Lo strato superficiale della crosta terrestre in cui le piante affondano le loro radici è detto suolo: esso deriva dalla disgregazione fisica e dall’alterazione chimica delle rocce affioranti, dovute all’azione dell’atmosfera e degli organismi viventi, sia vegetali sia animali. Il suolo è costituito da una componente minerale proveniente dalla degradazione delle rocce, e da una componente organica, detta humus, formata dalla decomposizione dei resti degli organismi viventi; esso, inoltre, contiene acqua e aria. In un suolo si possono riconoscere diversi strati, ciascuno con particolari caratteristiche, detti orizzonti, che nel loro insieme costituiscono il profilo di un suolo. Dalla composizione di un suolo dipendono alcune caratteristiche, quali per esempio la tessitura, la porosità e la struttura, che lo rendono più o meno adatto allo sviluppo delle piante e da cui dipendono anche alcuni processi che nel suolo si svolgono.
Un suolo è la parte più superficiale della crosta terrestre, comunemente detto anche terreno, dello spessore variabile da pochi centimetri a qualche metro e in cui si sviluppano le radici delle piante. Il suolo si origina attraverso un lento e lungo processo di disgregazione fisica e di alterazione chimica delle rocce, operato sia dall’atmosfera, sia dagli organismi viventi, vegetali e animali. I processi che disgregano e alterano le rocce esposte agli agenti atmosferici generano prodotti di disfacimento (detriti incoerenti), che possono accumularsi in loco oppure subire destini diversi: possono essere trasportati da agenti quali i ghiacciai, il vento e i corsi d’acqua e accumularsi altrove. L’accumulo dei prodotti del disfacimento meteorico crea una coltre, o mantello detritico, che a seconda delle condizioni può costituire una pellicola sottile, dello spessore di pochi centimetri, oppure raggiungere lo spessore di parecchi metri. Sulla coltre di materiale detritico e anche sulla roccia inalterata si insediano organismi pionieri, cioè i primi organismi – quali licheni, batteri, alghe e muschi – che contribuiscono all’alterazione della roccia o dei detriti rocciosi attraverso un’azione di tipo biochimico, per mezzo di sostanze che essi stessi producono. L’accumularsi dei loro residui organici permette la formazione di un sottile strato che rende ora possibile anche l’insediamento di piante più esigenti– dapprima erbe, poi arbusti e infine alberi – le quali continuano ad agire sul substrato roccioso anche attraverso un’azione di tipo meccanico, penetrando a forza con le loro radici tra le fessure presenti nella roccia e contribuendo a disgregarla. Successivamente anche protozoi e organismi animali (per esempio, anellidi, nematodi, larve di insetti e molluschi) partecipano alla formazione del suolo. I resti di tutti gli organismi vegetali e animali vengono poi decomposti da diversi microrganismi e generano l’humus L’insieme dei processi che portano alla formazione di un suolo è detto pedogenesi (dal greco pédon, terreno); la pedologia è la scienza che studia i suoli, la loro composizione, le loro caratteristiche, la loro origine e la loro evoluzione.
La genesi dei suoli è influenzata da alcuni fattori, tra i quali ricordiamo il clima, la natura delle rocce e la giacitura del suolo.
Tipi di suolo | Caratteristiche |
---|---|
non evoluti | a minerali greggi, presenti nelle regioni artiche e desertiche |
poco evoluti o ranker | sono suoli giovani, che giacciono direttamente su una roccia madre silicea, tipici delle regioni di alta montagna |
calcarei | si formano su rocce ricche in carbonato di calcio. Tra i suoli calcarei vi sono i cernozem, terre nere di fertilità eccezionale, che si trovano nelle steppe della Russia meridionale. Si formano nella zona temperata continentale a scarsa piovosità (meno di 400 mm all’anno), dove vi è una fitta copertura di graminacee xerofile che forniscono abbondante materiale organico, ricco di calcio. Un altro tipo di suolo calcareo è il rendzina, che si può formare in qualunque tipo di clima. È costituito da un solo orizzonte con copertura erbosa secca, in quanto manca di riserve di acqua |
evoluti a mull | un tipo di humus della zona temperata, caratteristico delle foreste di latifoglie |
lateritici | molto ricchi in ossidi di ferro o di alluminio, che si formano in climi caldi con alternanze di periodi secchi e umidi, sono tipici dei territori tropicali deforestati |
alomorfi | caratterizzati dalla presenza di un livello di sale |
idromorfi | caratterizzati dalla presenza temporanea o permanente dell’acqua. In questo tipo di suoli vi è sempre un orizzonte nel quale l’elevato grado di umidità porta a una forte concentrazione di argilla e di ossidi di ferro, denominato orizzonte glej |
idromorfi organici | caratterizzati da un intreccio di fibre e frammenti di vegetali più o meno carbonizzati con un’elevata percentuale di acqua. Da questi suoli possono trarre origine le torbe |
I suoli sono dei miscugli eterogenei, formati da una parte solida, distinta in componente minerale, o inorganica, e componente organica, da una parte liquida, acqua, e da una componente gassosa, aria.
È la frazione che proviene dalla degradazione delle rocce e costituisce oltre il 95% della parte solida di un suolo. Si distinguono alcune frazioni a seconda della dimensione dei granuli che le compongono:
Comprende i resti decomposti dei numerosi organismi che vivono nel suolo o che su di esso si accumulano: tra essi ricordiamo batteri, actinomiceti, funghi, lombrichi, artropodi, acari, piccoli mammiferi e numerose specie vegetali. Le spoglie degli animali e i residui della vegetazione vengono rapidamente attaccati da diversi organismi terricoli, formando una miscela di sostanze organiche decomposte detta humus, che viene poi a poco a poco mineralizzato (cioè trasformato in sostanze inorganiche), soprattutto a opera di funghi e batteri. La velocità dei processi che portano alla mineralizzazione dell’humus varia a seconda delle caratteristiche dei suoli: è elevata in quelli freschi e ricchi di pori o fessure, quindi ben aerati, dotati di una ricca vita batterica e animale, in particolare di lombrichi; è bassa in suoli intasati d’acqua, asfittici e poveri di vita batterica, in cui si creano condizioni sfavorevoli all’attività biologica (in tal caso la sostanza organica si accumula in superficie in spesse coltri). A seconda di come procede la mineralizzazione, si formano diversi tipi di humus. I più importanti sono:
L’acqua, contenuta negli interstizi presenti tra i componenti solidi di un suolo, è in realtà una soluzione molto diluita di sali minerali, distinta in:
Nei suoli l’aria occupa gli interstizi lasciati liberi dall’acqua. Essa contiene gli stessi gas presenti nell’atmosfera, seppur in percentuali diverse; in particolare, rispetto a quest’ultima ha un maggiore contenuto di anidride carbonica e un minore contenuto di ossigeno: le percentuali dei due gas variano inoltre con la profondità (quella dell’anidride carbonica aumenta e quella dell’ossigeno diminuisce) e con la stagione(la percentuale di entrambi nella stagione asciutta è maggiore rispetto a quella umida). Di particolare importanza è l’ossigeno, indispensabile sia per gli apparati radicali delle piante, sia per tutti i processi biologici che si svolgono nel suolo (soprattutto a opera di funghi e batteri). Importante è anche la presenza di azoto nell’aria del suolo, in quanto attraverso la sua fissazione a opera di batteri (detti appunto azoto-fissatori) si producono composti dell’azoto utilizzabili dalle piante.
Un suolo si compone di diversi orizzonti, livelli sovrapposti distinguibili tra loro a occhio nudo in base alle loro caratteristiche fisiche e chimiche; la successione degli orizzonti costituisce il profilo di un suolo. Procedendo dalla supeficie in profondità, gli orizzonti sono contraddistinti dalle lettere O, A, B, C e R. Non tutti gli orizzonti pedologici sono presenti in tutti i suoli.
Tra le numerose caratteristiche di un suolo, alcune sono particolarmente importanti per gli organismi che in essi vivono, per lo sviluppo della vegetazione e per i processi di decomposizione che in esso avvengono. Tali caratteristiche comprendono: la tessitura, la porosità, la struttura, il colore e le attività di scambio.
La tessitura di un suolo, detta anche grana, corrisponde alla percentuale relativa di scheletro, sabbia, limo e argilla presenti in un suolo. La tessitura è molto importante per determinare altre caratteristiche di un suolo. Per esempio, quando lo scheletro o la sabbia sono troppo abbondanti, il terreno tende a essere arido, in quanto l’acqua percola rapidamente a causa dei grossi interstizi presenti tra i granuli. Se invece è la frazione argillosa a essere prevalente, in conseguenza dell’igroscopicità di quei minerali (che tendono a gonfiarsi), pori e fessure si chiudono, l’aria non circola più, l’ambiente diventa asfittico e la respirazione radicale è impedita. Problemi simili sono determinati anche da una presenza eccessiva di limo. I suoli più fertili sono quelli a medio impasto, che sono equilibrati per quanto riguarda la tessitura; in essi lo scheletro è assente e i contenuti percentuali degli altri componenti sono i seguenti: sabbia grossa 30-50%, sabbia fine 15-30%, limo 1015%, argilla 5-10%, calcare 1-5%, sostanza organica 3-5%.
La porosità indica il grado in cui un suolo è permeato da pori e interstizi ed è espressa come rapporto tra volume degli spazi vuoti e il volume totale del suolo. La presenza di pori nel suolo è importante, poiché permette la circolazione di acqua e di aria e quindi assicura condizioni favorevoli allo sviluppo della vegetazione. La porosità dipende dalla tessitura di un suolo (è maggiore in suoli in cui prevalgono granuli di dimensioni maggiori), ma può anche essere incrementata dagli organismi che vivono nel suolo, (per esempio, attraverso gallerie scavate da larve di insetti, da lombrichi e da altri animali o dalla penetrazione delle radici che, terminato il loro ciclo vitale, vanno in decomposizione).
Per struttura di un suolo s’intende la disposizione spaziale reciproca dei granuli che lo costituiscono. Si distinguono una struttura granulare e una struttura glomerulare. Nella struttura granulare, i diversi granuli sono indipendenti gli uni dagli altri e assumono la disposizione di massimo assestamento: se prevalgono granuli di maggiori dimensioni, anche gli interstizi sono grandi, se, invece, prevalgono i granuli più fini, sono presenti solo pori molto piccoli e in tal caso il suolo diventa compatto, privo di circolazione d’aria e d’acqua e quindi asfittico. Nella struttura glomerulare, invece, le particelle di limo e di argilla danno luogo a fenomeni di aggregazione e formano così grumi, detti anche glomeruli: in tal modo vi è una presenza sia di pori più grandi, sia di pori più piccoli, condizione indispensabile per una buona circolazione dell’acqua e dell’aria e dunque per lo sviluppo della vita nel suolo.
È un elemento diagnostico molto importante per individuare sia i materiali presenti, sia i processi in atto nel suolo. Le sfumature possibili sono moltissime e per riconoscerle in modo univoco occorre servirsi di tavole colorimetriche. In linea di massima e a titolo indicativo possiamo dire che il colore:
La sostanza organica e l’argilla presenti nei suoli formano una specie di “spugna”, detta complesso di scambio. Essa è in grado di assorbire gli elementi minerali del suolo e di cederli gradualmente alle radici delle piante per le loro necessità vitali.
Esistono situazioni particolari nelle quali si sono conservati suoli antichissimi, risalenti a centinaia di milioni di anni fa. In condizioni geomorfologiche particolarmente conservative (per esempio, se i suoli, a qualunque stadio di maturazione si trovino, vengono sepolti da nuovi sedimenti), possono originarsi i paleosuoli (letteralmente, suoli antichi), la cui evoluzione è iniziata molto tempo fa. Si tratta di suoli del tutto particolari, per certi aspetti veri e propri oggetti fossili, in grado d i darci molte preziose informazioni sul passato recente. Possono essere definiti come “suoli che si sono formati in un paesaggio del passato” prima che ne cambiassero le condizioni ambientali, in particolare il clima e la vegetazione. Mentre il pedologo “attuale”, cioè che studia i suoli recenti, parte dal clima, dalla vegetazione e dalla roccia-madre per definire le caratteristiche di un suolo, al contrario il “paleopedologo” analizza il paleosuolo, la sua composizione e le sue caratteristiche per dedurre le caratteristiche climatiche e faunistiche dell’ambiente in cui si sono formati: infatti, con opportune indagini di laboratorio e sul campo, è possibile ricostruire in modo soddisfacente l’ambiente originario. Non tutti i paleosuoli sono uguali: il loro profilo, la successione degli orizzonti, il chimismo dipendono dai climi che si sono succeduti, dal materiale dal quale derivano e dalle vicende geodinamiche che li hanno interessati.
Lo studio dei suoli è in genere finalizzato al loro impiego, alla loro conservazione e al loro miglioramento. La potenzialità di un suolo ne indica le possibilità d’impiego e deriva dalla quantificazione di alcuni parametri chimici, fisici e biologici. I parametri pedologici presi in considerazione, in quanto ritenuti i più importanti per determinare la fertilità (intesa come capacità di un suolo di dare dei prodotti agricoli) e l’adattabilità di un suolo ai vari usi possibili di tipo agro-silvo-pastorale, sono i seguenti:
Dalla moltiplicazione dei valori attribuiti a ciascuno dei parametri presi in esame, si arriva a determinare un indice percentuale che permette di inserire il tipo pedologico in una determinata classe di potenzialità. La carta delle potenzialità d’uso dei suoli italiani, a scala 1: 1.000.000, prevede sette classi.
Finora sono stati descritti numerosi fenomeni che si manifestano sulla superficie terrestre e sono conseguenza delle forze endogene ed esogene che agiscono incessantemente sul nostro pianeta; sono i fenomeni naturali che continuamente modificano l’aspetto della Terra e ne modellano i rilievi. Tuttavia, fenomeni sismici e vulcanici, frane, straripamenti di fiumi e valanghe assumono l’aspetto di rischi naturali se si considerano i danni che essi possono provocare nei confronti dell’uomo e delle sue costruzioni. Le uniche possibilità d’intervento dell’uomo contro i rischi naturali consistono nella loro previsione e nella prevenzione, per cercare di limitare i danni che possono provocare, economici e di vite umane. Inoltre, mentre il rischio sismico e il rischio vulcanico sono essenzialmente legati a cause naturali, altre calamità, quali le frane, le alluvioni, le valanghe e la desertificazione, sono fortemente condizionate dall’attività umana.
Il termine rischio sismico indica la probabilità che in una determinata zona si possa verificare un terremoto. Per quanto riguarda l’Italia è stato messo a punto un Catalogo dei terremoti, che ne elenca 25.000 e tiene conto di 1000 anni di attività sismica nella nostra penisola. In base alla frequenza con cui in passato in certe zone si sono verificati i sismi, sono state elaborate carte di zonazione sismica, nelle quali tutto il territorio italiano è stato diviso in aree a sismicità elevata, media, bassa o asismiche, se il rischio sismico è nullo.
Il rischio vulcanico, cioè la probabilità che in una determinata zona si possa verificare un’eruzione in rapporto ai danni che essa può provocare, non si deve pensare legato a un evento eccezionale: infatti, molti vulcani, anche se inattivi da decine o centinaia di anni, possono riprendere la loro attività, come si è già verificato in diversi casi. Tuttavia, poiché la localizzazione dei vulcani è ben nota, gli interventi di previsione e di prevenzione possono essere più efficaci che nel caso dei sismi. La pericolosità di un vulcano dipende dal tipo di eruzione a cui esso dà luogo. Le eruzioni di tipo effusivo, a causa della limitata velocità di flusso delle colate laviche, sono generalmente le meno pericolose per la vita delle persone: si ha, infatti, tutto il tempo necessario per evacuare la zona, mentre si possono comunque avere effetti distruttivi sulle zone edificate, industriali e agricole. Tipico esempio di questa situazione per l’Italia è rappresentato dall’attività dell’Etna, quasi mai pericolosa per la popolazione per le colate laviche, ma che può provocare danni alle abitazioni e alle colture specie per l’apertura di bocche vulcaniche a bassa quota. Nelle eruzioni di tipo esplosivo la situazione è ben più grave, in quanto sono caratterizzate dall’emissione di grandi quantità di piroclasti, i materiali solidi eiettati dal vulcano, e di gas: in questo caso risulta chiaro quanto il costo in vite umane sia maggiore e quanto siano pericolosi gli insediamenti sulle pendici vulcaniche. Il Vesuvio, per esempio, è un vulcano molto pericoloso e perciò costantemente monitorato dall’Osservatorio Vesuviano. La sua ultima eruzione è avvenuta nel 1944 e ancora si ricorda il disastro di Pompei ed Ercolano nel 79 d.C. Il rischio vulcanico in tutta l’area è elevatissimo: ecco perché è pericoloso continuare a costruire altre abitazioni attorno al Vesuvio. Diverse sono le misure di previsione e di prevenzione che si possono mettere in atto per ridurre i danni provocati dalle eruzioni. La previsione di un’eruzione si basa su:
Gli studi statistici, insieme a conoscenze sulla morfologia dei siti, sulla meteorologia ecc., permettono di elaborare carte del rischio vulcanico, nelle quali vengono delimitate le aree con diverso grado di pericolosità e dalle quali è quindi possibile ricavare importanti indicazioni sugli interventi di prevenzione e sulle zone in cui essi diventano prioritari. Tra le più importanti misure di prevenzione ricordiamo:
il divieto di costruire in zone a rischio vulcanico
la progressiva riduzione degli insediamenti nelle zone che siano già occupate dalla popolazione
la predisposizione di piani di evacuazione, da attuare quando i segni premonitori indicano che la ripresa dell’attività vulcanica è imminente
interventi di informazione e di educazione alla popolazione delle zone a rischio. Questi interventi sono molto importanti, poiché la previsione, per quanto accurata, non può indicare con precisione il momento in cui si verificherà un’eruzione. Gli sforzi degli studiosi si sono concentrati su quei complessi che possono essere meglio analizzati e in cui le informazioni vanno più indietro nel tempo. Migliorare la previsione consentirà a quel 10% circa della popolazione mondiale che occupa aree pericolose di convivere meglio con il rischio vulcanico.
Con questo termine si indicano condizioni di degrado del territorio tali da provocare catastrofi, quali alluvioni e frane, in conseguenza di fenomeni naturali (per esempio, le precipitazioni meteorologiche) di notevole intensità o durata. Le alluvioni, in terreni pianeggianti, e le frane, in terreni montani e collinari, sono principalmente legate all’azione erosiva delle acque superficiali e alla natura dei suoli; tuttavia, il loro manifestarsi può essere notevolmente ridotto o intensificato dall’attività dell’uomo: per questo motivo assume particolare importanza una corretta gestione del territorio attraverso opportuni interventi di prevenzione.
Comunemente, per alluvione s’intende lo straripamento delle acque di un fiume o di un torrente, che si manifesta in zone pianeggianti in occasioni di piene improvvise, provocate da precipitazioni di eccezionale durata o intensità: più precisamente esse vengono indicate col termine di inondazioni (in geologia, il termine alluvione indica l’accumulo di detriti inorganici e organici che il corso d’acqua deposita man mano che perde velocità). Dopo essere stata assorbita dal suolo, fino alla sua saturazione, l’acqua piovana scorre in superficie, raggiungendo rapidamente il fondovalle e incrementando di colpo la portata dei torrenti e dei fiumi, da cui straripa se gli argini non sono sufficientemente alti. Se da un lato il rischio alluvionale è legato alle caratteristiche del territorio e ai fenomeni meteorologici, tuttavia alcuni interventi umani aumentano la possibilità che le alluvioni si verifichino. Per esempio, il disboscamento favorisce l’incremento della velocità di ruscellamento (scorrimento) delle acque piovane e, con essa, anche la quantità di detriti che le acque erodono e trasportano nei corsi d’acqua: questi materiali si depositano soprattutto nel basso corso del fiume e contribuiscono a innalzarne il letto fino alla formazione dei fiumi pensili, il cui letto fluviale è più alto della pianura circostante. L’incauta cementificazione dell’alveo dei fiumi fa aumentare la velocità di scorrimento delle acque fluviali. In questo modo giungono a fondovalle e nelle pianure masse d’acqua assai superiori all’effettiva capacità dell’alveo e si determina l’inondazione, il cui rischio aumenta se il fiume è pensile. La probabilità che si verifichino delle alluvioni si riduce attraverso opportune opere di prevenzione: tra esse distinguiamo interventi a monte, tesi a consolidare i pendii (intensificare il rimboschimento o sistemare gabbioni e reti metalliche di contenimento) e a ridurre la velocità delle acque (ridurre le pendenze del territorio per mezzo di terrazzamenti o regimare le acque di un torrente mediante delle briglie), e interventi a valle (lasciare libere da costruzioni le zone golenali, cioè quelle in cui i fiumi sfogano le loro piene, innalzare gli argini e, dove è possibile, dragare il letto dei fiumi per asportare l’eccessivo accumulo di detriti).
Le frane sono processi geologici che comprendono tutti i fenomeni di distacco e di caduta di masse rocciose o di materiali sciolti dovuti alla gravità, che si manifestano in zone collinari o montuose, dove le pendenze sono tali da creare condizioni di instabilità.
In una frana si possono riconoscere tre parti fondamentali: la zona, o nicchia di distacco, la zona di accumulo o corpo di frana, l’alveo di frana, che corrisponde al tratto percorso dal materiale in movimento.
Le cause delle frane possono essere di tipo predisponente o determinante:
Tra gli interventi di prevenzione delle frane e dei danni che possono provocare ricordiamo:
A seconda del tipo di materiale che si distacca e del modo in cui avviene lo spostamento, si possono distinguere diversi tipi di frane.
Per valanga s’intende la caduta di grandi masse nevose da un pendio su cui si erano accumulate in condizioni di instabilità. Tra i fattori che influenzano la caduta di una valanga ricordiamo:
Per desertificazione s’intende l’espansione dell’ambiente desertico in zone che erano in precedenza semiaride, a steppa o anche ricoperte di foreste. Produce un progressivo impoverimento dei suoli e la loro polverizzazione, rendendoli così preda della deflazione eolica: il materiale terrigeno si mobilizza fino ad accumularsi in dune che si muovono seguendo la direzione del vento. I processi di desertificazione cominciarono ad essere studiati verso la fine dell’800 e al fenomeno si diede una spiegazione basata su cause esclusivamente naturali, cioè sull’inaridimento del clima. Più recentemente, l’espansione delle zone aride è stata attribuita all’azione umana, al punto da sostenere che “se la siccità è espressione di un tipo climatico, la desertificazione è opera dell’uomo”. I deserti sono in continua espansione in tutto il mondo: ogni anno una superficie pari a circa 6 milioni di ettari subisce il processo di desertificazione. Il Sahara, il deserto più grande, è andato ampliandosi a cominciare dal periodo arido compreso tra il 1250 e il 1200 a.C.: passando attraverso fasi alterne di diffusa progressione, di temporaneo arresto e di momentaneo regresso, oggi può essere considerato nuovamente in avanzamento.
I principali “fattori” antropici di desertificazione sono il pascolo eccessivo, le tecniche agricole inadatte, il disboscamento e l’irrigazione di zone aride.
Con opportuni interventi da parte dell’uomo, è possibile invertire la tendenza all’aumento dell’estensione dei deserti e, anzi, bonificare, cioè recuperare alla coltivazione territori prima desertici. Interventi di questo tipo sono stati attuati con successo nel deserto del Negev (Israele) e nella penisola del Sinis (Sardegna). La bonifica del Negev è stata attuata dopo la creazione dello stato di Israele. Si è basata su tre azioni: il reperimento di risorse idriche, le tecniche di irrigazione e la collaborazione tra ricerca scientifica e produzione. 1. Il reperimento di risorse idriche è stato possibile tramite la perforazione di numerosi pozzi, in grado di captare falde profonde prima non sfruttate, e la canalizzazione delle acque del fiume Giordano. 2. Le nuove tecniche di irrigazione sono consistite nell’ideazione, collaudo e diffusione dell’irrigazione a goccia (distribuzione dell’acqua facendola uscire goccia a goccia da un tubo forato solo immediatamente vicino alle piante), attuata con impianti fissi d’irrigazione, in collegamento ad altri aerei e a sistemi di serre: queste nuove tecniche di irrigazione hanno consentito un notevole risparmio di acqua. 3. La collaborazione ricerca scientifica-produzione, ereditata dal modello americano e perfezionata, ha permesso di rendere immediatamente operative scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche. Valgano per tutti i metodi di irrigazione automatica con impianti rotanti o in traslazione rettilinea, che sono ormai adottati ovunque si pratichi l’aridocoltura, cioè una forma di agricoltura che permette di usare una minor quantità di acqua per l’irrigazione. La penisola del Sinis, in Sardegna occidentale a nord del Golfo di Oristano, negli anni ‘50 era in stato di avanzata desertificazione a causa dell’eccesso di pascolo. Il recupero venne attuato attraverso un intervento amministrativo, che interdì il pascolo al di sotto dell’isoipsa dei 50 metri (che escluse l’intera penisola), la fissazione delle dune con piante specifiche, l’impianto di colture aridofile (cioè in grado di sopportare prolungati periodi di siccità) e infine la progettazione di imponenti sistemi di irrigazione. Programmi di bonifica di zone desertiche simili a quelli descritti si stanno oggi sviluppando in varie parti del mondo.