttivi, o divergenti; distruttivi, o convergenti; conservativi, o trascorrenti.
In corrispondenza di questo tipo di margini si genera nuova crosta terrestre per solidificazione di magma che risale dalla sottostante astenosfera (per questo sono detti costruttivi) e, nello stesso tempo, le due placche adiacenti divergono fra loro (per questo sono detti anche divergenti), allontanandosi a una velocità che può essere anche di qualche centimetro all’anno. I margini costruttivi coincidono con le dorsali medio-oceaniche o con lacerazioni della crosta continentale, lungo cui si incide una valle, detta fossa tettonica o rift valley continentale (o semplicemente rift). Le dorsali medio-oceaniche sono rilievi sottomarini, fasce di crosta oceanica inarcate verso la superficie, più o meno fratturate. La cresta della dorsale è caratterizzata da fenomeni sismici ed è segnata da un solco longitudinale, il rift, largo qualche decina di chilometri e profondo alcune centinaia di metri, da cui fuoriesce in continuazione un magma fluido e molto caldo, di natura basaltica. Questo magma man mano solidifica, formando una nuova crosta terrestre e allontanando le placche adiacenti, che divergono rispetto alla posizione originaria con velocità che vanno dai 2 ai 10 cm/anno; esso, inoltre, può effondere in superficie, raffreddarsi e solidificarsi immediatamente, formando blocchi di lava di forma arrotondata a cui si dà il nome di lava a cuscino, o “a pillow”, che rotolano per brevi tratti nei pressi della zona di emersione. Le dorsali medio-oceaniche sono interrotte e suddivise in segmenti distinti (disposti trasversalmente rispetto alla cresta della dorsale) da fratture dette faglie trasformi. Sul fondo degli oceani Atlantico, Indiano, Antartico e Pacifico, del mare di Norvegia e del mare Artico si snoda senza soluzione di continuità un sistema di dorsali lungo oltre 80 000 km. Una delle più famose è la dorsale medio-atlantica, che si eleva per circa 2500-3000 m al di sopra delle adiacenti piane abissali e provoca l’allontanamento delle zolle nordamericana e sudamericana da quelle eurasiatica e africana, con conseguente espansione dell’oceano Atlantico; in alcuni punti, la dorsale medio-atlantica affiora, dando così origine a isole vulcaniche quali l’Islanda e le Azzorre. Le rift valley continentali sono depressioni più piccole e meno profonde delle dorsali oceaniche, che si aprono nella litosfera continentale; esse possono essere occupate da laghi (laghi tettonici) e determinare successivamente la formazione di nuovi mari e oceani in seguito all’ingresso, parziale e intermittente, delle acque marine nella depressione. L’esempio più conosciuto è quello che si estende con direzione nord-sud in Africa orientale, detto Great Rift Valley, in cui sono attualmente osservabili vari laghi tettonici (Turkana, Mobutu, Tanganica e Malawi) e che, probabilmente, segna la futura frammentazione del continente africano.
In corrispondenza di questo tipo di margini, la litosfera si consuma e si distrugge (perciò sono detti distruttivi), andando in subduzione (dal latino subducere, condurre sotto), cioè immergendosi nella sottostante astenosfera, e contemporaneamente le due placche adiacenti si avvicinano reciprocamente (perciò sono detti convergenti), cioè si scontrano. I fenomeni che si manifestano in seguito allo scontro di due placche sono diversi, a seconda che la collisione coinvolga due placche oceaniche, due placche continentali o una placca oceanica e una continentale. La collisione tra due placche oceaniche provoca la subduzione, quindi la distruzione, della densa litosfera oceanica in pieno oceano; la litosfera si incurva verso il basso, immergendosi nell’astenosfera, secondo un piano inclinato in cui si localizza un’intensa attività sismica, detto piano di Benioff. Scesa nell’astenosfera, la litosfera oceanica comincia a fondere, determinando un’accentuata attività vulcanica. Come conseguenza della collisione, nei fondali oceanici si formano profonde depressioni, dette fosse oceaniche, e, parallelamente a esse, archi magmatici insulari, cioè fasce di isole vulcaniche originatesi per risalita verso la superficie di magma proveniente dalla fusione della litosfera. Nel loro insieme, le fosse oceaniche e gli archi magmatici insulari costituiscono i cosiddetti sistemi arco-fossa, di cui si trovano numerosi esempi lungo le coste occidentali dell’oceano Pacifico (per esempio, lungo l’arcipelago del Giappone o lungo le isole Marianne, presso l’omonima fossa). La collisione fra due placche continentali non dà luogo a subduzione, perché, a causa della bassa densità delle rocce che costituiscono la litosfera continentale, nessuna delle due placche collidenti può inserirsi sotto all’altra; la collisione porta a sovrascorrimenti delle due placche, al corrugamento della litosfera e determina, dunque, la formazione di catene montuose, od orogenesi (dal greco orós, montagna, e génesis, origine). In seguito all’attrito fra le due placche, si generano inoltre, nell’area interessata dalla collisione, forti tensioni che causano terremoti. Esempi di catene montuose formatesi in questo modo sono la catena himalayana (per collisione della placca indiana contro quella eurasiatica) e quelle alpina e appenninica (per collisione della placca africana contro quella eurasiatica). La collisione fra un placca continentale e una oceanica, più densa, fa sì che quest’ultima vada in subduzione, inserendosi sotto la placca continentale e immergendosi nell’astenosfera, secondo il piano di Benioff. Le conseguenze di questo scontro sono in parte simili a quanto avviene in seguito alla collisione tra due placche oceaniche: la subduzione della placca oceanica forma, infatti, delle profonde fosse oceaniche e sulla placca continentale si origina un arco magmatico, costituito da una serie di vulcani con andamento parallelo alla fossa. Proseguendo la subduzione, però, la placca continentale si corruga e, dietro all’arco magmatico, si forma una catena montuosa, il cui sollevamento continua finché la subduzione è attiva. Questa situazione si osserva lungo la costa sudorientale dell’Oceano Pacifico, in corrispondenza alla fossa del Perù-Cile (originatasi per subduzione della placca di Nazca sotto alla placca sudamericana), parallelamente alla quale si estende la catena montuosa delle Ande (formata da due cordigliere parallele, una occidentale e una orientale).
In corrispondenza di questo tipo di margini, la litosfera non si accresce né si consuma (perciò sono detti conservativi), mentre le placche adiacenti scivolano, scorrono l’una rispetto all’altra generando fratture sia sui continenti, sia sui fondali oceanici, a cui si dà il nome di faglie trasformi e che sono sede di terremoti (perciò i margini conservativi sono anche detti trasformi). Faglie trasformi si osservano lungo le dorsali oceaniche, che risultano così suddivise in tronconi relativamente corti, scorrenti lateralmente l’uno rispetto all’altro. Le faglie trasformi, che interrompono il percorso delle dorsali, sono scarpate molto ripide, quasi verticali, sedi di frequenti terremoti solamente nel tratto che raccorda i due tronconi della dorsale, in cui l’ipocentro dei terremoti è sempre superficiale e l’energia che essi liberano relativamente bassa. La più famosa faglia osservabile sulle terre emerse, invece, è quella di San Andreas, in California: lungo questa faglia, spostandosi verso nord-ovest, la placca Pacifica “striscia” contro quella nordamericana, in movimento verso sud-est, tagliando in due la penisola californiana (da San Francisco a Los Angeles). Faglie di questo tipo, in cui i due margini della faglia si allontanano orizzontalmente in direzioni opposte, sono dette faglie trascorrenti. La faglia di Sant’Andreas è sede di un’intensa attività sismica, manifestata si più volte nel corso del ’900 e causata dagli attriti fra le placche, i quali, a loro volta, generano forti tensioni nelle rocce della litosfera.
La parola orogenesi significa “origine delle montagne”. Sono dette teorie orogenetiche quelle che cercano di spiegare l’orogenesi, cioè l’origine delle catene montuose. Anticamente si riteneva che le montagne fossero entità immutabili, create con la Terra e destinate a mantenere costanti forma e altezza. A metà del XV secolo vennero scoperti fossili di antichi organismi marini in rocce delle Alpi e, di conseguenza, cominciò a farsi strada l’ipotesi che le montagne non fossero entità immutabili, ma potessero trarre origine dai fondali marini, emersi a causa di vari fenomeni. Tutte le catene montuose sono formate in prevalenza da rocce sedimentarie di origine marina, profondamente modificate per metamorfismo, deformate e attraversate da faglie e da rocce ignee di età più recente. Il processo orogenetico può quindi essere diviso in due fasi: quello della sedimentazione e quello della compressione dei sedimenti e del loro sollevamento. La seconda fase può avvenire in seguito a due diversi tipi di interazione fra le placche: per subduzione di una placca oceanica sotto una placca continentale o per collisione tra due placche continentali. Un esempio di catena montuosa formatasi in zona di subduzione sono le Ande: la subduzione della placca oceanica di Nazca sotto a quella continentale sudamericana ha provocato prima la formazione di un arco magmatico (cordigliera occidentale in cui si trovano numerosi vulcani) e poi, continuando la subduzione, il sollevamento della cordigliera orientale. Le Alpi e l’Himalaya sono, invece, esempi di catene montuose formate per collisione tra due placche continentali, rispettivamente della placca africana contro quella eurasiatica e di quella indiana contro quella eurasiatica. Nelle catene montuose sono normali spessori litosferici di 70 km, raddoppiati rispetto agli spessori originari. L’ispessimento, associato alla pressione esercitata direttamente dalle placche in collisione, porta a un forte aumento della temperatura e della pressione: perciò le rocce lentamente ricristallizzano, trasformandosi (per metamorfismo) in rocce costituite da minerali completamente diversi da quelli originari.
Qual è la causa che provoca il movimento delle placche? Secondo una teoria che incontra il favore di molti scienziati, ma che è soggetta a talune riserve, il movimento delle placche litosferiche sarebbe provocato dai moti convettivi che avvengono nel mantello.
I moti convettivi sono movimenti circolari di materia, che avvengono all’interno dei fluidi (liquidi e aeriformi) caldi e attraverso i quali avviene la propagazione del calore con trasporto di materia. Quando un fluido viene riscaldato, per esempio per contatto con una fonte di calore, esso diventa meno denso, più leggero, si sposta verso l’alto, trasportando con sé calore, che poi si propaga e viene ceduto ai materiali circostanti; il fluido, quindi, si raffredda, diventa più denso, più pesante e si muove verso il basso, dove nuovamente si riscalda: si stabiliscono così, all’interno del fluido, dei movimenti circolari di materia, detti correnti convettive, o moti convettivi. I moti convettivi si possono osservare in qualsiasi fluido caldo e si ritiene che essi abbiano sede anche nel mantello, l’involucro nel cui strato superiore si trova il magma, materiale fluido e caldo. Molti scienziati sostengono che il movimento delle placche sia causato dai moti convettivi del magma nel mantello: il riscaldamento del magma avverrebbe per contatto con il nucleo, in cui si raggiungono temperature elevate; il magma, riscaldatosi, risale verso la litosfera generando tensioni che ne provocano la rottura in placche e la formazione di spaccature (dorsali oceaniche e rift continentali), da cui il magma stesso fuoriesce. Prima di incominciare la sua discesa di nuovo verso il nucleo, il magma si sposta orizzontalmente e provoca lo spostamento delle placche che galleggiano su di esso e possono così allontanarsi (in corrispondenza di correnti ascendenti del magma), o scontrarsi (in corrispondenza di correnti discendenti del magma). Sarebbe dunque questo il meccanismo che avrebbe provocato la fratturazione della Pangea, i cui frammenti, spostati dalle correnti convettive sottostanti, vanno alla deriva e tendono a convergere e scontrarsi dove le correnti convettive ridiscendono verso il basso. I moti convettivi che avvengono nel mantello spiegano gran parte dei fenomeni che si osservano sulla superficie terrestre. Tuttavia, una recente tecnica di indagine dell’interno della Terra, detta tomografia sismica, ha permesso di osservare che non tutte le dorsali oceaniche si trovano in corrispondenza di correnti ascendenti del magma: si è quindi recentemente proposta una nuova teoria, che attribuisce il movimento delle placche alla diversa velocità di rotazione degli involucri che formano la Terra.
Si può paragonare la Terra a una trottola in rotazione, che sta tuttavia rallentando: le cause del rallentamento possono essere individuate nelle oscillazioni dell’asse terrestre e nelle maree. Tuttavia, a causa del loro diverso peso e della diversa densità, gli involucri che formano la Terra stanno rallentando in modo diverso: la litosfera, più leggera e meno densa del sottostante mantello, rallenterebbe più velocemente rispetto a questo, mentre il mantello, più pesante e più denso, rallenterebbe più lentamente della litosfera. Dunque, la velocità di rotazione del mantello (da ovest verso est) sarebbe maggiore della velocità di rotazione della litosfera, che manifesterebbe dunque un moto relativo verso ovest: si è infatti osservato che, unendo le direzioni di movimento delle placche negli ultimi 40 milioni di anni, si nota un flusso globale in direzione est-ovest lungo cui si muovono le placche. Esisterebbe, dunque, una sorta di scollamento tra litosfera e mantello. Inoltre, poiché la litosfera oceanica e quella continentale hanno spessori diversi, l’attrito che si crea con il mantello sottostante sarebbe diverso nei due casi e quindi placche adiacenti si muoverebbero con velocità diverse. Un’altra conferma a questa teoria viene dalla constatazione che la maggior parte delle subduzioni avviene verso est (cioè verso la direzione in cui il mantello ruota a una velocità maggiore della litosfera) e dall’inclinazione dei piani di subduzione: quando la subduzione avviene verso est, l’angolo del piano di subduzione ha valori compresi tra 15° e 40°, poiché la subduzione segue il movimento verso est del mantello; mentre, se avviene verso ovest, l’inclinazione può raggiungere valori di 90°, poiché in questo caso la subduzione viene frenata dal movimento verso est del mantello.