23. Il suolo

Lo strato superficiale della crosta terrestre in cui le piante affondano le loro radici è detto suolo: esso deriva dalla disgregazione fisica e dall’alterazione chimica delle rocce affioranti, dovute all’azione dell’atmosfera e degli organismi viventi, sia vegetali sia animali. Il suolo è costituito da una componente minerale proveniente dalla degradazione delle rocce, e da una componente organica, detta humus, formata dalla decomposizione dei resti degli organismi viventi; esso, inoltre, contiene acqua e aria. In un suolo si possono riconoscere diversi strati, ciascuno con particolari caratteristiche, detti orizzonti, che nel loro insieme costituiscono il profilo di un suolo. Dalla composizione di un suolo dipendono alcune caratteristiche, quali per esempio la tessitura, la porosità e la struttura, che lo rendono più o meno adatto allo sviluppo delle piante e da cui dipendono anche alcuni processi che nel suolo si svolgono.

La genesi dei suoli

Un suolo è la parte più superficiale della crosta terrestre, comunemente detto anche terreno, dello spessore variabile da pochi centimetri a qualche metro e in cui si sviluppano le radici delle piante. Il suolo si origina attraverso un lento e lungo processo di disgregazione fisica e di alterazione chimica delle rocce, operato sia dall’atmosfera, sia dagli organismi viventi, vegetali e animali. I processi che disgregano e alterano le rocce esposte agli agenti atmosferici generano prodotti di disfacimento (detriti incoerenti), che possono accumularsi in loco oppure subire destini diversi: possono essere trasportati da agenti quali i ghiacciai, il vento e i corsi d’acqua e accumularsi altrove. L’accumulo dei prodotti del disfacimento meteorico crea una coltre, o mantello detritico, che a seconda delle condizioni può costituire una pellicola sottile, dello spessore di pochi centimetri, oppure raggiungere lo spessore di parecchi metri. Sulla coltre di materiale detritico e anche sulla roccia inalterata si insediano organismi pionieri, cioè i primi organismi – quali licheni, batteri, alghe e muschi – che contribuiscono all’alterazione della roccia o dei detriti rocciosi attraverso un’azione di tipo biochimico, per mezzo di sostanze che essi stessi producono. L’accumularsi dei loro residui organici permette la formazione di un sottile strato che rende ora possibile anche l’insediamento di piante più esigenti– dapprima erbe, poi arbusti e infine alberi – le quali continuano ad agire sul substrato roccioso anche attraverso un’azione di tipo meccanico, penetrando a forza con le loro radici tra le fessure presenti nella roccia e contribuendo a disgregarla. Successivamente anche protozoi e organismi animali (per esempio, anellidi, nematodi, larve di insetti e molluschi) partecipano alla formazione del suolo. I resti di tutti gli organismi vegetali e animali vengono poi decomposti da diversi microrganismi e generano l’humus L’insieme dei processi che portano alla formazione di un suolo è detto pedogenesi (dal greco pédon, terreno); la pedologia è la scienza che studia i suoli, la loro composizione, le loro caratteristiche, la loro origine e la loro evoluzione.

Fattori che influenzano la genesi dei suoli

La genesi dei suoli è influenzata da alcuni fattori, tra i quali ricordiamo il clima, la natura delle rocce e la giacitura del suolo.

  • Clima: È il principale fattore che determina le caratteristiche di un suolo; in particolare, la temperatura, l’umidità atmosferica e le precipitazioni incidono sulla maggiore o minore velocità di degradazione delle rocce. La temperatura agisce sulle rocce disgregandole fisicamente, mentre è soprattutto l’umidità, associata a temperature elevate, a determinare l’alterazione chimica delle rocce. Per questo motivo, spostandosi dall’Equatore verso i poli, è possibile riconoscere una successione di suoli, legata alla distribuzione dei diversi tipi climatici. Là dove esistono le stesse condizioni climatiche, anche i suoli sono simili, pur appartenendo a regioni anche molto distanti fra loro: così il permafrost, il suolo perennemente gelato della tundra siberiana, è identico a quello del Grande Nord canadese o dell’Alaska; le terre rosse del Carso triestino si ritrovano anche sugli altopiani carbonatici della Penisola Iberica o di quella balcanica
  • Natura delle rocce: Dalla composizione chimica delle rocce dipendono le caratteristiche chimiche di un suolo. Inoltre, il loro maggiore o minore grado di compattezza determina la velocità di alterazione e di formazione dei suoli
  • Giacitura del suolo: Con questo termine si indica la pendenza di un suolo; in presenza di forti pendenze, i materiali provenienti dalla degradazione delle rocce non si accumulano in loco, ma vengono facilmente allontanati dalla forza di gravità o asportati dalle acque dilavanti. In simili situazioni non possono formarsi suoli di notevole spessore; il materiale asportato può accumularsi alla base del pendio, dando origine alla coltre colluviale. Altre volte può arrivare fino alle acque incanalate del reticolo idrografico, essere trasportato dai fiumi sotto forma di torbida e, successivamente, essere sedimentato formando una coltre alluvionale. In zone pianeggianti possono invece formarsi suoli di spessore maggiore, poiché i materiali di degradazione della roccia rimangono in loco e subiscono un’ulteriore alterazione anche a opera di organismi viventi.
Le varie tipologie e caratteristiche dei suoli.
Tipi di suolo Caratteristiche
non evoluti a minerali greggi, presenti nelle regioni artiche e desertiche
poco evoluti o ranker sono suoli giovani, che giacciono direttamente su una roccia madre silicea, tipici delle regioni di alta montagna
calcarei si formano su rocce ricche in carbonato di calcio. Tra i suoli calcarei vi sono i cernozem, terre nere di fertilità eccezionale, che si trovano nelle steppe della Russia meridionale. Si formano nella zona temperata continentale a scarsa piovosità (meno di 400 mm all’anno), dove vi è una fitta copertura di graminacee xerofile che forniscono abbondante materiale organico, ricco di calcio. Un altro tipo di suolo calcareo è il rendzina, che si può formare in qualunque tipo di clima. È costituito da un solo orizzonte con copertura erbosa secca, in quanto manca di riserve di acqua
evoluti a mull un tipo di humus della zona temperata, caratteristico delle foreste di latifoglie
lateritici molto ricchi in ossidi di ferro o di alluminio, che si formano in climi caldi con alternanze di periodi secchi e umidi, sono tipici dei territori tropicali deforestati
alomorfi caratterizzati dalla presenza di un livello di sale
idromorfi caratterizzati dalla presenza temporanea o permanente dell’acqua. In questo tipo di suoli vi è sempre un orizzonte nel quale l’elevato grado di umidità porta a una forte concentrazione di argilla e di ossidi di ferro, denominato orizzonte glej
idromorfi organici caratterizzati da un intreccio di fibre e frammenti di vegetali più o meno carbonizzati con un’elevata percentuale di acqua. Da questi suoli possono trarre origine le torbe

La composizione dei suoli

I suoli sono dei miscugli eterogenei, formati da una parte solida, distinta in componente minerale, o inorganica, e componente organica, da una parte liquida, acqua, e da una componente gassosa, aria.

La componente minerale

È la frazione che proviene dalla degradazione delle rocce e costituisce oltre il 95% della parte solida di un suolo. Si distinguono alcune frazioni a seconda della dimensione dei granuli che le compongono:

  • scheletro (diametro dei granuli > 2 mm)
  • sabbia grossolana (diametro dei granuli fra 2 e 0,2 mm)
  • sabbia fine (diametro dei granuli fra 0,2 e 0,02 mm)
  • limo (diametro dei granuli fra 0,02 mm e 2 µ)
  • argille (diametro dei granuli < 2 µ).

La componente organica

Comprende i resti decomposti dei numerosi organismi che vivono nel suolo o che su di esso si accumulano: tra essi ricordiamo batteri, actinomiceti, funghi, lombrichi, artropodi, acari, piccoli mammiferi e numerose specie vegetali. Le spoglie degli animali e i residui della vegetazione vengono rapidamente attaccati da diversi organismi terricoli, formando una miscela di sostanze organiche decomposte detta humus, che viene poi a poco a poco mineralizzato (cioè trasformato in sostanze inorganiche), soprattutto a opera di funghi e batteri. La velocità dei processi che portano alla mineralizzazione dell’humus varia a seconda delle caratteristiche dei suoli: è elevata in quelli freschi e ricchi di pori o fessure, quindi ben aerati, dotati di una ricca vita batterica e animale, in particolare di lombrichi; è bassa in suoli intasati d’acqua, asfittici e poveri di vita batterica, in cui si creano condizioni sfavorevoli all’attività biologica (in tal caso la sostanza organica si accumula in superficie in spesse coltri). A seconda di come procede la mineralizzazione, si formano diversi tipi di humus. I più importanti sono:

  • mull, di colore bruno o nero, frutto di decomposizione rapida
  • moder, la lettiera, cioè lo strato di residui vegetali che si accumulano sopra al suolo e che si decompongono meno rapidamente rispetto al mull; il colore è bruno per la maggiore separazione tra elementi organici e inorganici
  • mor, detto anche humus grezzo, frutto di processi di decomposizione particolarmente lenti: è spesso, nerastro, formato di parti ancora indecomposte e di prodotti intermedi sovente legati dal fitto intreccio di ife (micelio) dei funghi
  • torba, costituita da una coltre di sostanza organica indecomposta, in parte vivente, formata in prevalenza da muschi e sfagni, ricoprente un suolo sottostante sovente saturo d’acqua.

L'humus

L’acqua

L’acqua, contenuta negli interstizi presenti tra i componenti solidi di un suolo, è in realtà una soluzione molto diluita di sali minerali, distinta in:

  • acqua igroscopica: assorbita dall’umidità dell’aria; forma una sottile pellicola attorno alle singole particelle del suolo, dalle quali è energicamente trattenuta, tanto da non poter essere utilizzata dalle radici delle piante
  • acqua capillare: contenuta negli spazi più esigui, solo in parte disponibile per l’assorbimento radicale; costituisce la riserva idrica per le piante durante le stagioni aride
  • acqua di gravità: che va a colmare i pori più grossolani ed è soggetta alla gravità; percola in profondità tanto più rapidamente quanto più grandi sono gli spazi vuoti. È utilizzata dalle piante durante i periodi piovosi e nei giorni successivi, quando parte del liquido continua a occupare gli spazi intergranulari. L’acqua del suolo a disposizione della vegetazione costituisce la riserva idrica: La sua misura è un parametro indispensabile per la programmazione dell’uso agricolo delle terre. La riserva idrica può essere determinata sul campo con metodi empirici ma sufficientemente precisi.

L’aria

Nei suoli l’aria occupa gli interstizi lasciati liberi dall’acqua. Essa contiene gli stessi gas presenti nell’atmosfera, seppur in percentuali diverse; in particolare, rispetto a quest’ultima ha un maggiore contenuto di anidride carbonica e un minore contenuto di ossigeno: le percentuali dei due gas variano inoltre con la profondità (quella dell’anidride carbonica aumenta e quella dell’ossigeno diminuisce) e con la stagione(la percentuale di entrambi nella stagione asciutta è maggiore rispetto a quella umida). Di particolare importanza è l’ossigeno, indispensabile sia per gli apparati radicali delle piante, sia per tutti i processi biologici che si svolgono nel suolo (soprattutto a opera di funghi e batteri). Importante è anche la presenza di azoto nell’aria del suolo, in quanto attraverso la sua fissazione a opera di batteri (detti appunto azoto-fissatori) si producono composti dell’azoto utilizzabili dalle piante.

Il profilo dei suoli

Un suolo si compone di diversi orizzonti, livelli sovrapposti distinguibili tra loro a occhio nudo in base alle loro caratteristiche fisiche e chimiche; la successione degli orizzonti costituisce il profilo di un suolo. Procedendo dalla supeficie in profondità, gli orizzonti sono contraddistinti dalle lettere O, A, B, C e R. Non tutti gli orizzonti pedologici sono presenti in tutti i suoli.

  • Orizzonte O: è lo strato più superficiale; di spessore limitato, formato di sostanza organica indecomposta o solo parzialmente decomposta, viene anche indicato col nome di lettiera
  • Orizzonte A: è lo strato più ricco di sostanza organica, in cui è particolarmente spiccata l’attività di decomposizione. Viene anche detto orizzonte eluviale, poiché in esso è intensa l’asportazione dei componenti solubili, inorganici e organici a opera dell’acqua che s’infiltra nel suolo e li trasporta nell’orizzonte sottostante. Esso può essere ulteriormente suddiviso in sottorizzonti A1 , A2 e A3 , con caratteristiche intermedie
  • Orizzonte B: è più povero di humus rispetto all’orizzonte A; viene anche detto orizzonte illuviale, poiché è quello in cui si concentrano i materiali asportati dalle acque dall’orizzonte superiore. Anche in questo orizzonte si possono distinguere dei sottorizzonti B1 , B2 e B3
  • Orizzonte C: si tratta dello strato più profondo del suolo, costituito dalla roccia in via di alterazione. In esso può essere presente un sottile strato di colore grigio, verdastro o rossiccio, formato da minerali di ferro associati all’argilla, a cui si dà il nome di gley. Anche in questo orizzonte si distinguono sottorizzonti: sono indicati con C1 quelli dove il grado di degradazione della roccia è più avanzato, con C2 quelli dove lo è meno
  • Orizzonte R: è il simbolo che indica la roccia-madre inalterata sottostante il suolo.

Podzol di ambiente subtropicale, (Florida)

Alcune caratteristiche dei suoli

Tra le numerose caratteristiche di un suolo, alcune sono particolarmente importanti per gli organismi che in essi vivono, per lo sviluppo della vegetazione e per i processi di decomposizione che in esso avvengono. Tali caratteristiche comprendono: la tessitura, la porosità, la struttura, il colore e le attività di scambio.

Tessitura

La tessitura di un suolo, detta anche grana, corrisponde alla percentuale relativa di scheletro, sabbia, limo e argilla presenti in un suolo. La tessitura è molto importante per determinare altre caratteristiche di un suolo. Per esempio, quando lo scheletro o la sabbia sono troppo abbondanti, il terreno tende a essere arido, in quanto l’acqua percola rapidamente a causa dei grossi interstizi presenti tra i granuli. Se invece è la frazione argillosa a essere prevalente, in conseguenza dell’igroscopicità di quei minerali (che tendono a gonfiarsi), pori e fessure si chiudono, l’aria non circola più, l’ambiente diventa asfittico e la respirazione radicale è impedita. Problemi simili sono determinati anche da una presenza eccessiva di limo. I suoli più fertili sono quelli a medio impasto, che sono equilibrati per quanto riguarda la tessitura; in essi lo scheletro è assente e i contenuti percentuali degli altri componenti sono i seguenti: sabbia grossa 30-50%, sabbia fine 15-30%, limo 1015%, argilla 5-10%, calcare 1-5%, sostanza organica 3-5%.

Porosità

La porosità indica il grado in cui un suolo è permeato da pori e interstizi ed è espressa come rapporto tra volume degli spazi vuoti e il volume totale del suolo. La presenza di pori nel suolo è importante, poiché permette la circolazione di acqua e di aria e quindi assicura condizioni favorevoli allo sviluppo della vegetazione. La porosità dipende dalla tessitura di un suolo (è maggiore in suoli in cui prevalgono granuli di dimensioni maggiori), ma può anche essere incrementata dagli organismi che vivono nel suolo, (per esempio, attraverso gallerie scavate da larve di insetti, da lombrichi e da altri animali o dalla penetrazione delle radici che, terminato il loro ciclo vitale, vanno in decomposizione).

La struttura

Per struttura di un suolo s’intende la disposizione spaziale reciproca dei granuli che lo costituiscono. Si distinguono una struttura granulare e una struttura glomerulare. Nella struttura granulare, i diversi granuli sono indipendenti gli uni dagli altri e assumono la disposizione di massimo assestamento: se prevalgono granuli di maggiori dimensioni, anche gli interstizi sono grandi, se, invece, prevalgono i granuli più fini, sono presenti solo pori molto piccoli e in tal caso il suolo diventa compatto, privo di circolazione d’aria e d’acqua e quindi asfittico. Nella struttura glomerulare, invece, le particelle di limo e di argilla danno luogo a fenomeni di aggregazione e formano così grumi, detti anche glomeruli: in tal modo vi è una presenza sia di pori più grandi, sia di pori più piccoli, condizione indispensabile per una buona circolazione dell’acqua e dell’aria e dunque per lo sviluppo della vita nel suolo.

Il colore

È un elemento diagnostico molto importante per individuare sia i materiali presenti, sia i processi in atto nel suolo. Le sfumature possibili sono moltissime e per riconoscerle in modo univoco occorre servirsi di tavole colorimetriche. In linea di massima e a titolo indicativo possiamo dire che il colore:

  • rosso denota la presenza del ferro, che può trovarsi allo stato ossidato, come nei terreni aridi mediterranei o subtropicali (il suolo assume allora tonalità rosso-vive), oppure può essere più o meno ridotto (in questo caso si hanno sfumature rosso-bruno-giallastre)
  • bruno è rivelatore della presenza di sostanza organica; quando l’humus è particolarmente abbondante il colore del suolo è nero
  • grigio-azzurro individua condizioni di scarsa ossigenazione; sono grigiastri gli orizzonti dove il ferro si trova allo stato ridotto.

Attività di scambio

La sostanza organica e l’argilla presenti nei suoli formano una specie di “spugna”, detta complesso di scambio. Essa è in grado di assorbire gli elementi minerali del suolo e di cederli gradualmente alle radici delle piante per le loro necessità vitali.

I paleosuoli

Esistono situazioni particolari nelle quali si sono conservati suoli antichissimi, risalenti a centinaia di milioni di anni fa. In condizioni geomorfologiche particolarmente conservative (per esempio, se i suoli, a qualunque stadio di maturazione si trovino, vengono sepolti da nuovi sedimenti), possono originarsi i paleosuoli (letteralmente, suoli antichi), la cui evoluzione è iniziata molto tempo fa. Si tratta di suoli del tutto particolari, per certi aspetti veri e propri oggetti fossili, in grado d i darci molte preziose informazioni sul passato recente. Possono essere definiti come “suoli che si sono formati in un paesaggio del passato” prima che ne cambiassero le condizioni ambientali, in particolare il clima e la vegetazione. Mentre il pedologo “attuale”, cioè che studia i suoli recenti, parte dal clima, dalla vegetazione e dalla roccia-madre per definire le caratteristiche di un suolo, al contrario il “paleopedologo” analizza il paleosuolo, la sua composizione e le sue caratteristiche per dedurre le caratteristiche climatiche e faunistiche dell’ambiente in cui si sono formati: infatti, con opportune indagini di laboratorio e sul campo, è possibile ricostruire in modo soddisfacente l’ambiente originario. Non tutti i paleosuoli sono uguali: il loro profilo, la successione degli orizzonti, il chimismo dipendono dai climi che si sono succeduti, dal materiale dal quale derivano e dalle vicende geodinamiche che li hanno interessati.

La potenzialità dei suoli

Lo studio dei suoli è in genere finalizzato al loro impiego, alla loro conservazione e al loro miglioramento. La potenzialità di un suolo ne indica le possibilità d’impiego e deriva dalla quantificazione di alcuni parametri chimici, fisici e biologici. I parametri pedologici presi in considerazione, in quanto ritenuti i più importanti per determinare la fertilità (intesa come capacità di un suolo di dare dei prodotti agricoli) e l’adattabilità di un suolo ai vari usi possibili di tipo agro-silvo-pastorale, sono i seguenti:

  • profondità del profilo
  • granulometria media (tessitura)
  • struttura nei suoi vari aspetti fisici
  • condizioni interne di drenaggio
  • tipo di sostanza organica
  • riserve minerali (natura e consistenza).

Dalla moltiplicazione dei valori attribuiti a ciascuno dei parametri presi in esame, si arriva a determinare un indice percentuale che permette di inserire il tipo pedologico in una determinata classe di potenzialità. La carta delle potenzialità d’uso dei suoli italiani, a scala 1: 1.000.000, prevede sette classi.

  • Suoli a potenzialità elevata: nessuna limitazione all’uso. Sono compresi i suoli alluvionali profondi a tessitura ben equilibrata, in particolare della Bassa Padana e di altri lembi alluvionali peninsulari e insulari.
  • Suoli a potenzialità buona: le limitazioni, moderate, si riferiscono a tessiture un po’ squilibrate verso le ghiaie o le argille e a spessori modesti. Comprende suoli di pianura e di collina.
  • Suoli a potenzialità moderata: le carenze di spessore, di drenaggio, di saturazione, di struttura impongono interventi di miglioramento e pratiche colturali particolari. In questa classe sono compresi suoli diffusi sulle morene, sui rilievi calcareo-dolomitici, nella bassa montagna dell’Italia settentrionale e centromeridionale. Le colture lasciano talvolta il posto al bosco ceduo e al pascolo.
  • Suoli a potenzialità scarsa: vi ricade circa il 40% del territorio nazionale. Comprende suoli esposti a rischi d’erosione notevoli, eccessivamente rocciosi o pietrosi e che hanno altre limitazioni quanto a granulometria, drenaggio e saturazione. Questi suoli possono essere coltivati con le tipiche colture mediterranee e là dove l’uomo è intervenuto con pratiche migliorative; su di essi, tuttavia, prevalgono il bosco e il pascolo.
  • Suoli a potenzialità bassa: le limitazioni sono tanto varie e severe da impedirne l’uso agricolo. I suoli di questa classe coprono circa il 10% della superficie nazionale e si trovano soprattutto in media montagna a pendenza accentuata. L’impiego è solo di tipo silvo-pastorale.
  • Suoli a potenzialità molto bassa: rientrano in questa classe i suoli diffusi sulla catena alpina o sulle recenti colate laviche degli apparati vulcanici.
  • Suoli a potenzialità nulla: questa classe comprende i suoli che fanno da substrato alla vegetazione pioniera. Essi passano lateralmente ai ghiacciai, alle morene in via di formazione o alla roccia affiorante soggetta a processi di crioclastismo. I suoli compresi nelle ultime tre classi non devono essere considerati meno importanti degli altri solo perché non risultano coltivabili. Essenziale è la loro funzione sotto l’aspetto della difesa idrogeologica: a tal fine è importante che anche in Italia venga varato un piano integrato di difesa del suolo e di riforestazione o, meglio ancora, di recupero integrato delle cosiddette terre marginali, cioè di quei suoli senza una particolare vocazione agricola. In questo caso, ovviamente, sarebbe necessaria una cartografia della potenzialità dei suoli di ben maggiore dettaglio di quella esistente.

L’uomo e il rischio naturale

Finora sono stati descritti numerosi fenomeni che si manifestano sulla superficie terrestre e sono conseguenza delle forze endogene ed esogene che agiscono incessantemente sul nostro pianeta; sono i fenomeni naturali che continuamente modificano l’aspetto della Terra e ne modellano i rilievi. Tuttavia, fenomeni sismici e vulcanici, frane, straripamenti di fiumi e valanghe assumono l’aspetto di rischi naturali se si considerano i danni che essi possono provocare nei confronti dell’uomo e delle sue costruzioni. Le uniche possibilità d’intervento dell’uomo contro i rischi naturali consistono nella loro previsione e nella prevenzione, per cercare di limitare i danni che possono provocare, economici e di vite umane. Inoltre, mentre il rischio sismico e il rischio vulcanico sono essenzialmente legati a cause naturali, altre calamità, quali le frane, le alluvioni, le valanghe e la desertificazione, sono fortemente condizionate dall’attività umana.

Il rischio sismico

Il termine rischio sismico indica la probabilità che in una determinata zona si possa verificare un terremoto. Per quanto riguarda l’Italia è stato messo a punto un Catalogo dei terremoti, che ne elenca 25.000 e tiene conto di 1000 anni di attività sismica nella nostra penisola. In base alla frequenza con cui in passato in certe zone si sono verificati i sismi, sono state elaborate carte di zonazione sismica, nelle quali tutto il territorio italiano è stato diviso in aree a sismicità elevata, media, bassa o asismiche, se il rischio sismico è nullo.

Mappa della pericolosità sismica in Italia

Il rischio vulcanico

Il rischio vulcanico, cioè la probabilità che in una determinata zona si possa verificare un’eruzione in rapporto ai danni che essa può provocare, non si deve pensare legato a un evento eccezionale: infatti, molti vulcani, anche se inattivi da decine o centinaia di anni, possono riprendere la loro attività, come si è già verificato in diversi casi. Tuttavia, poiché la localizzazione dei vulcani è ben nota, gli interventi di previsione e di prevenzione possono essere più efficaci che nel caso dei sismi. La pericolosità di un vulcano dipende dal tipo di eruzione a cui esso dà luogo. Le eruzioni di tipo effusivo, a causa della limitata velocità di flusso delle colate laviche, sono generalmente le meno pericolose per la vita delle persone: si ha, infatti, tutto il tempo necessario per evacuare la zona, mentre si possono comunque avere effetti distruttivi sulle zone edificate, industriali e agricole. Tipico esempio di questa situazione per l’Italia è rappresentato dall’attività dell’Etna, quasi mai pericolosa per la popolazione per le colate laviche, ma che può provocare danni alle abitazioni e alle colture specie per l’apertura di bocche vulcaniche a bassa quota. Nelle eruzioni di tipo esplosivo la situazione è ben più grave, in quanto sono caratterizzate dall’emissione di grandi quantità di piroclasti, i materiali solidi eiettati dal vulcano, e di gas: in questo caso risulta chiaro quanto il costo in vite umane sia maggiore e quanto siano pericolosi gli insediamenti sulle pendici vulcaniche. Il Vesuvio, per esempio, è un vulcano molto pericoloso e perciò costantemente monitorato dall’Osservatorio Vesuviano. La sua ultima eruzione è avvenuta nel 1944 e ancora si ricorda il disastro di Pompei ed Ercolano nel 79 d.C. Il rischio vulcanico in tutta l’area è elevatissimo: ecco perché è pericoloso continuare a costruire altre abitazioni attorno al Vesuvio. Diverse sono le misure di previsione e di prevenzione che si possono mettere in atto per ridurre i danni provocati dalle eruzioni. La previsione di un’eruzione si basa su:

  • studi statistici, riferiti alla periodicità storica dei fenomeni eruttivi della zona in questione
  • misurazione del grado di attività di un determinato momento attraverso segni premonitori (per esempio, l’aumento dell’attività sismica con ipocentri poco profondi, i sollevamenti del suolo, gli aumenti di temperatura e le variazioni nella composizione dei gas emessi dal vulcano).
  • Gli studi statistici, insieme a conoscenze sulla morfologia dei siti, sulla meteorologia ecc., permettono di elaborare carte del rischio vulcanico, nelle quali vengono delimitate le aree con diverso grado di pericolosità e dalle quali è quindi possibile ricavare importanti indicazioni sugli interventi di prevenzione e sulle zone in cui essi diventano prioritari. Tra le più importanti misure di prevenzione ricordiamo:

  • il divieto di costruire in zone a rischio vulcanico

  • la progressiva riduzione degli insediamenti nelle zone che siano già occupate dalla popolazione

  • la predisposizione di piani di evacuazione, da attuare quando i segni premonitori indicano che la ripresa dell’attività vulcanica è imminente

  • interventi di informazione e di educazione alla popolazione delle zone a rischio. Questi interventi sono molto importanti, poiché la previsione, per quanto accurata, non può indicare con precisione il momento in cui si verificherà un’eruzione. Gli sforzi degli studiosi si sono concentrati su quei complessi che possono essere meglio analizzati e in cui le informazioni vanno più indietro nel tempo. Migliorare la previsione consentirà a quel 10% circa della popolazione mondiale che occupa aree pericolose di convivere meglio con il rischio vulcanico.

Il dissesto idrogeologico

Con questo termine si indicano condizioni di degrado del territorio tali da provocare catastrofi, quali alluvioni e frane, in conseguenza di fenomeni naturali (per esempio, le precipitazioni meteorologiche) di notevole intensità o durata. Le alluvioni, in terreni pianeggianti, e le frane, in terreni montani e collinari, sono principalmente legate all’azione erosiva delle acque superficiali e alla natura dei suoli; tuttavia, il loro manifestarsi può essere notevolmente ridotto o intensificato dall’attività dell’uomo: per questo motivo assume particolare importanza una corretta gestione del territorio attraverso opportuni interventi di prevenzione.

Le alluvioni

Comunemente, per alluvione s’intende lo straripamento delle acque di un fiume o di un torrente, che si manifesta in zone pianeggianti in occasioni di piene improvvise, provocate da precipitazioni di eccezionale durata o intensità: più precisamente esse vengono indicate col termine di inondazioni (in geologia, il termine alluvione indica l’accumulo di detriti inorganici e organici che il corso d’acqua deposita man mano che perde velocità). Dopo essere stata assorbita dal suolo, fino alla sua saturazione, l’acqua piovana scorre in superficie, raggiungendo rapidamente il fondovalle e incrementando di colpo la portata dei torrenti e dei fiumi, da cui straripa se gli argini non sono sufficientemente alti. Se da un lato il rischio alluvionale è legato alle caratteristiche del territorio e ai fenomeni meteorologici, tuttavia alcuni interventi umani aumentano la possibilità che le alluvioni si verifichino. Per esempio, il disboscamento favorisce l’incremento della velocità di ruscellamento (scorrimento) delle acque piovane e, con essa, anche la quantità di detriti che le acque erodono e trasportano nei corsi d’acqua: questi materiali si depositano soprattutto nel basso corso del fiume e contribuiscono a innalzarne il letto fino alla formazione dei fiumi pensili, il cui letto fluviale è più alto della pianura circostante. L’incauta cementificazione dell’alveo dei fiumi fa aumentare la velocità di scorrimento delle acque fluviali. In questo modo giungono a fondovalle e nelle pianure masse d’acqua assai superiori all’effettiva capacità dell’alveo e si determina l’inondazione, il cui rischio aumenta se il fiume è pensile. La probabilità che si verifichino delle alluvioni si riduce attraverso opportune opere di prevenzione: tra esse distinguiamo interventi a monte, tesi a consolidare i pendii (intensificare il rimboschimento o sistemare gabbioni e reti metalliche di contenimento) e a ridurre la velocità delle acque (ridurre le pendenze del territorio per mezzo di terrazzamenti o regimare le acque di un torrente mediante delle briglie), e interventi a valle (lasciare libere da costruzioni le zone golenali, cioè quelle in cui i fiumi sfogano le loro piene, innalzare gli argini e, dove è possibile, dragare il letto dei fiumi per asportare l’eccessivo accumulo di detriti).

Carta del rischio di frane, valanghe e alluvioni in Italia

Le frane

Le frane sono processi geologici che comprendono tutti i fenomeni di distacco e di caduta di masse rocciose o di materiali sciolti dovuti alla gravità, che si manifestano in zone collinari o montuose, dove le pendenze sono tali da creare condizioni di instabilità.

In una frana si possono riconoscere tre parti fondamentali: la zona, o nicchia di distacco, la zona di accumulo o corpo di frana, l’alveo di frana, che corrisponde al tratto percorso dal materiale in movimento.

  • La nicchia di distacco può essere a contorni netti, delimitata da una scarpata a pendenza maggiore di quella del versante circostante, oppure può essere segnata da una linea incerta, articolata in fessure e fenditure che indicano la probabile prosecuzione del movimento verso monte.
  • Il corpo di frana può trovarsi quasi addossato alla nicchia là dove la traslazione è contenuta, oppure, quando il movimento è rilevante, può trovarsi nettamente più a valle.
  • In questo caso il collegamento tra l’elemento iniziale e terminale della frana è dato dall’alveo di frana, di forma concava e più o meno allungata, che può in parte essere ricolmato da materiale abbandonato lungo il percorso o dall’apporto di materiale successivo al movimento principale. Quando una frana ha una forte energia cinetica, il materiale franoso può raggiungere la base del versante e risalire in parte il pendio opposto della valle, fungendo da diga provvisoria.

Le cause delle frane possono essere di tipo predisponente o determinante:

  • sono cause di tipo predisponente la presenza di forti dislivelli, la persistenza di un piano potenziale di movimento, l’erosione al piede di un versante in roccia coerente, l’incisione di una scarpata artificiale durante la costruzione di una strada.
  • sono cause di tipo determinante l’appesantimento del versante stesso con una forte nevicata o con manufatti, un sisma improvviso, una pioggia breve e intensa, che imbeve la massa a monte finché non viene superata la resistenza al taglio. Nel mondo i movimenti franosi provocano migliaia di vittime ogni anno e sono caratteristici dei paesi geologicamente giovani e attivi, dove il territorio non viene adeguatamente protetto; l’Italia è una delle nazioni maggiormente colpite dalle frane.

Tra gli interventi di prevenzione delle frane e dei danni che possono provocare ricordiamo:

  • opere tese a consolidare e stabilizzare i pendii (rimboschimento e sostegni quali muri, gabbioni o reti metalliche)
  • limitazioni al tipo di costruzioni sui pendii, in base alla loro costituzione e alla loro stabilità
  • verifica continua del grado di stabilità dei versanti più soggetti a rischio di frane

Frana del Vajont

Classificazione delle frane

A seconda del tipo di materiale che si distacca e del modo in cui avviene lo spostamento, si possono distinguere diversi tipi di frane.

  • Frane di crollo: consistono nella caduta improvvisa di masse di roccia coerente e fratturata, che si stacca secondo piani preesistenti fortemente verticalizzati. Il materiale si accumula in un ammasso di blocchi a spigoli vivi alla base del versante, che in genere è a forte pendenza.
  • Frane di scivolamento: il piano di distacco di norma coincide con una superficie di discontinuità del versante (litoclasi o faglia). La posizione del piano più idonea al movimento è a franapoggio, meno inclinato del pendio; il collasso del materiale soprastante è favorito dalla percolazione dell’acqua lungo fessure a monte fino alla superficie predisposta alla rottura. Questo lubrifica la superficie di contatto e predispone per lo scorrimento il pacchetto di materiali soprastante.
  • Frane con movimento rotazionale: il distacco avviene lungo una superficie di neoformazione, in genere curva. Interessa materiali semicoerenti e si manifesta quando viene superata la resistenza al taglio del materiale costituente il versante.
  • Frane per colamento: sono tipiche delle argille imbevute d’acqua. La colata è in genere lenta e durevole nel tempo. Sono sovente molto grandi e possono interessare interi versanti. Il piano di stacco è incerto; si mobilizza periodicamente in occasione di eventi pluviometrici .
  • Smottamenti: sono piccole frane che coinvolgono la parte più superficiale del substrato se questo è incoerente. Se risultano abbastanza estese prendono anche il nome di lame. Sovente le frane sono di tipo misto, per cui non è sempre facile l’attribuzione all’una o all’altra categoria.

Frana di colamento di Nocera (2005)

Le valanghe

Per valanga s’intende la caduta di grandi masse nevose da un pendio su cui si erano accumulate in condizioni di instabilità. Tra i fattori che influenzano la caduta di una valanga ricordiamo:

  • l’eccesso di precipitazioni nevose: su versanti ripidi, a causa del peso della massa nevosa depositata e della scarsa coesione con gli strati preesistenti, può verificarsi il distacco di una valanga e il suo scivolamento a valle
  • il disboscamento: eliminando l’azione meccanica di contenimento e di riparo dal vento esercitata dagli alberi, il disboscamento facilita sia l’insorgenza,sia la progressione delle valanghe
  • le variazioni termiche che si verificano in primavera possono determinare la parziale fusione degli strati nevosi superficiali e il conseguente aumento della loro densità rispetto a quelli profondi, favorendone lo scollamento e lo scivolamento
  • l’azione meccanica del vento, di una frana o del passaggio di sciatori, in zone con masse nevose instabili per i motivi suddetti, può innescare il distacco di una valanga. Questi fattori possono presentarsi da soli o associati. La protezione dal rischio di valanghe è attuata in modo passivo, per mezzo di barriere paravalanghe fisse, e in modo attivo, con il bombardamento o il distacco meccanico delle masse a rischio di caduta, che vengono in questo modo eliminate prima che assumano dimensioni pericolose. Per tutto il settore italiano delle Alpi è in via di compilazione una carta delle valanghe, in cui, tenendo conto della morfologia dei versanti, del clima e di eventuali interventi da parte dell’uomo, sia evidente non solo la localizzazione del fenomeno, ma anche la sua frequenza. Sono emessi, a cura delle regioni, anche bollettini nivometeorologici, che indicano il progressivo rischio di valanghe con una scala da 1 a 5.

La potenza distruttrice di una valanga alle pendici dell'Himalaya

La desertificazione

Per desertificazione s’intende l’espansione dell’ambiente desertico in zone che erano in precedenza semiaride, a steppa o anche ricoperte di foreste. Produce un progressivo impoverimento dei suoli e la loro polverizzazione, rendendoli così preda della deflazione eolica: il materiale terrigeno si mobilizza fino ad accumularsi in dune che si muovono seguendo la direzione del vento. I processi di desertificazione cominciarono ad essere studiati verso la fine dell’800 e al fenomeno si diede una spiegazione basata su cause esclusivamente naturali, cioè sull’inaridimento del clima. Più recentemente, l’espansione delle zone aride è stata attribuita all’azione umana, al punto da sostenere che “se la siccità è espressione di un tipo climatico, la desertificazione è opera dell’uomo”. I deserti sono in continua espansione in tutto il mondo: ogni anno una superficie pari a circa 6 milioni di ettari subisce il processo di desertificazione. Il Sahara, il deserto più grande, è andato ampliandosi a cominciare dal periodo arido compreso tra il 1250 e il 1200 a.C.: passando attraverso fasi alterne di diffusa progressione, di temporaneo arresto e di momentaneo regresso, oggi può essere considerato nuovamente in avanzamento.

Le cause antropiche della desertificazione

I principali “fattori” antropici di desertificazione sono il pascolo eccessivo, le tecniche agricole inadatte, il disboscamento e l’irrigazione di zone aride.

  • Il pascolo eccessivo. Fin dagli albori della civiltà, nelle steppe semiaride di tutto il mondo l’allevamento del bestiame è praticato attraverso il nomadismo. Se le mandrie si muovono lungo percorsi prestabiliti, con cadenze note e con numero di capi che resta grosso modo costante nel tempo, gli stessi luoghi sono ripercorsi dopo intervalli lunghissimi, talvolta dell’ordine di 15-20 anni: le pause permettono alla cotica erbosa di rigenerarsi, in un ambiente estremamente poco fertile per la scarsità d’acqua. L’equilibrio esistente ormai da molti secoli in queste zone è stato compromesso da due fattori concomitanti: la creazione di confini nazionali, come conseguenza dei processi di decolonizzazione, e l’aumento della popolazione animale. La creazione di confini nazionali ha ostacolato le migrazioni per il pascolo degli animali e le mandrie sono state costrette a sostare troppo a lungo negli stessi luoghi e ad abbreviare gli intervalli tra gli avvicendamenti sugli stessi pascoli: ciò ha provocato un maggior consumo della copertura vegetale e dei suoi apparati radicali, che, se presenti, agiscono proteggendo il suolo dall’erosione e dal processo di desertificazione. Un involontario contributo al disastro si deve ai programmi di aiuto al Terzo Mondo da parte dei paesi occidentali: l’invio gratuito di migliaia di capi di bestiame ha fatto aumentare la popolazione animale ben oltre il limite che i pascoli della zona avrebbero potuto sopportare. Così, in pochi anni, vastissime distese di savane e steppe sono state compromesse e trasformate in campi di dune mobili.
  • Le tecniche agricole inadatte. I suoli vengono sottoposti a forme rudimentali e inefficienti di agricoltura intensiva, senza più rispettare le antiche consuetudini di turnazione delle colture o di riposo periodico: ne deriva una rapidissima diminuzione dell’efficienza biologica dell’ambiente, con la compromissione dei raccolti, l’abbandono delle terre e la consueta deflazione eolica delle superfici denudate
  • Il disboscamento. L’aumento della popolazione, insieme con il forte incremento del fabbisogno energetico pro capite, si rivela letale per i magri boschi ai margini dei deserti, distrutti dall’obbligo impellente di reperire sempre nuovo combustibile: tale pratica, sconosciuta nella società nomade, presso cui anche le semplici necessità di cottura del cibo vengono soddisfatte dal ciclo animale tramite l’essiccamento dello sterco, provoca la distruzione del bosco, la conseguente variazione del microclima al suolo e la progressiva compromissione degli arbusti, fino all’irreversibile deperimento dell’associazione vegetale nel suo complesso
  • L’irrigazione delle zone aride Molti suoli aridi sono particolarmente ricchi di sali minerali di vario genere: l’irrigazione di suoli salini può avere come conseguenza la mobilizzazione di ioni presenti nel terreno, in particolare di quelli più solubili come il sodio. La forte evaporazione, poi, ne favorisce la risalita per capillarità fino agli strati più superficiali e ciò comporta una vera e propria “alcalinizzazione” del profilo del suolo, con un’ulteriore riduzione della sua fertilità. L’arresto dei processi di desertificazione è legato a una delle due condizioni seguenti: . un cambiamento climatico (che è un fenomeno naturale globale e, ovviamente, spontaneo e non prevedibile) . un intervento dell’uomo, oggi considerato la via più efficace per arrestare la desertificazione.

Interventi contro la desertificazione

Con opportuni interventi da parte dell’uomo, è possibile invertire la tendenza all’aumento dell’estensione dei deserti e, anzi, bonificare, cioè recuperare alla coltivazione territori prima desertici. Interventi di questo tipo sono stati attuati con successo nel deserto del Negev (Israele) e nella penisola del Sinis (Sardegna). La bonifica del Negev è stata attuata dopo la creazione dello stato di Israele. Si è basata su tre azioni: il reperimento di risorse idriche, le tecniche di irrigazione e la collaborazione tra ricerca scientifica e produzione. 1. Il reperimento di risorse idriche è stato possibile tramite la perforazione di numerosi pozzi, in grado di captare falde profonde prima non sfruttate, e la canalizzazione delle acque del fiume Giordano. 2. Le nuove tecniche di irrigazione sono consistite nell’ideazione, collaudo e diffusione dell’irrigazione a goccia (distribuzione dell’acqua facendola uscire goccia a goccia da un tubo forato solo immediatamente vicino alle piante), attuata con impianti fissi d’irrigazione, in collegamento ad altri aerei e a sistemi di serre: queste nuove tecniche di irrigazione hanno consentito un notevole risparmio di acqua. 3. La collaborazione ricerca scientifica-produzione, ereditata dal modello americano e perfezionata, ha permesso di rendere immediatamente operative scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche. Valgano per tutti i metodi di irrigazione automatica con impianti rotanti o in traslazione rettilinea, che sono ormai adottati ovunque si pratichi l’aridocoltura, cioè una forma di agricoltura che permette di usare una minor quantità di acqua per l’irrigazione. La penisola del Sinis, in Sardegna occidentale a nord del Golfo di Oristano, negli anni ‘50 era in stato di avanzata desertificazione a causa dell’eccesso di pascolo. Il recupero venne attuato attraverso un intervento amministrativo, che interdì il pascolo al di sotto dell’isoipsa dei 50 metri (che escluse l’intera penisola), la fissazione delle dune con piante specifiche, l’impianto di colture aridofile (cioè in grado di sopportare prolungati periodi di siccità) e infine la progettazione di imponenti sistemi di irrigazione. Programmi di bonifica di zone desertiche simili a quelli descritti si stanno oggi sviluppando in varie parti del mondo.

La foresta di Yatir ai margini del deserto