La superficie terrestre presenta una grande varietà di paesaggi, che sono il risultato dell’azione continua e incessante degli agenti geomorfologici. Tra essi distinguiamo agenti geomorfologici endogeni e agenti esogeni, che agiscono smantellando i rilievi, attraverso l’erosione delle rocce: l’atmosfera, che opera una degradazione meteorica delle rocce, attraverso la disgregazione fisica e l’alterazione chimica; le acque piovane che, agendo sulle rocce calcaree, determinano il fenomeno del carsismo; il vento, che agisce soprattutto in zone a clima arido e prive di copertura vegetale; i fiumi, che scavano valli con profilo a “V” e costruiscono pianure alluvionali; i ghiacciai, che con il loro impercettibile ma continuo movimento scavano valli dal profilo a “U” e depositano morene; infine i mari, che agiscono incessantemente sulle coste.
Sulla superficie terrestre si può osservare una notevole varietà di paesaggi e, col passare del tempo, uno stesso paesaggio può subire modificazioni: tutto ciò è il risultato dell’azione degli agenti geomorfologici (dal greco geo, terra e morphé, forma), capaci di modellare la superficie terrestre variandone continuamente e incessantemente l’aspetto. Tra gli agenti geomorfologici, alcuni tendono a costruire nuova crosta terrestre, a sollevare le rocce della crosta terrestre e formare così dei rilievi, altri, invece, agiscono livellando e spianando i rilievi attraverso l’erosione delle rocce. Tra i primi sono compresi i fenomeni orogenetici, sismici e vulcanici, che costituiscono agenti geomorfologici endogeni, poiché si originano all’interno della Terra: escludendo l’orogenesi, che richiede tempi lunghi, essi agiscono in modo discontinuo e in tempi brevi. Il secondo gruppo, agenti esogeni, comprende invece l’atmosfera e i fenomeni che in essa si verificano (per esempio, i venti e le precipitazioni), i fiumi, i ghiacciai e i mari. Sono detti agenti geomorfologici esogeni, poiché si originano all’esterno della Terra; essi agiscono in modo continuo e il risultato della loro azione è visibile in tempi lunghi. Gli agenti geomorfologici esogeni agiscono attraverso tre momenti comuni: l’erosione delle rocce, il trasporto dei materiali provenienti dall’erosione e il loro deposito. Inoltre, l’intensità dell’erosione operata dagli agenti esogeni non è la stessa su tutta la superficie terrestre: oltre che dalla durata dell’azione degli agenti esogeni, l’erosione dipende anche dalle condizioni climatiche, dall’altimetria, dalle caratteristiche litologiche della zona e dalla copertura vegetale. Infatti, dal clima dipendono la piovosità e la temperatura, l’azione erosiva delle acque è maggiore su territori a forte pendenza, alcuni tipi di rocce sono più facilmente erodibili di altre e la presenza della vegetazione riduce e rallenta l’erosione.
L’atmosfera e i fenomeni che in essa avvengono sono importanti agenti di modellamento della superficie terrestre: essi agiscono sulle rocce affioranti attraverso un insieme di processi che vengono complessivamente indicati come degradazione meteorica, che comprende processi di disgregazione fisica (prevalenti in ambienti aridi) e di alterazione chimica (prevalenti in ambienti umidi).
Sono prevalentemente di tipo meccanico, o clastico (dal greco klázo, rompo), e comportano la rottura di una roccia in frammenti via via più piccoli. I più importanti sono il crioclastismo, il termoclastismo, l’idroclastismo e la rottura per decompressione.
Il crioclastismo: è il processo di rottura di una roccia dovuto all’aumento di volume dell’acqua quando questa ghiaccia solidificandosi. Interessa in particolare le rocce porose e quelle fratturate, che offrono spazi vuoti che possono essere colmati dall’acqua. Negli ambienti caratterizzati da numerosi cicli di gelo-disgelo (dove la temperatura passa con frequenza da valori inferiori a 0°C a valori superiori) l’acqua, solidificando, aumenta di volume ed esercita sulle pareti della roccia una pressione che tende ad allargare le fessure. Con il ripetersi del fenomeno, le fratture diventano sempre più profonde, finché la roccia si frantuma in blocchi disarticolati l’uno dall’altro. I frammenti, detti crioclasti, di norma a spigoli vivi, hanno dimensioni variabili, che dipendono dalle condizioni originarie della roccia, dal numero delle fratture, dal volume dei pori ecc. Il termoclastismo: è un fenomeno caratteristico delle zone climatiche con forti e frequenti escursioni termiche giornaliere ed è dovuto alla bassa capacità termica delle rocce. Gli ambienti in cui il fenomeno è più evidente sono i deserti caldi e le zone alpine al di sopra del limite del pascolo, data l’assenza di coltre vegetale capace di mitigare gli effetti dell’irradiazione solare diretta sulle rocce. Il riscaldamento delle rocce durante le ore di luce e il loro raffreddamento di notte provocano, alternativamente, la dilatazione e la contrazione delle rocce affioranti, che a seguito del ripetersi del fenomeno tendono a disgregarsi. Più in dettaglio, i differenti coefficienti di dilatazione di ciascun minerale, il differente assorbimento di calore (che varia in ragione delle tonalità di colore) dei singoli cristalli, la loro attitudine a riflettere o ad assorbire la radiazione luminosa provocano micromovimenti differenziali che a poco a poco ne inducono la separazione. Il fenomeno interessa soprattutto gli strati superficiali delle rocce, provocandone la desquamazione, la fratturazione, l’esfoliazione e la disgregazione; i frammenti di roccia derivanti da questo processo prendono il nome di termoclasti.
L’idroclastismo: è un fenomeno legato alla proprietà di alcune rocce di assumere con facilità acqua in ambiente umido e di perderla per evaporazione in ambiente secco (igroscopia). Nel primo caso si dilatano, nel secondo si contraggono: la variazione volumetrica le rende soggette a particolari forme di disfacimento. Il fenomeno è tipico delle argille, che quando piove si “gonfiano”, mentre quando il clima è arido si fessurano profondamente e si desquamano in superficie; il reticolo di fessure profonde e la copertura di squame rendono disaggregata la roccia, esponendola più facilmente a ulteriori processi d’erosione e di degrado. La rottura per decompressione è provocata dalla mobilizzazione della porzione più superficiale di un versante (per frana, per erosione o anche per opera dell’uomo), che determina l’affioramento della roccia sottostante. Per effetto della decompressione, la roccia può andare soggetta a fenomeni di dilatazione, che possono portare a fratturazione lungo preesistenti giunti di discontinuità o di stratificazione o di scistosità oppure lungo litoclasi (fratture dovute a movimenti della crosta terrestre).
L’acqua e i gas dell’aria sono in grado di reagire chimicamente con i minerali delle rocce, dando luogo a complessi processi di alterazione chimica e creando vari tipi di prodotti d’alterazione. I più importanti processi di alterazione chimica sono l’ossidazione, l’idratazione, la carbonatazione e l’idrolisi.
L’ossidazione: è un processo per cui molti minerali cristallizzati in un ambiente riducente a contatto con l’ossigeno atmosferico si ossidano e generano ossidi e idrossidi. Il processo è molto vistoso nei minerali del ferro: per esempio, la pirite di solfuro di ferro ($FeS_2$) si trasforma in solfato($FeSO_4$); altri minerali danno origine a ossidi, quali l’ematite ($Fe_2 O_3$) e la magnetite ($Fe_3O_4$). Tali processi sono resi evidenti dalla colorazione che assume il materiale alterato: infatti, gli ossidi di ferro hanno toni cromatici rossi in diverse sfumature. In seguito all’ossidazione, le superfici esposte delle rocce si coprono sovente di una patina di colore diverso rispetto alla roccia inalterata: sono particolarmente vistose quelle tipiche delle regioni aride, che prendono il nome di “vernice del deserto”. Altre coltri, dall’aspetto di crosta o di spalmatura, sempre intensamente colorate, si generano lungo le litoclasi che percorrono la massa rocciosa; in questo caso sono dovute, oltre all’azione dell’ossigeno, anche a quella dell’acqua che percola lungo il piano di frattura.
L’idratazione: è un processo dovuto al fatto che alcuni minerali, a contatto con l’umidità dell’aria o con l’acqua che scorre in superficie, possono fissare molecole d’acqua, che comportano il cambiamento della configurazione cristallina dei minerali: per esempio, per idratazione, l’anidrite, solfato di calcio anidro, $CaSO_4$, si trasforma in gesso, solfato di calcio biidrato $CaSO_4$ $2H_20$. L’assunzione di molecole d’acqua comporta anche un aumento di volume dei corpi rocciosi. La deformazione che ne consegue può dare l’avvio ad altri processi di tipo dinamico, come crolli o frane.
La carbonatazione: è un processo che interessa il carbonato di calcio, sale che forma la calcite, il minerale dominante del calcare (una roccia estremamente diffusa sulla superficie terrestre). Il carbonato di calcio (CaCO_3) è insolubile in acqua pura, ma diventa solubile se l’acqua contiene una quantità anche piccola di anidride carbonica (CO_3). L’acqua piovana, che contiene disciolta l’anidride carbonica, è in grado di reagire con il carbonato di calcio e di produrre bicarbonato acido di calcio, Ca(HCO3)2 , secondo la reazione di equilibrio (indicata dalla doppia freccia):
Il bicarbonato di calcio è solubile e può essere asportato dalle acque circolanti. In tal modo si originano quei processi di corrosione chimica che sono alla base del fenomeno del carsismo. Reazioni analoghe a quelle descritte interessano altre rocce, come la dolomia, formata di dolomite, un carbonato doppio di calcio e magnesio:
Anche in questo caso il carbonato, insolubile, si trasforma in un bicarbonato, solubile.
L’idrolisi: è una complessa reazione chimica fra l’acqua e i silicati ed è assai diffusa, data l’estrema abbondanza di rocce contenenti minerali silicati. L’azione dell’acqua è determinata dalla sua capacità di dissociarsi in ioni idrogeno positivi ($H^+$) e ioni ossidrile negativi ($OH^-$). Tali ioni aggrediscono i silicati presenti nelle rocce e ne liberano gli ioni metallici: questi, legandosi agli ioni ossidrile, formano delle basi che passano in soluzione, mentre i silicati si trasformano in silicati idrati. Non tutti i minerali silicati subiscono il processo di idrolisi allo stesso modo. Alcuni, come i feldspati e la biotite, sono più alterabili; altri, come la muscovite e soprattutto il quarzo, lo sono molto meno. Rocce policristalline, come il granito, in ambiente caldo-umido vanno, dunque, soggette a processi di alterazione differenziale. I processi di idrolisi si verificano in quasi tutti gli ambienti, ma con velocità che tende ad aumentare con l’aumentare della temperatura e dell’umidità (l’idrolisi dei silicati è particolarmente intensa nelle zone equatoriali e tropicali, caratterizzate da condizioni di umidità e temperatura elevate).
Il carsismo è un fenomeno erosivo, conseguenza del processo di carbonatazione, in cui l’acqua piovana, che contiene disciolta l’anidride carbonica, altera chimicamente i rilievi calcarei e ne erode numerose porzioni, fino a creare un paesaggio ricco di forme particolari. La reazione di carbonatazione è accelerata dal calore e, di conseguenza, i climi più favorevoli al processo carsico sono quelli tropicali e temperati. L’acqua che si infiltra nel massiccio carsico esercita la sua azione mediante processi sia di corrosione chimica, sia di erosione meccanica. Perché il processo progredisca nello spazio e nel tempo, occorre che la roccia sia fratturata, in modo che le acque meteoriche penetrino in profondità. Queste acque meteoriche, una volta penetrate, circolano nel sottosuolo seguendo le fessure delle rocce, che contribuiscono ad allargare, e possono riaffiorare attraverso le sorgenti. Il nome del processo deriva dalla zona del Carso, in Friuli Venezia-Giulia, dove è particolarmente evidente (in Italia paesaggi carsici sono molto diffusi anche nell’Appennino centrale e in Puglia). Il carsismo è chiamato epigeo quando interessa le rocce solubili affioranti in superficie e ipogeo quando agisce in profondità: nei due casi hanno origine numerose formazioni caratteristiche, alcune delle quali particolarmente spettacolari.
Le formazioni tipiche più significative sono le doline, le uvala e i polje. Una dolina è una conca chiusa, depressa rispetto al piano di campagna, talvolta provvista di un inghiottitoio, che raccoglie le acque meteoriche e le convoglia in cavità sotterranee. Le pareti e il fondo di una dolina possono essere fratturati e permeabili all’acqua; se le fessure sono riempite del residuo insolubile del processo di carbonatazione, detto terra rossa (costituita da argille e piccole quantità di ossidi di ferro), il drenaggio può essere totalmente o parzialmente impedito. Nel primo caso, sul fondo della dolina occhieggia un laghetto; nel secondo caso ristagna una palude, limitata ai periodi di maggiore precipitazione. Le dimensioni di una dolina variano in modo anche considerevole(il diametro della conca può essere di pochi metri, ma anche di oltre 1 km; la profondità oscilla tra 1-2 m e 200 m). Il profilo di una dolina può essere ellittico, subcircolare, lobato o irregolare, in particolare quando deriva dalla fusione di doline più piccole che, ingrandendosi per solubilizzazione progressiva delle pareti che le separavano, vengono a contatto con i loro contorni fino a unirsi insieme. Le uvala sono depressioni molto grandi, dal contorno lobato e del diametro sovente superiore ai 1000m. Derivano dalla fusione di doline contigue, ciascuna in allargamento per corrosione progressiva delle pareti. I polje, detti anche foibe, sono depressioni chiuse, di dimensioni enormi (anche decine di km2) con un fondo pianeggiante, a pendenza debolissima, raccordato con un angolo brusco a pareti erte. Tra le forme del carsismo epigeo ricordiamo infine i campi solcati, detti anche campi carreggiati; sono zone calcaree che presentano numerosi solchi, più o meno paralleli e con profondità variabile da pochi centimetri a qualche metro, separati da creste ora arrotondate ora aguzze e taglienti; si originano per scorrimento e dissoluzione operata dalle acque meteoriche sulla superficie di rocce calcaree.
Il carsismo ipogeo è oggetto di studio di una vera e propria scienza, la speleologia (dal latino spelaeum, caverna). L’azione dell’acqua contenente disciolta anidride carbonica nelle cavità ipogee varia nel tempo. Dapprima si manifesta appena al di sotto della superficie; con il passare del tempo si attivano, per corrosione, nuove vie di flusso delle acque, più profonde, che permettono il verificarsi dei processi di solubilizzazione a livelli via via inferiori. La circolazione delle acque all’interno delle rocce calcaree crea l’insieme delle forme ipogee, che sono principalmente pozzi e grotte:
pozzi fusiformi: o fusi, cavità allungate in senso verticale, assottigliate alle due estremità, si creano in corrispondenza agli spazi più ricchi di fratture grotte: formatesi per progressiva compenetrazione dei singoli pozzi fusiformi in espansione. La varietà delle forme, le diverse strutture che si formano in ragione dei processi corrosivo-deposizionali (a loro volta condizionati dal clima, dalla litologia, dalla tettonica, dalla geomorfologia) fanno delle grotte carsiche un ambiente molto caratteristico gallerie: lunghe condotte orizzontali abissi: pozzi a sviluppo verticale. All’interno delle grotte, l’anidride carbonica disciolta nelle acque può liberarsi (per esempio, perché aumenta la superficie evaporante dell’acqua, che esce dalle fessure in gocce, e nello stesso tempo diminuisce la pressione): perciò, il bicarbonato disciolto nelle acque si trasforma in carbonato di calcio, che precipita in una forma amorfa, detta alabastro, e origina così le stalattiti, le stalagmiti e le colonne. Le stalattiti: sono esili forme coniche o cilindriche, che pendono dalla volta della grotta, di lunghezza variabile da pochi centimetri a diversi metri; le stalattiti, per accrezione progressiva, aumentano di lunghezza e di diametro. Le stalagmiti: sono forme mammellonari, a cupole sovrapposte, che si sviluppano sul pavimento della grotta là dove cade la goccia che si stacca dal soffitto. In questo caso è l’urto a terra a provocare la precipitazione del carbonato di calcio. Le colonne: si formano per prolungamento verso il basso delle stalattiti e crescita verso l’alto delle stalagmiti; hanno diametro variabile e sono rastremate al centro.
Il vento modella la superficie terrestre soprattutto in zone in cui la copertura vegetale è ridotta o assente, particolarmente nei deserti, ma anche in altre zone a clima arido o semiarido e sulle cime più alte delle catene montuose. L’azione di modellamento eolico (da Eolo, dio dei venti nella mitologia greca) è invece minima là dove la superficie terrestre è coperta da un rivestimento vegetale continuo, che la protegge sia dalla disgregazione fisica, sia dall’alterazione chimica. L’azione erosiva del vento dipende dall’energia che, per attrito, esso trasferisce alla superficie delle rocce, la quale è a sua volta proporzionale alla velocità del vento.
Il modellamento eolico si esercita attraverso la deflazione e la corrasione. La deflazione consiste nel sollevamento e nell’asportazione dei singoli frammenti prodotti dalla disgregazione fisica delle rocce: in questo modo le rocce vengono continuamente messe a nudo subendo la degradazione meteorica, soprattutto per termoclastismo. Questo incessante denudamento produce formazioni che prendono il nome di deserto roccioso, o hamada (così chiamati nel Sahara), enormi distese di rocce da cui il vento asporta continuamente i materiali prodotti dalla disgregazione fisica. Se, invece, la zona desertica è costituita da materiale roccioso incoerente, la deflazione rimuove solo i materiali più fini lasciando in luogo ciottoli e ghiaie: si originano allora deserti ciottolosi, o serir (così chiamati nel Sahara). Dopo aver sollevato le singole particelle, il vento le trasporta con modalità e per distanze diverse a seconda delle loro dimensioni: a parità di energia del vento, i materiali più fini, quali le polveri, i limi e le argille, vengono trasportati in sospensione per lunghe distanze, anche centinaia di chilometri, prima di depositarsi. I granuli di sabbia vengono trasportati per saltazione per tragitti più brevi, cioè il vento fa compiere loro un salto tanto più lungo quanto minori sono le loro dimensioni. I materiali più grossolani, quali ciottoli o grossi granuli sabbiosi, vengono invece trasportati per rotolamento sulla superficie terrestre e si accumulano in depressioni preesistenti. Nelle zone aride, dove la copertura vegetale è molto ridotta, il vento è in grado di sollevare grandi masse di materiale fine, dando origine alle tempeste di polvere. La polvere trasportata dal vento non deriva solo dalla disgregazione delle rocce, ma può essere anche di origine vulcanica: durante le eruzioni vulcaniche vengono eiettate nell’alta atmosfera enormi quantità di ceneri, che sono prese in sospensione dalle correnti stratosferiche e possono compiere fino a migliaia di chilometri prima di sedimentare al suolo o sulla superficie oceanica. La dispersione in atmosfera di queste ceneri può provocare importanti modificazioni climatiche. La corrasione è l’azione abrasiva esercitata direttamente dal vento attraverso i granuli che esso trasporta e che colpiscono le superfici esposte di roccia nuda, modellandola. È particolarmente attiva quando granuli duri, per esempio di quarzo, agiscono su rocce tenere, quali arenarie a cemento calcareo. Le rocce vengono così variamente smerigliate e lisciate e possono assumere forme insolite e curiose, che dipendono, oltre che dal diverso grado di compattezza della roccia, anche dalla velocità del vento e dalla sua direzione.
Le forme più tipiche di deposito eolico sono le dune, rilievi di materiale sabbioso costruiti dal vento. Esse hanno generalmente un profilo asimmetrico, con il versante sopravento (cioè esposto al vento) a pendenza dolce e quello sottovento più erto. In base alla loro evoluzione, si possono distinguere le dune attive, o viventi, e le dune fisse, o inattive. Le dune attive, o viventi, sono continuamente in via di modellamento, perché prive di una copertura vegetale in grado di proteggerle dalla deflazione eolica. Esse si spostano secondo la direzione del vento: il movimento coinvolge le singole particelle di sabbia, che rotolano lungo il lato sopravento e precipitano oltre la cresta, inducendo nel loro insieme il movimento dell’intero rilievo. Le dune fisse, o inattive, sono invece ricoperte da una coltre vegetale che contribuisce a stabilizzarle. Esse si sono originate, infatti, come dune mobili, sovente in periodi caratterizzati da clima più arido; successivamente l’aumento delle precipitazioni, favorendo la nascita della vegetazione, ne ha cambiato l’assetto dinamico. La stabilizzazione della duna può anche essere dovuta all’azione dell’uomo, interessato a recuperare all’uso il rilievo, oppure a impedire che il cumulo di sabbia in movimento seppellisca terreni coltivati o manufatti.
I fiumi sono importanti agenti di modellamento della superficie terrestre, che agiscono in modo molto incisivo solo lungo il loro percorso. Essi tendono ad abbassare il loro alveo al livello base, al di sotto del quale non possono più svolgere attività erosiva; il livello base definitivo corrisponde al livello marino, ma si può anche individuare un livello base provvisorio, che corrisponde alla confluenza del fiume con un altro corso d’acqua. Come gli altri agenti geomorfologici, anche i fiumi esercitano la loro azione attraverso l’erosione, il trasporto e il deposito: di seguito verranno descritte le principali forme di erosione e di deposito fluviali e infine la “vita” di un fiume, analizzandone il ciclo di erosione.
È un deposito eolico formato da sabbia fine e limo di origine glaciale, in quanto deriva dai depositi morenici (materiali erosi, trasportati e depositati dai ghiacciai), privi di copertura vegetale: le correnti d’aria trascinano via in sospensione da tali depositi la frazione fine del sedimento e la depositano là dove perdono di energia (per esempio, quando urtano contro un ostacolo: ai piedi di quest’ultimo il loess si accumula in masse di colore giallo-grigio, dagli spessori notevoli, fino a decine di metri). I più grandi depositi di loess si formarono durante le glaciazioni pleistoceniche, periodi caratterizzati sia dall’erosione diretta dei ghiacciai, sia dal denudamento dei versanti conseguente alla mutazione climatica, che distrusse il manto di alberi e di erbe adattato alle condizioni di temperatura e di piovosità dei periodi interglaciali. Vasti accumuli di loess, che raggiungono lo spessore di 90 m, si trovano in Cina settentrionale; sono portati dal vento che, fin dai periodi glaciali, spazza i deserti artici siberiani spirando dal polo Nord verso sud. In Italia, il loess costituisce una stretta fascia continua di depositi ai piedi della Collina di Torino e di quasi tutto l’Appennino emiliano. Tali rilievi costituivano i primi ostacoli incontrati dai venti provenienti dalle vallate alpine, festonate al loro sbocco dagli anfiteatri morenici creati dalle avanzate glaciali (probabilmente in corrispondenza delle glaciazioni verificatesi nell’era quaternaria). A seconda degli ambienti di sedimentazione, esistono diversi sottotipi di loess: quello deposto in acqua, quello fluitato da correnti idriche, quello rimaneggiato in ambiente aereo.
L’attività erosiva di un fiume dipende dalle caratteristiche delle rocce su cui scorre, dalla pendenza dell’alveo e dalla portata del fiume, caratteristiche queste ultime che determinano la velocità delle acque; inoltre, l’abrasione delle rocce da parte di un fiume è aumentata dalla presenza nelle acque dei materiali trasportati; a questa attività di tipo meccanico se ne aggiunge anche una di tipo chimico, di corrosione più o meno veloce delle rocce su cui l’acqua scorre. Le forme di erosione tipiche di un fiume sono le valli fluviali e le cascate. Le valli fluviali presentano un profilo trasversale a forma di “V”, poiché l’erosione fluviale è attiva solo lungo il fondovalle, dove si trova l’alveo del fiume, mentre sui fianchi della valle sono attivi fenomeni di degradazione meteorica, che in genere agiscono più lentamente (se l’erosione del fondovalle procede molto più rapidamente di quella dei fianchi, si origina una valle molto stretta, dai fianchi quasi verticali, a cui si dà il nome di gola). Le cascate corrispondono a salti bruschi del letto fluviale, sovente dovuti a discontinuità tettoniche. Sono forme effimere,destinate ad attenuarsi per l’erosione della corrente. Questa, particolarmente energica data la velocità assunta nella caduta, nell’impatto alla base del gradino acquista un moto vorticoso e, grazie anche alla presenza di materiali grossolani trasportati, intaglia nella roccia affiorante delle cavità subsferiche, dette marmitte dei giganti, che favoriscono il crollo progressivo della scarpata. Nel tempo, la cascata si trasforma in una rapida, cioè un tratto di fiume a forte pendenza.
Le forme di deposito fluviale più tipiche sono i conoidi di deiezione e le pianure alluvionali.
I conoidi di deiezione: sono depositi a forma conica o a ventaglio, con apice rivolto a monte e con profilo trasversale convesso. Sono formati da sedimenti grossolani, disposti in bande longitudinali a raggiera, che si depositano dove il fiume, uscendo da una ripida valle, sbocca improvvisamente in pianura: in questo punto, la diminuzione della velocità delle acque provoca il deposito dei materiali trasportati e la formazione del conoide. Le pianure alluvionali: si formano, invece, per deposito dei detriti trasportati da un fiume, che progressivamente riempiono zone depresse (estesi bacini lacustri o bracci di mare): la sedimentazione fluviale tende ad alzare l’alveo e col tempo gli argini non sono più in grado di contenere le acque, che tracimano provocando alluvioni che depositano i materiali più fini sulla pianura circostante. Un esempio di pianura alluvionale è la Pianura Padana, formatasi per riempimento di un braccio di mare a opera del Po e dei suoi affluenti.
Con la loro azione di erosione, trasporto e deposito, i fiumi non solo modellano il territorio in cui scorrono, ma modificano continuamente anche la loro pendenza: osservando il profilo longitudinale di un fiume dalla sorgente alla foce, si nota che la pendenza è massima nell’alto corso del fiume e decresce verso la foce. I fiumi tendono a ridurre le differenze di pendenza e a raggiungere un profilo d’equilibrio, caratterizzato cioè da una pendenza tale che l’energia della corrente non è più in grado di erodere: tuttavia questa è una situazione ideale, che nessuno dei fiumi sulla Terra ha raggiunto. Per spiegare le caratteristiche morfologiche di diverse aree della Terra, all’inizio del ’900 il geomorfologo americano W. M. Davis propose il concetto di ciclo di erosione fluviale, costituito dall’insieme di tre fasi della vita di un fiume, ciascuna caratterizzata da particolari aspetti del territorio: la giovinezza, la maturità e la vecchiaia.
Giovinezza: L’area percorsa dal fiume è sollevata rispetto al livello di base (per esempio, a seguito di un’orogenesi) e presenta notevoli dislivelli; la maggiore pendenza fa sì che prevalga l’erosione. Il rilievo rapidamente si attenua, mentre le correnti trasportano e depositano a valle i sedimenti erosi. Maturità: Il modellamento ha ridotto i dislivelli lungo il corso del fiume, la velocità delle acque si è attenuata e prevale l’azione di trasporto. Lo spazio fisico è ora costituito da profili addolciti e da fondovalle alluvionati. Vecchiaia: Il paesaggio naturale diventa ancora più morbido; gli spartiacque si abbassano e le pendenze dell’alveo si riducono, in modo che l’energia della corrente è appena sufficiente per il trasporto di se stessa. La regione è ormai spianata. Lo spazio fisico si è trasformato in un penepiano, cioè in una superficie “quasi piana”. I pendii addolciti fungono da spartiacque tra valli allargate e alluvionate. I corsi d’acqua che drenano un bacino “peneplanizzato” hanno una pendenza tale che l’energia della corrente non è più in grado di erodere. Un tale fiume, se esistesse, avrebbe raggiunto il proprio profilo d’equilibrio definitivo, rappresentabile dalla sorgente alla foce con una curva uniformemente concava verso l’alto e tendente al livello di base. Ma, come abbiamo detto prima, questo quadro di perfetta stabilità è solo teorico. Ciò è dovuto al fatto che variazioni climatiche, o la ripresa dei fenomeni endogeni, provocano un’interruzione del ciclo di erosione e modificazioni dei processi di modellamento: si verifica, cioè, un ringiovanimento del rilievo e ha inizio un nuovo ciclo di erosione.
Anche i ghiacciai, con il loro lento e impercettibile movimento, sono agenti di modellamento della superficie terrestre, pur se di minore estensione rispetto a quella interessata da altri agenti geomorfologici: infatti, i ghiacciai agiscono prevalentemente in aree situate al di sopra del limite delle nevi perenni. Il movimento dei ghiacciai avviene con modalità diverse rispetto alle correnti fluviali. In particolare, la massa solida del ghiacciaio, a differenza di un fiume:
Il ghiacciaio in movimento esercita un’intensa azione erosiva, chiamata esarazione, che può esplicarsi tramite l’abrasione o lo sradicamento. L’abrasione: è dovuta ai ciottoli o ai frammenti di roccia solidalmente incastrati nella massa di ghiaccio, che entrano in contatto con il substrato su cui il ghiacciaio si muove. L’intensità dell’azione abrasiva dipende dal tipo di rocce costituenti sia il substrato, sia i materiali detritici trasportati dal ghiaccio, dalla velocità dello spostamento e dal volume del ghiaccio. Lo sradicamento: consiste nella rimozione di blocchi interi di substrato, che vengono estirpati dalla spinta della massa, particolarmente energica in profondità. Sono più facilmente soggette al fenomeno masse rocciose fagliate o che hanno subito gli effetti del crioclastismo.
Tra le forme d’erosione dei ghiacciai si ricordano le valli glaciali, i circhi glaciali e le rocce montonate. La valle glaciale: presenta un tipico profilo trasversale a “U”, con fondo largo e piatto e fianchi ripidi, dovuto al meccanismo erosivo del ghiacciaio, che, contrariamente a quanto avviene per un fiume, si esercita lungo tutta la sezione di contatto tra il ghiaccio e la roccia incassante. Il circo glaciale: ha la forma di una conca, circondata su tre lati da una corona di creste e con soglia talora in contropendenza che la raccorda con il resto della valle glaciale. È scavato dal bacino collettore, che esercita una sorta di erosione regressiva sui versanti incassanti. Le rocce montonate: sono dossi rocciosi arrotondati e allungati nella direzione di scorrimento del ghiaccio, costituiti da affioramenti di rocce più difficilmente erodibili e modellate dall’esarazione. L’abrasione vi scava solchi paralleli: dalla direzione del loro allungamento è possibile risalire alla direzione e al verso in cui è avvenuto il movimento del ghiacciaio.
Tra le forme di deposito glaciale si citano le morene e i massi erratici. Le morene sono depositi formati da materiali di diverso diametro, ammassati caoticamente senza alcun cenno di stratificazione, derivanti in parte da processi di esarazione e in parte da crolli dai versanti sul ghiacciaio. A seconda della posizione è possibile distinguerne vari tipi:
morena di fondo: che occupa l’interfaccia tra il ghiaccio e la roccia sottostante morena intermedia: formata dai materiali che sono incastonati nella massa di ghiaccio (per esempio, morene superficiali sepolte dalle nevicate degli anni successivi) morena laterale: che si configura come un doppio nastro sui bordi della lingua glaciale, a contatto con i versanti che la riforniscono di materiale terrigeno (frammenti di rocce e di suolo) tramite crolli e frane morena mediana: striscia rilevata di materiale terrigeno, deposta sulla superficie della lingua parallelamente al suo asse maggiore, che si origina in seguito all’unione di due morene laterali contigue alla confluenza di due lingue glaciali morena frontale: che deriva dall’unione di tutti i tipi di morena che confluiscono insieme all’apice della lingua glaciale, via via che il ghiaccio si scioglie; forma in genere un arco a concavità rivolta verso monte e ad apici rastremati.
I ghiacciai vallivi, dopo avere raggiunto il loro massimo sviluppo durante le glaciazioni dell’era quaternaria, nei periodi interglaciali si ritirarono, abbandonando sul terreno le morene che avevano trasportato: il ritiro dei ghiacciai, avvenuto attraverso il susseguirsi di ritiri veloci e di fasi stazionarie, ha prodotto gli anfiteatri morenici, depositi formati da una serie di cordoni morenici a forma di anfiteatro. Gli anfiteatri sono oggi conservati solo in parte, perché anch’essi soggetti all’erosione. Tra i maggiori anfiteatri morenici in Italia ricordiamo quelli immediatamente a sud dei laghi prealpini Maggiore, di Como e di Garda e quello di Ivrea, in Piemonte. I massi erratici sono enormi blocchi di roccia trasportati a valle dal ghiacciaio e là abbandonati dopo il ritiro.
Mentre gli agenti geomorfologici prima considerati esercitano la loro azione su una superficie, il mare agisce lungo una linea, la linea di costa, cioè la linea che segna il confine tra le terre emerse e il mare. L’azione geomorfologica del mare è dovuta soprattutto al moto ondoso e, in misura minore, anche alle correnti marine e alle maree e può provocare l’arretramento della linea di costa, se prevale l’azione erosiva, o il suo avanzamento, se invece prevale l’azione di deposito. Nel complesso, il risultato dei due tipi di azione è una rettifica della linea di costa, che, col passare del tempo, subisce continue variazioni.
L’attività erosiva del mare prende il nome di abrasione marina ed è dovuta non solo all’azione diretta delle onde, ma anche ai detriti che esse trasportano e che scagliano contro la costa. Essa si manifesta soprattutto lungo le coste alte e rocciose, dove, per interferenza tra onda e fondale, l’azione dell’onda crea, in corrispondenza al livello medio del mare, un solco, detto solco di battigia, che va progressivamente approfondendosi; mancandole il sostegno, la parete rocciosa sovrastante crolla: il fenomeno è tipico delle falesie, coste alte e rocciose, a volte a strapiombo sul mare, che nel tempo arretrano verso il continente, lasciando il posto a una piattaforma d’erosione.
Lungo le coste basse prevale l’azione di deposito dei detriti trasportati dal mare, che si verifica quando, per motivi diversi, la velocità delle onde e delle correnti marine diminuisce. Si formano in questo modo le spiagge, costituite da materiale sciolto e di piccole dimensioni (ciottoli, ghiaie e sabbie), che degradano dolcemente verso il mare e la cui larghezza può variare a seconda della pendenza della spiaggia, del tipo di moto ondoso e dell’altezza delle maree: su coste oceaniche piatte, caratterizzate da alte e basse maree particolarmente pronunciate, la spiaggia può essere larga anche parecchi chilometri. Sovente la spiaggia è conclusa verso la terraferma da un cordone di dune, a volte lungo molti chilometri, parallelo alla battigia (la zona della spiaggia battuta dalle onde) e che deriva dall’accumulo di sabbia in presenza di venti dominanti. A volte i detriti vengono depositati in mare a una certa distanza dalla linea di costa, dove le onde dirette verso la costa e la risacca (l’onda di ritorno) si incontrano e si annullano: si forma così un cordone litoraneo sottomarino, che col passare del tempo può emergere e originare un lido, sorta di isola allungata, parallela alla costa. Collegandosi alla terraferma, i lidi possono delimitare e isolare tratti di mare e dare origine alle lagune, specchi d’acqua in cui è ridotta la comunicazione col mare aperto.
La classificazione delle coste può basarsi sulla loro morfologia o sulla loro origine. In base alla classificazione morfologica si distinguono:
coste alte e profonde: ripide, strapiombanti in mare a falesia, con scarpate verticali che continuano anche al di sotto del livello marino coste alte con spiaggia: dove a un tratto emerso molto alto segue un arenile che si sommerge gradualmente. Sovente derivano dalle prime, per crollo di parte del versante, accumulo alla base dei materiali provenienti dal crollo e loro ridistribuzione a opera dei movimenti marini coste a ripe arretrate con spiaggia: dove una spianata litoranea più o meno spaziosa è conclusa verso la terraferma da un gradino morfologico, che può avere origini diverse (una faglia, una scarpata di un antico terrazzo marino ecc.) coste basse: caratteristiche delle zone dove una pianura alluvionale costiera si sommerge gradualmente nello specchio marino antistante.
La classificazione in base all’origine tiene conto della genesi della costa; si distinguono: