La seconda guerra mondiale coinvolse tutti i continenti, ebbe campi di battaglia su territori europei africani, asiatici, negli oceani e per aria, richiese una mobilitazione di uomini e di risorse mai vista prima di allora e la popolazione civile fu direttamente coinvolta nel conflitto: per questo si parla oltre che di guerra mondiale anche di guerra “totale”. La popolazione civile, in primo luogo, ebbe una sorte molto differente da quella che aveva avuto nella prima guerra mondiale: fu bombardata, fu fatta oggetto di persecuzioni, fu colpita dal passaggio dei fronti, partecipò infine alla guerra partigiana.
Il conflitto vide un’acutissima contrapposizione ideologica tra paesi che si definivano propugnatori di democrazia e di pace e le potenze naziste e fasciste, cui si unì il Giappone, che volevano affermare il “nuovo ordine” che avrebbe dato ai paesi giovani e poveri il diritto di porre fine all’imperialismo delle “vecchie” e “ricche” nazioni democratiche e che, inoltre, si scagliavano anche contro il bolscevismo. I nazisti considerarono nemici, alla stregua degli altri, anche gli ebrei che anzi venivano indicati come gli autori della “congiura internazionale” che nasceva dalla decadenza democratica e del disordine sovietico. Vittime del terrore nazista furono principalmente gli ebrei e i comunisti che vennero perseguitati e annientati sistematicamente.
La Resistenza, infine, fu un altro fenomeno caratteristico della seconda guerra mondiale. Coloro che lottarono contro il fascismo e il nazismo unirono, alle motivazioni politiche, anche istanze di rinnovamento economico - sociale che, insieme alla forte caratterizzazione ideologica del nazismo, determinarono l’avviarsi di un processo di politicizzazione delle masse di vaste dimensioni.
La Polonia fu attaccata dagli eserciti nazisti nel settembre del 1939 senza alcuna dichiarazione di guerra, atto cui risposero immediatamente la Francia e l’Inghilterra dichiarando guerra alla Germania, mentre Giappone e Stati uniti proclamarono la propria neutralità. In due settimane la Polonia, dotata di forze impari rispetto alla Germania, fu conquistata: Varsavia era stata bombardata duramente e il territorio occupato da carri armati e da truppe motorizzate. Francia e Inghilterra, data la rapidità dell’attacco, non ebbero il tempo di intervenire, mentre la Russia, forte del patto nazi-sovietico firmato segretamente nel 1939, non solo occupava la parte di Polonia orientale che le spettava secondo gli accordi presi con Hitler ma dichiarava guerra alla Finlandia che fu costretta a cedere qualche mese dopo. Intanto Hitler mirava all’accerchiamento della Gran Bretagna e per questo occupò senza difficoltà la Danimarca e la Norvegia. Nella primavera del 1940 rimaneva solo la Francia per completare il piano di accerchiamento: il 24 maggio, dopo avere attaccato Olanda, Belgio e Lussemburgo, la Germania si apprestava ad attaccare la Francia, e nel giro di poco più di un mese l’occupazione era stata compiuta; infatti, il 22 giugno la Francia firmava l’armistizio con la Germania.
Alla luce delle rapide e facili vittorie della Germania l’Italia di Mussolini volle intervenire in guerra e assunse immediatamente una posizione subordinata a Hitler; l’Inghilterra era rimasta sola a combattere contro i nazisti, l’Unione Sovietica cominciò a temere gli sviluppi della guerra, mentre gli USA riconsideravano la loro politica isolazionista.
L’Italia entrava in guerra con un esercito complessivamente peggiore di quello che aveva nel 1914: molte delle armi leggere risalivano ancora alla prima guerra mondiale e i carri armati erano troppo leggeri e di qualità scadente, l’aviazione era dotata di una limitata quantità di mezzi e del tutto inadeguati a paragone con quelli degli altri eserciti. Allo scoppio della guerra, l’Italia aveva preso tempo dichiarando la “non belligeranza” e mantenendosi in una posizione ambigua intrattenendo rapporti economici sia con la Francia sia con la Gran Bretagna, pur essendo desiderosa di entrare in guerra accanto a Hitler. L’Italia entrò nel conflitto il 10 giugno dichiarando guerra alla Francia, che era ormai allo stremo, e alla Gran Bretagna con l’intenzione di condurre una guerra parallela a quella tedesca nell’area mediterranea e scagliandosi contro le potenze “plutocratiche e decadenti” come l’Inghilterra.
Dopo aver dichiarato guerra alla Francia, l’Italia attaccò con 300.000 uomini l’esercito francese composto da 175.000 soldati, ma le condizioni atmosferiche avverse e la scadente preparazione fecero sì che si risolvesse in un fallimento. Nonostante ciò, la Francia firmò l’armistizio con l’Italia due giorni dopo aver firmato quello con la Germania.
La tappa successiva della guerra italiana fu l’Africa, dove Mussolini ordinò di attaccare gli inglesi; fortificato da una fase di iniziale successo, Mussolini decise di attaccare anche la Grecia, ma alla fine del 1940 tutti e due i fronti si erano rivelati un fallimento. In entrambi i casi la situazione fu rovesciata a vantaggio dell’Italia solo grazie all’intervento della Germania che nel 1941 diede inizio alla campagna contro la Grecia e la Jugoslavia e contro l’Africa britannica. I nazisti vinsero rapidamente in Grecia e in Jugoslavia; in Africa Addis Abeba venne occupata dagli inglesi ma non la Cirenaica da cui furono respinti.
La Francia aveva capitolato e l’Inghilterra era rimasta sola a contrastare la Germania; nonostante ciò Churchill non accettò la proposta di resa che nel 1941 fece Hitler. La Germania progettò allora l’invasione dell’Inghilterra, mentre già aveva iniziato i bombardamenti delle città inglesi. L’operazione “leone marino” prevedeva l’invasione dell’isola dal mare preceduta dalla devastazione, ad opera dell’aviazione nazista, di tutte le difese collocate sulla costa, di tutti gli impianti industriali e degli aeroporti e dopo avere stremato la popolazione civile con i bombardamenti.
Il radar fu di grande aiuto per gli inglesi che riuscirono ad evitare il compimento del piano: l’aviazione nazista ebbe danni ingenti grazie all’ausilio del radar e il progetto della guerra “lampo” contro la Gran Bretagna dovette essere accantonato. Hitler incrementò però i bombardamenti sulle città inglesi.
Si trattava del primo fallimento nazista dall’inizio della guerra ed ebbe una grande importanza, a livello psicologico, per gli avversari poiché infrangeva il mito dell’invincibilità della Germania. L’Inghilterra era riuscita a condurre a termine questo episodio bellico anche grazie agli aiuti che provenivano dai dominions e grazie al mutato atteggiamento degli USA che decisero di uscire dall’isolazionismo per combattere attivamente il nazismo.
Il 30 novembre 1939 le forze sovietiche invasero la Finlandia, ma il piano russo di una guerra lampo, sullo stile della Blitzkrieg tedesca, fallì miseramente davanti alla strenua difesa attuata dalle forze finlandesi. Seppur inferiori in numero e mal equipaggiati, i Finlandesi mostrarono eccezionale coraggio e attuarono la strategia militare della guerriglia per ovviare all’evidente disparità di forze tra i due schieramenti. L’inverno del 1939-40 fu molto rigido, con temperature che raggiunsero anche i meno 40 gradi. Le truppe finlandesi furono eccezionali nel trasformare il freddo, le lunghe ore di buio, la foresta e la quasi assenza di vie percorribili a proprio vantaggio. Vestiti completamente di bianco ed equipaggiati con sci da fondo, i soldati finlandesi riuscivano a muoversi molto agilmente e furono spesso anche nella condizione di passare al contrattacco in alcune zone della Finlandia centrale.
Capiti alcuni degli errori commessi precedentemente, gli alti comandi sovietici concentrarono un numero maggiore di soldati in un numero minore di divisioni per sfondare la resistenza finlandese sfruttando la loro maggiore forza d’urto. A quel punto, la Finlandia avrebbe seriamente rischiato di subire un’invasione sovietica su tutto il suo territorio. Anche i russi dal canto loro erano però stremati da una guerra che si dimostrò più lunga e dispendiosa del previsto, oltre ad essere preoccupati su altri fronti per gli sviluppi della II Guerra mondiale. Il 6 marzo 1940 venne firmato un armistizio ed il 12 marzo venne poi sottoscritto il Trattato di Pace di Mosca che sanciva la perdita da parte finlandese di alcune parti nel territorio a Nord (parte della zona di Salla e la penisola di Kalastajansaarento), alcune isole nel Golfo di Finlandia e soprattutto della Carelia. Di questa regione faceva parte Viipuri, che era la seconda città più popolata della Finlandia nonché un importantissimo centro industriale e di scambi commerciali.
La guerra d’inverno fu la rampa di lancio per la straordinaria carriera giornalistica di Indro Montanelli. Montanelli arrivò ad Helsinki nell’autunno del 1939 e lavorò come corrispondente di guerra. Il coraggio e l’incredibile resistenza del popolo finlandese affascinarono il giovane Montanelli e le sue corrispondenze ebbero allora un gran successo in Italia.
Fin dal 1931, Giappone e Cina erano impegnati in quella guerra che rimarrà nota come “guerra dei 14 anni”. Il Giappone aveva firmato nel 1940 il patto tripartito e nel 1941 il patto di non aggressione con l’Unione Sovietica. Per proseguire la guerra con la Cina però il Giappone riteneva di avere necessità delle risorse dell’Asia sudorientale, zona sulla quale gli USA non erano disposti a ridurre la propria influenza. Proprio in questo clima maturò l’attacco alla base navale americana di Pearl Harbor che si rivelò però un fallimento dal punto di vista strategico, sebbene avesse comportato gravi danni e ingenti perdite umane da parte americana. Gli Stati Uniti seppero riprendere in mano il controllo della situazione, affiancati dall’Inghilterra che era scesa in campo con loro. Dopo l’attacco a Pearl Harbor, i Giapponesi proseguirono nella guerra con la Cina occupando Hong Kong, le Filippine, la Malesia, Singapore, le Indie olandesi e parte della Birmania, schiavizzando e sterminando la popolazione indigena. Nel 1945 però essi persero l’egemonia sull’Asia sudorientale e combatterono in quell’area le fasi decisive della guerra con gli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti, a partire dall’estate del 1940, tentarono di ostacolare l’espansionismo di Tokyo, ai danni della Cina, estendendo l’embargo ai prodotti di natura militare: la decisione di escludere dal commercio anche il petrolio, nel 1941, fu il preludio alla guerra tra Giappone e Stati Uniti. Il presidente giapponese Fumimaro Konoye tentò di trovare un compromesso con gli USA ma, il suo fallimento, comportò la caduta del governo e l’ascesa di Hideki Tojo, fautore della guerra contro gli Stati Uniti.
Le portaerei giapponesi, il 7 dicembre 1941, senza avere formalizzato alcuna dichiarazione di guerra, attaccarono la base navale di Pearl Harbor nelle Hawai. Il bombardamento durò due ore e produsse danni ingentissimi sulla flotta navale e molte perdite umane (19 navi furono affondate, 150 velivoli persi e 2.400 vittime tra civili e militari oltre a 1.178 feriti).
Tuttavia l’obiettivo giapponese non fu raggiunto poiché le portaerei, che essi volevano colpire, avevano lasciato la base pochi giorni prima. Il giorno dopo il Congresso americano votò l’ingresso in guerra degli USA contro il Giappone.
Dopo la vittoria sulla Francia, Hitler aveva sempre meno interesse a mantenere in piedi il patto nazi-sovietico e, anzi, intendeva estendere il suo controllo sull’area balcanica. Già dal dicembre 1940, Hitler progettò un attacco rapido all’URSS per conquistare quello “spazio vitale” per la popolazione tedesca. L’attacco cominciò più tardi, il 22 giugno 1941, dopo che la Germania nazista era intervenuta in Grecia e Jugoslavia: l’operazione era stata denominata Barbarossa e doveva svolgersi nei progetti di Hitler in modo estremamente rapido. Egli riteneva, infatti, che le dotazioni militari sovietiche fossero esigue e che l’esercito nemico sarebbe crollato rapidamente.
Il piano prevedeva l’attacco sia con carri armati sia con l’aviazione. Inizialmente le favorevoli condizioni del terreno e l’insufficienza tattica delle truppe sovietiche sembrarono dargli ragione: alla fine dell’autunno i paesi baltici, la Bielorussia, l’Ucraina, la Crimea del nord erano nelle mani dei nazisti. Il fronte si attestò sulla linea che da Sebastopoli giungeva a Leningrado ma l’operazione non fu condotta a termine, come era nelle speranze di Hitler, prima dell’arrivo dell’inverno.
L’esercito sovietico si affrettò a riorganizzarsi e riuscì a trasformare la guerra lampo in guerra di usura: gli impianti industriali vennero spostati nelle zone più orientali del paese per garantire i rifornimenti ed evitare che cadessero nelle mani nemiche, le bande partigiane collaborarono con l’esercito e gli USA inviarono aiuti economici estendendo la legge “affitti e prestiti” all’Unione Sovietica.
Mentre l’esercito sovietico resisteva agli attacchi dei nazisti e riusciva anche a respingerli a 200 chilometri dal fronte, l’Inghilterra continuava anch’essa a resistere, e nel novembre 1941 era cominciata anche la guerra tra Giappone e USA con l’attacco alla base americana di Pearl Harbor.
L’Italia che, dal canto suo, aveva sperato in una guerra parallela a quella nazista, aveva mostrato tutta l’inadeguatezza del suo esercito in Grecia e in Africa e si era sottoposta sia politicamente sia militarmente all’egemonia tedesca e fin dal 1941 aveva inviato un corpo di spedizione italiano (Csir) in Russia. Il corpo fu denominato, nel 1942, Armata italiana in Russia e comprendeva 200.000 uomini: la metà fu massacrata e fatta prigioniera.
I nazisti in Russia, costatato il fallimento della guerra lampo, dovettero ridimensionare i propri obiettivi ma intendevano per lo meno occupare le zone del Caucaso ricche di petrolio e bloccare la linea attraverso cui giungevano all’URSS i rifornimenti inglesi e americani nel Golfo Persico. Dal 1942 così il punto centrale dell’offensiva tedesca divenne la città di Stalingrado.
I combattimenti a Stalingrado proseguirono dal luglio 1942 al febbraio 1943, teatro degli scontri fu ogni singola via della città. I tedeschi subirono gravi perdite di uomini e di mezzi e alla fine del novembre 1942 furono attaccati da una controffensiva sovietica che, con un gran numero di carri armati, costrinse il nemico a ripiegare e successivamente lo respinse. Si trattava della prima grande sconfitta che l’esercito nazista subiva dall’inizio del conflitto. L’armata impegnata a Stalingrado, comandata dal maresciallo von Paulus, venne costretta da Hitler a una strenua resistenza che si tradusse poi in un’inevitabile capitolazione. Nel marzo del 1943 l’armata capitolò e Hitler proclamò quattro giorni di lutto nazionale. Si era trattato della più grande battaglia della storia umana che aveva distrutto le ambizioni tedesche alla costruzione di un impero.
Le sconfitte militari avevano prodotto in Italia un netto scollamento tra regime e masse popolari. Le promesse imperiali di Mussolini suonavano ormai false, dopo tutte le sconfitte subite, e al contempo massicci bombardamenti colpivano le città del triangolo industriale, la popolazione era allo stremo delle forze e sottoposta a rigide restrizioni del tenore di vita.
La caduta della Tunisia nelle mani delle forze anglo-americane nel 1943 costituì il punto di passaggio per gli Alleati per l’ingresso in Italia. Nel 1943 Pantelleria fu occupata e, nel luglio del 1943, le forze alleate sbarcarono in Sicilia trovandosi di fronte un esercito sfiduciato e non troppo disposto ad opporre resistenza; la popolazione italiana esprimeva la sua grande sfiducia nel regime anche attraverso gli scioperi che nel 1943 investirono il nord industriale del paese.
Mentre Mussolini tentava debolmente, in un incontro con Hitler, di salvare il suo regime, il re nominò Badoglio capo del governo e fece arrestare Mussolini; sebbene fosse stato dichiarato che la guerra proseguiva e che le alleanze sarebbero state rispettate, il nuovo governo temeva la reazione tedesca così come, dall’altra parte, temeva il divampare di movimenti monarchici e rivoluzionari. L’obiettivo di Badoglio era, sostanzialmente, di smantellare gli apparati del regime per ritornare alle condizioni dell’Italia pre-fascista senza mettere in discussione la monarchia e l’assetto politico ed economico italiano. I tedeschi misero in atto l’operazione “Valkiria” per occupare militarmente l’Italia mentre a sud il governo firmava l’8 settembre l’armistizio con gli Alleati: conseguenza immediata fu lo smembramento dell’esercito, la fuga da Roma del re e Badoglio che si posero sotto l’ala protettrice degli Alleati e la spaccatura della penisola, occupata a sud dalle forze anglo-americane e nel centro nord dai tedeschi.
L’inizio del 1943 aveva segnato la più grande sconfitta dell’esercito nazista dall’inizio della guerra nella battaglia di Stalingrado; ma le cose non andavano meglio in Africa. Durante il 1941-42 le forze dell’Asse erano riuscite a ottenere successi sull’esercito inglese e si apprestavano a occupare l’Egitto; fu nell’ottobre del 1942 che il generale Montgomery lanciò la controffensiva sugli eserciti dell’Asse nella battaglia di El Alamein vincendoli e costringendoli a riparare il Libia. Nel novembre anche le truppe americane di Eisenhower sbarcarono in Africa (Marocco e Algeria): la risposta tedesca fu l’invasione della “zona libera” della Francia sottoposta al regime di Vichy e della Tunisia. Ma gli eventi non erano ormai più favorevoli all’Asse poiché in Tunisia si attestarono le truppe angloamericane; anche la Libia dovette essere abbandonata dall’esercito tedesco.
Stalin, impegnato sul fronte orientale, caldeggiava l’apertura di un secondo fronte in Europa per ridurre le pressioni naziste ad est.
Dopo che l’esercito nazista ebbe attaccato l’Unione Sovietica, Stalin chiese che si aprisse un nuovo fronte in Europa in modo da costringere Hitler a battersi su due fronti e ridurre la pressione sul fronte orientale. La preparazione dell’attacco vide il fronte Alleato attraversato da contrasti che sembravano preludere ai motivi che successivamente caratterizzarono la “guerra fredda”.
Lo sbarco in Normandia ebbe inizio il 6 giugno del 1944 e comportò uno spiegamento di uomini e di mezzi senza precedenti. Gli Alleati ebbero a loro favore le incertezze tattiche del fronte tedesco e riuscirono così a compiere un’azione che coglieva i tedeschi di sorpresa avvantaggiati anche dalla maggiore quantità di uomini e dall’efficienza che erano riusciti a raggiungere.
Successivamente allo sbarco, che pure comportò la perdita di moltissime vite umane, le sorti della guerra si rovesciarono a favore degli Alleati anche sugli altri fronti. La Germania, nell’inverno tra il 1944 e il 1945 tentò un’ultima, disperata offensiva nella regione belga delle Ardenne, concentrandovi gran parte delle proprie divisioni corazzate: ne nacque uno scontro durissimo, che tuttavia si risolse in una vittoria delle truppe alleate. La strada per Berlino era oramai aperta. L’Asse era prossima alla sconfitta. L’Italia aveva firmato l’armistizio l’8 settembre 1943 e la neo-nata Repubblica di Salò non era in grado in ogni caso di contribuire in maniera determinante a risollevare le sorti del conflitto a favore dell’Asse. In Germania, nell’estate del 1944, cominciò a cedere il fronte interno: vi fu un tentativo di attentato a Hitler, da parte di un gruppo di militari conservatori che voleva prendere in mano la guida del paese. Il 25 aprile le truppe americane e sovietiche s’incontrarono sull’Elba e il 7 maggio la Germania firmò la resa senza condizioni: momento che segnò la fine della guerra in Europa.
Nella primavera del 1942 si ebbe anche il rovesciamento delle sorti della guerra nel Pacifico: il Giappone subì due grandi sconfitte ad opera degli USA nel mar dei Coralli nel maggio 1942 e nelle isole Midway nel mese di giugno: in entrambi i casi la flotta giapponese fu colpita e distrutta. Fu allora che il Giappone dovette accantonare i suoi piani di sbarco in Australia e occupò, nel luglio di quello stesso anno, l’isola di Guadalcanal sulla quale si concentrò subito l’attenzione statunitense poiché era ritenuta un punto strategico per le operazioni controffensive. La battaglia tra giapponesi e americani proseguì dall’agosto ‘42 al febbraio ‘43 e si concluse con la sconfitta nipponica.
Il “Progetto Manhattan” aveva dotato gli Stati Uniti di un’arma dal potenziale distruttivo. Alcuni scienziati che avevano partecipato al progetto avrebbero desiderato che le bombe venissero provate in aree desertiche: poiché le armi a disposizione dell’America erano solo due, oltre quello di Alamogordo che era già stato fatto esplodere, venne stabilito che sarebbero state usate per scopi militari. Il dibattito si era scatenato all’interno dell’amministrazione Truman ma i suoi consiglieri ritennero opportuno utilizzare i due ordigni contro il Giappone, per portare a rapida conclusione il conflitto. Si trattava di una scelta che venne giustificata con la possibilità di concludere la guerra pur senza la perdita di un numero ingente di vite umane, ma di fatto l’interesse degli Stati Uniti era anche quello di mostrare la superiorità bellica degli USA all’Unione Sovietica.
Hiroshima e Nagasaki vennero selezionate come bersagli da colpire con le bombe poiché erano, l’una un nucleo centrale della produzione bellica e l’altra sede di importanti cantieri navali giapponesi.
Il 6 agosto venne lanciata su Hiroshima la prima bomba atomica dopo che il governo di Tokyo aveva rifiutato l’ultimatum. Tre giorni dopo, quando l’Unione Sovietica aveva già dichiarato guerra al Giappone, venne fatta esplodere la seconda bomba sulla città di Nagasaki. Le vittime furono complessivamente quasi centomila e migliaia ne morirono in seguito per effetto delle radiazioni. Il Giappone si arrese il 14 agosto momento col quale si chiuse la seconda guerra mondiale.
Gli ebrei erano stati identificati fin dal 1933 come “nemici” ma durante la guerra fu messa in atto l’ultima e più tragica aggressione ai loro danni. Hitler parlò di “soluzione finale del problema ebraico” intendendo proseguire sistematicamente al loro sterminio. Furono allestiti circa 900 campi di lavoro e di concentramento; i principali erano una trentina e portano i nomi tristemente noti di Buchenwald, Mauthausen, Auschwitz, Treblinka, Dachau, Ravensbruck, Belsen. Le vittime della persecuzione venivano condotti ai campi in carri bestiame in condizioni disumane dopo essere stati rapiti dalle proprie abitazioni e dai ghetti dove già erano stati rinchiusi. Alla deportazione seguiva la spersonalizzazione degli individui che venivano marchiati a fuoco e ridotti a un numero. Coloro che venivano giudicati abili al lavoro erano costretti alla schiavitù nei campi di lavoro sotto il vigile e crudele occhio delle SS, gli altri erano destinati alla camera a gas. Le vittime della persecuzione nazista oscillano tra i 5 e i 6 milioni di persone.
Nel 1945 le immani tragedie della seconda guerra mondiale erano giunte al termine, e gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, e la Russia si trovarono impegnate nelle trattative che dovevano stabilire il nuovo assetto geo-politico mondiale. Nel 1946, preceduta da una serie di incontri a Londra, Parigi e Mosca, si aprì la Conferenza di Parigi che definiva i trattati con i paesi “satelliti” della Germania: Italia, Bulgaria, Romania, Ungheria, e Finlandia. L’Italia cedette Briga e Tenda alla Francia e la Venezia Giulia alla Jugoslavia; perse inoltre tutte le colonie. Albania e Etiopia ottennero subito l’indipendenza mentre sulla Libia, l’Eritrea e la Somalia si rimandò la decisione in mancanza di accordo. I paesi orientali furono riorganizzati secondo trattati che rispecchiavano le esigenze sovietiche. In Asia, il Giappone perse tutti i territori in Cina e invece, Francia, Gran Bretagna e Olanda recuperarono tutte le colonie, sebbene in modo precario perché si era ormai avviato un inevitabile processo di decolonizzazione.
Durante le conferenze di Yalta e Potsdam gli Alleati avevano ritenuto che la Germania dovesse assolutamente perdere l’autonomia politica e che i colpevoli di quanto accaduto avrebbero dovuto essere puniti. Tra il 1945 e il 1946 si tenne il processo di Norimberga, unico evento che vide nel secondo dopoguerra i sovietici e gli occidentali collaborare attivamente. Imputati al processo furono i più alti responsabili delle sfere economiche e politiche del terzo Reich e i più alti capi militari, erano assenti Hitler, Goebbles, Himmler e Ley che si erano suicidati. Essi furono accusati di crimini contro la pace (per aver preparato aggressioni belliche), di crimini di guerra (violazioni delle norme e degli usi bellici), e di crimini contro l’umanità (genocidio, deportazioni, lavoro forzato).
Sebbene l’epurazione dei nazisti fosse stata relativamente ampia, quantomeno nella zona orientale, molti di coloro che avevano avuto grosse responsabilità, tornarono ben presto a riprendere la propria attività.
Al fine di ridurre il potere economico della Germania i cartelli della Ruhr vennero frazionati, il colosso della chimica J.G.Farben fu smantellato e nell’area tedesca orientale, passata sotto l’influenza sovietica, tutta l’industria venne nazionalizzata e le grandi proprietà terriere furono confiscate senza indennizzi.
Gli oppositori al nazifascismo si organizzarono in diversi paesi europei nella Resistenza. Si unirono in questa coraggiosa lotta uomini e donne di diverse classi sociali, spinti da molteplici intenti: i liberali, che dopo il fascismo e il nazismo volevano restaurare regimi capitalistico parlamentari; i borghesi democratici, che prospettavano la necessità di proseguire sulla strada delle riforme politiche e sociali; i socialisti e i comunisti, che consideravano la Resistenza l’inizio di un processo di mutamento che avrebbe anche potuto condurre al socialismo. Ma parteciparono alla resistenza anche uomini di chiesa, ebrei, contadini e militari. Tutti erano uniti dal desiderio di ribellarsi ai regimi che avevano fatto un uso sistematico del terrore e dello sterminio. Il maggiore contributo venne però dalla classe operaia e dalle masse popolari che si riunivano per lo più nei gruppi resistenziali di matrice comunista che furono, infatti, i più numerosi. La Resistenza si dispiegò nelle città e nelle campagne e non corrispose alla sola azione delle bande partigiane, poiché fu Resistenza ogni opera di sabotaggio e ogni sciopero.
Le formazioni partigiane nacquero su larga scala soprattutto in Italia settentrionale, in Jugoslavia, in Polonia, in Grecia, in Francia e nella Russia occupata. In Italia la Resistenza si era sviluppata all’indomani dell’8 settembre e proseguì fino alla fine del conflitto. La direzione politica fu affidata al Comitato di liberazione nazionale che dovette definire anche i rapporti con il governo nell’Italia del sud e con gli Alleati. Questi ultimi tentarono in ogni modo di ostacolare l’autonomia dei gruppi partigiani temendo la radicalizzazione politica che ne sarebbe potuta derivare, tanto che nel 1944 le truppe partigiane furono invitate a smobilitare per lasciare che la liberazione venisse compiuta solo dagli Alleati. I gruppi partigiani non accolsero la richiesta e proseguirono la loro azione fino alla Liberazione.
In Germania non si sviluppò, invece, un vero e proprio movimento di Resistenza poiché mancarono i presupposti fondamentali: la crisi militare, un’opposizione di massa diffusa, l’appoggio di gran parte della popolazione e la presenza di una rete di partiti attorno a cui si potesse sviluppare la lotta di Resistenza.
Con il termine collaborazionismo si indica il fenomeno che si sviluppò in alcuni dei paesi occupati dai nazisti che vide la popolazione indigena schierarsi a fianco dei tedeschi. “Collaborazionisti” furono singole persone ma anche interi stati come la Francia di Vichy e l’Italia di Salò; si trattava in generale di conservatori che vedevano ancora nel nazismo un ostacolo allo sviluppo del bolscevismo e temevano che con la sconfitta dell’Asse potesse scoppiare una rivoluzione.
In Francia il regime di Vichy fu instaurato nel 1940 da Pétain che era il rappresentante di un gruppo conservatore formato dal clero, da parte degli ufficiali, dai proprietari terrieri, dagli industriali e dalla burocrazia. Il regime che egli instaurò era antiparlamentare e presidenziale e si diede una caratterizzazione corporativa come il fascismo e il nazismo. Nel 1942 la repubblica di Vichy si mise al diretto servizio dei tedeschi abbandonando ogni, seppure formale, indipendenza.
La Repubblica sociale italiana nacque il 23 settembre a Salò con il sostegno attivo dei tedeschi. Badoglio e il re erano fuggiti da Roma e Mussolini era stato liberato dai tedeschi dove era stato imprigionato dal governo Badoglio. Fondando la Repubblica di Salò Mussolini intendeva proseguire la guerra a fianco dei nazisti e rinnovare il fascismo in senso repubblicano e “sociale”, rifacendosi alle origini del fascismo sansepolscrista. Col diminuire delle speranze di vittoria da parte tedesca la Repubblica sociale italiana mostrò sempre più la sua debolezza e il suo essere un governo fantoccio nelle mani dei tedeschi.
Già prima della fine della guerra le potenze alleate, URSS, USA e Gran Bretagna, si erano incontrate per pianificare l’assetto mondiale dopo la sconfitta dei fascismi in nome della autodeterminazione dei popoli; di fatto nelle scelte che vennero compiute pesò notevolmente la volontà delle potenze alleate e la costruzione di sfere di influenza ben determinate nel nuovo assetto mondiale.
La “Carta atlantica” dell’agosto 1941 conteneva affermazioni di principio che si rifacevano ai 14 punti di Wilson, ma con il profilarsi della vittoria sul nazismo si fece sempre più pressante l’esigenza, da parte delle potenze alleate, di prospettare decisioni che avessero influenza nell’assetto delle nazioni nel secondo dopoguerra. La prima conferenza storica si tenne a Teheran, alla fine del 1943; lì Stalin, Churchill e Roosevelt prospettarono la divisione della Germania in vari stati e il nuovo assetto della Polonia. L’incontro tra i “grandi” si ripeté nel 1945 a Yalta conferenza nella quale vennero precisati i termini di divisione della Germania in quattro aree di occupazione (una Francese, una britannica, una sovietica e una statunitense); il pagamento delle riparazioni da parte della Germania che sarebbe anche stata smilitarizzata e denazificata; un governo provvisorio per la Polonia con elementi filo-sovietici e filo-occidentali; la nascita dell’ONU e la nascita di paesi liberi in cui si sarebbero tenute libere elezioni.
Nello stesso anno i rappresentanti delle tre potenze mondiali si incontrarono ancora a Potsdam nei mesi di luglio e agosto, a quell’epoca la Germania si era già arresa e il Giappone stava per crollare: vi partecipavano ancora una volta Churchill, Stalin e, per gli Usa, Truman, eletto presidente dopo la morte di Roosevelt, avvenuta pochi giorni prima della resa tedesca. Al centro degli accordi vi fu il tipo di trattamento che doveva essere riservato alla Germania la cui divisione in quattro zone di occupazione fu accantonata mentre cominciavano ad emergere i contrasti tra le potenze.
Gli USA, alla fine della guerra, erano l’unica nazione con un’economia in ascesa e che non aveva subito danni materiali sul proprio territorio. Proprio questa prosperità contrapposta alla condizione di rovina che caratterizzava gli altri paesi coinvolti nella guerra fu lo strumento che gli Stati Uniti utilizzarono per influenzare l’orientamento politico dei nuovi stati e sottrarli all’area di influenza sovietica. Essi temevano il radicalizzarsi dei contrasti sociali e il loro possibile sfociare in una rivoluzione, pericolo che sembrava quanto mai concreto data la forza e l’influenza che avevano acquisito i partiti comunisti durante la Resistenza in Italia e in Francia, per esempio. Proprio per evitare che le tendenze rivoluzionarie si affermassero, gli Stati Uniti progettarono una campagna di aiuti economici per le zone devastate: nel 1943 sorse l’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unra) che, sebbene formalmente fosse posto sotto il controllo dell’ONU, di fatto dipendeva dagli USA. Inviare beni alimentari e materiali fungeva anche da elemento stabilizzatore per l’economia statunitense che aveva una grandissima quantità di eccedenze da smaltire per evitare una crisi dell’economia. A quella prima fase ne seguì una seconda, tra il 1945 e il 1946, più organicamente progettata che trovò espressione nella cosiddetta “dottrina Truman” che affermava la contrapposizione tra il mondo occidentale della libertà e il mondo del totalitarismo comunista. Il piano Marshall prevedeva una nuova serie di aiuti che intendeva dirigere anche nelle aree orientali dell’Europa per favorire la penetrazione degli Stati Uniti anche in quelle aree. L’URSS si rifiutò di accettarli e così fecero anche i paesi su cui essa poteva esercitare pressioni in questo senso.
La vittoria della guerra aveva garantito all’Unione Sovietica forza e prestigio che si univano al prestigio e all’influenza personale di Stalin il cui “culto” si diffondeva anche nei partiti comunisti esteri. Il regime staliniano dovette fare i conti con un ingentissimo livello di povertà cui si contrapponeva una grande forza militare. Rinunciando agli aiuti del piano Marshall, l’URSS dovette contare solamente sulle proprie forze per la ricostruzione e lo fece intensificando i ritmi di lavoro, riducendo i consumi della popolazione al minimo e programmando investimenti massicci. Nel marzo del 1946 venne varato il IV piano quinquennale che doveva condurre alla ricostruzione del sistema economico nazionale che era stato sconvolto dalle spese militari. Al termine del piano la produzione industriale risultava notevolmente accresciuta ma non accadde lo stesso con i beni di consumo che continuavano a scarseggiare. Anche l’agricoltura versava in condizioni difficoltose e il raccolto del 1953 fu inferiore a quello del 1913. A fronte di gravose difficoltà economiche e dell’ostilità occidentale, il regime staliniano si irrigidì ancor di più. Il culto di Stalin e la dittatura del partito dominarono la vita pubblica; chiunque fosse sospettato di opposizione, attiva o no, veniva perseguitato dalla polizia o processato; gli oppositori venivano mandati nei campi di concentramento dove fungevano da manodopera non retribuita; gli intellettuali furono costretti al silenzio, tacciati di anti-sovietismo, perché non emergessero critiche di alcun genere alla politica del regime.
I paesi occidentali, usciti dalla guerra profondamente indeboliti, avviarono trattative con gli Stati Uniti per collegarsi ad essa sia economicamente che militarmente in funzione antisovietica. Nell’aprile del 1949 si giunse a Washington alla firma del “Patto atlantico” che riuniva Francia, Gran Bretagna, Benelux, Stati Uniti, Canada, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo, Italia. L’intento era quello di farvi aderire il maggior numero di paesi e, infatti, negli anni successivi vi si unirono altri paesi europei; non entrò la Spagna che però, nel 1953, strinse accordi militari con gli USA collegandosi di fatto al Patto. Il Patto venne ufficializzato come Nato (Organizzazione del trattato dell’atlantico del nord) e costituì la struttura militare che si contrapponeva nella “guerra fredda” all’Unione Sovietica.
Alla fine della guerra le due grandi potenze erano l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti; la Gran Bretagna, che pure aveva partecipato alle conferenze di Teheran, Yalta e Potsdam, seguiva a una certa distanza i due grandi del mondo. La Francia liberata nel 1944 diede vita alla IV Repubblica redigendo una nuova costituzione; anche in Italia il referendum del 1946 sancì la nascita della Repubblica. La Germania fu divisa in due stati indipendenti, l’uno sotto l’area di influenza occidentale e l’altro sotto quella sovietica, la Repubblica federale tedesca e la Repubblica democratica tedesca; a oriente si formarono le Repubbliche popolari, stati satellite dell’Unione Sovietica. In Spagna e in Portogallo resistevano i regimi di destra di Franco e Salazar.
De Gaulle, che era stato presidente del Comitato di liberazione nazionale, assunse dopo la Liberazione, nel 1944, la guida del governo provvisorio francese con l’intento di dare basi nuovamente democratiche al paese dopo il regime di Vichy e anche di fare acquistare un nuovo ruolo centrale alla Francia nell’ambito internazionale. L’intento fallì. Durante il biennio 1944-45 il governo realizzò alcuni dei punti che la Resistenza francese aveva posto alla base del suo programma: furono compiute nazionalizzazioni, costituiti comitati d’impresa che vedevano la partecipazione degli operai, e venne avviato un sistema di sicurezza sociale. Nel 1945 le elezioni furono rappresentative dell’esigenza dei francesi di darsi una nuova costituzione che superasse quella del 1875. L’epoca della IV Repubblica si aprì con dei contrasti: De Gaulle propendeva per una costituzione in senso presidenziale e al fine di far pesare la propria posizione si dimise. La costituzione, dopo un primo progetto che fallì nel 1945, fu approvava nel 1946 e dava vita a una democrazia parlamentare in cui le crisi ministeriali sembravano dover essere molto probabili in base alla distribuzione dei poteri. De Gaulle, tenacemente ostile a questa soluzione, fondò a Strasburgo il Ressemblement du Peuple Francais (RPF) che intendeva lottare per una costituzione presidenziale: il risultato fu una grande instabilità dei governi fino al 1951 e una lenta affermazione della destra. Dal punto di vista economico gli anni della ricostruzione furono affrontati con un piano che coniugava liberismo e alcuni elementi di dirigismo che portò, negli anni successivi, alla crescita rilevante dell’economia.
In Gran Bretagna, dopo la guerra, il governo passò nelle mani dei laburisti: Winston Churchill che aveva guidato la nazione durante la guerra perse le elezioni sorpassato dai 393 seggi del Partito laburista che rispecchiavano la tensione riformista che si diffondeva nella nazione dopo il conflitto. Il laburismo non intendeva mettere in discussione il sistema capitalistico ma affiancarlo da una serie di riforme di natura sociale. Il programma di riforme sociali venne attuato negli anni dal 1946 al 1950 e prevedeva la nazionalizzazione della banca d’Inghilterra, dei settori del gas, dell’elettricità, del carbone e dei trasporti che erano funzionali alla produzione industriale. Venne stabilito un salario minimo e furono estese le assicurazioni sociali (con il National Assurance Act e il National Assistence Act), mentre, al contempo, furono sottoposte a una tassazione progressiva i grandi capitali. Questo programma, pur non intaccando il sistema capitalistico, interveniva nell’accrescere le possibilità di impiego e nel favorire la ridistribuzione del reddito tra i lavoratori. Nel 1947 venne creato il sistema nazionale sanitario che prestava cure mediche e ospedaliere gratuite; il tutto rientrava nel programma di Stato assistenziale (Welfare state) che voleva tutelare i cittadini dalla nascita alla morte. Siffatta politica di riforma si innestava però su una situazione economica piuttosto critica: forte inflazione, ingenti spese statali, deficit nella bilancia dei pagamenti (sulla quale pesavano i debiti contratti durante la guerra). Nonostante ciò la ricostruzione venne completata nel corso del 1949 anche grazie agli aiuti del piano Marshall. Le difficoltà, che però segnarono la ripresa economica, fecero sì che nel 1951 i conservatori risultassero nuovamente vincitori alle elezioni.
Sul destino della Germania si scontrarono gli interessi sovietici e occidentali: nel 1945 (quando si parlò di “Germania anno zero”) il suo territorio era occupato da ben quattro eserciti, le città erano pressoché distrutte, i trasporti inutilizzabili e le condizioni di vita ristrettissime. Berlino era stata divisa in due, separata in una zona est e una ovest così come il resto dello stato. Il processo di denazificazione, di democratizzazione e demilitarizzazione, avrebbe dovuto essere compiuto di concerto tra le potenze occidentali e orientali, ma, di fatto, l’accordo tra le diverse sfere ideologiche fu trovato solo per la celebrazione del processo di Norimberga.
La Germania occidentale beneficiò del piano Marshall per la ricostruzione e nel 1949 passò dal controllo inglese e statunitense a un governo tedesco eletto liberamente, divenne presidente il cattolico Adenauer, ma ancora sotto la tutela degli Alleati. La decisione si era sviluppata dopo che l’Unione Sovietica, per evitare la costituzione di uno stato occidentale presso i suoi confini, aveva tentato di isolare Berlino impedendo i rifornimenti. Nella Germania dell’est i sovietici provvidero all’imposizione della propria influenza, come a ovest avevano fatto le potenze occidentali, nazionalizzarono l’industria pesante e le banche, confiscarono le grandi proprietà terriere. Dal punto di vista politico le posizioni chiave del governo furono assunte dai comunisti e venne poi fondata la SED (Partito socialista unificato tedesco) che assunse la guida del paese e avviò un processo di “comunistizzazione” dello schieramento socialdemocratico. Nel 1949 gli occidentali dettero vita alla Repubblica federale tedesca e i sovietici alla Repubblica democratica tedesca.
Nella divisione delle sfere di influenza, dopo la seconda guerra mondiale, la Grecia era rientrata in quella occidentale e in particolare della Gran Bretagna. Tuttavia, si giunse ben presto ad una spaccatura tra le forze di sinistra (comunisti e democratici repubblicani) e la destra, appoggiata dalle forze britanniche, che intendeva consegnare tutto il potere ai conservatori senza compromessi con le altre forze politiche. Nel 1945, infatti, la Gran Bretagna aveva firmato un accordo, detto Varkiza, con le forze partigiane greche Elas (Corpo nazionale di liberazione greco) secondo il quale in cambio dell’amnistia per l’Elas una coalizione politica formata dal Partito comunista greco e i partigiani venissero riconosciuti legalmente. La destra non rispettò i patti poiché i conservatori, in accordo con la polizia, misero in atto una politica repressiva che andava dalle persecuzioni all’imprigionamento degli elementi della sinistra. Nelle elezioni del 1946 la destra ebbe un successo assoluto, la repressione venne inasprita ulteriormente, e con un voto plebiscitario si sancì il ritorno della monarchia di Giorgio II. Nonostante le repressioni, e l’appoggio che a questa politica garantivano Gran Bretagna e Stati Uniti, il movimento partigiano era cresciuto notevolmente giungendo a toccare i venticinquemila membri nel 1947, proprio nell’anno in cui il Partito comunista venne messo fuori legge. Il capo della resistenza armata Markos Vafiadis propose una trattativa al governo perché si accogliesse la richiesta di riforme; il rifiuto della destra fece nascere un governo provvisorio capeggiato dallo stesso Vafiadis. La guerriglia andò avanti fino al 1948 inoltrato, senza ricevere alcun aiuto dall’Unione Sovietica che, nel 1948, intervenne isolando Vafiadis e accelerando la crisi della resistenza. La parte conservatrice, sempre sostenuta dagli USA, riuscì a schiacciare il movimento di Resistenza definitivamente nel 1949.
La guerra civile spagnola si era conclusa nel 1939 con la vittoria del “Caudillo” Francisco Franco il cui regime fu subito riconosciuto dalla Gran Bretagna, dalla Francia, e ovviamente, dall’Italia e dalla Germania che già l’avevano sostenuto durante la guerra civile. Lo sviluppo del franchismo seguì un corso differente da quello del fascismo italiano e del nazismo tedesco; esso pose le sue basi nell’esercito da cui lo stesso Franco proveniva, assorbì le forze conservatrici e della Falange (il nucleo storico del fascismo spagnolo) e si basò sull’appoggio della chiesa in maniera sostanziale fondando proprio sui valori cattolici la costruzione del regime. Dopo essere diventato il capo politico e militare Franco volle assumere il controllo delle varie forze politiche nazionaliste e reazionarie. Non ebbe problemi nell’assorbire l’Azione popolare di matrice cattolica e il Partito monarchico che sosteneva re Alfonso, diverso fu, invece, il discorso per quello che riguardava l’altro partito monarchico, quello “carlista”, che intendeva sostenere l’immediato ritorno della monarchia; anche la Falange, in un primo tempo, diede difficoltà a Franco poiché era una forza avversa al comunismo ma non si faceva portatrice di un programma semplicemente conservatore poiché si ispirava al “corporativismo sociale”. Nonostante le difficoltà, Franco riuscì a costruire il partito unico e avviare la costruzione del regime franchista.
Alla fine della guerra, l’Italia si trovava in condizioni economiche disastrose; i danni bellici, le capacità produttive ridotte, la mancanza di materie prime, l’invecchiamento degli strumenti tecnologici, la riduzione della produttività agricola e la diminuzione del patrimonio zootecnico, erano tutti elementi che componevano il quadro di difficoltà in cui versava la penisola. Per far fronte alla grave disoccupazione e avviare una nuova fase produttiva vennero ritenuti essenziali gli aiuti Alleati. Lo scenario politico che caratterizzava l’Italia al temine della guerra vedeva il Partito socialista sperare nel rinnovamento intravisto durante gli anni della lotta partigiana, ma già nel 1945 i Comitati di liberazione nazionale furono costretti a cedere il potere al governo legale di Roma che, appoggiandosi agli Alleati, proclamò la necessità di garantire la continuità dello stato, rigettando ogni ipotesi di rinnovamento popolare sostenuta dal movimento resistenziale. Anche il Partito comunista avallò questa linea di normalizzazione orientandosi alla strategia legalitaria e all’accettazione delle regole della politica parlamentare. Dopo la Liberazione venne nominato capo del governo Ferruccio Parri del Partito d’Azione e nel settembre del 1945 venne convocata la Consulta nazionale composta da 400 membri designati dai partiti. Il governo di Parri cadde pochi mesi dopo e venne sostituito da De Gasperi, democristiano, che attuò una svolta in senso moderato. Nel 1946 si tennero, a suffragio universale, le prime elezioni amministrative dopo il fascismo e anche il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea costituente. Con il voto referendario l’Italia divenne una Repubblica.
Dopo la stesura della carta costituzionale italiana (1947), si tennero, il 18 aprile 1948, le elezioni politiche in occasione delle quali Psi e Pci si erano uniti in un fronte democratico popolare con liste uniche sperando di superare la Democrazia cristiana. Sull’altro fonte stavano appunto, i democristiani alleati con i repubblicani e i socialdemocratici e all’estrema destra i monarchici e il Movimento sociale italiano. La campagna elettorale si dispiegò sui temi delle ideologie contrapposte e mentre blocco anticomunista propagandò violentemente il “pericolo rosso” i comunisti svelavano la politica di De Gasperi di asservimento agli Stati Uniti. Sebbene appoggiato dagli operai, dai braccianti e dai disoccupati il Fronte democratico popolare non riuscì a contrastare la concreta potenza degli aiuti Alleati su cui faceva leva la Dc che, infatti, vinse le elezioni con netta maggioranza.
Di fronte a tale risultato elettorale De Gasperi avrebbe potuto formare un governo monocolore ma strategicamente preferì agevolare l’ingresso dei partiti minori (Pli, Pri, Psli) al governo per non dovere sostenere da solo il peso di una situazione che era ancora piuttosto critica.
Dal punto di vista economico la ripresa fu piuttosto lenta, l’inflazione crebbe durante il 1946, e si procedette, con Luigi Einaudi al ministero del bilancio, alla svalutazione della lira per rilanciare le esportazioni e ridurre le importazioni. L’atteggiamento delle sinistre fu caratterizzato da uno spirito di collaborazione anche frenando i momenti più acuti di lotta proletaria anticapitalista dei contadini del sud e degli operai del nord.
Se in Cina si affermò la repubblica popolare cinese di Mao, e l’India ottenne l’indipendenza, diversa fu la storia dell’Indocina, dell’Indonesia e delle Filippine. All’indipendenza della prima si opposero i Francesi che proposero invece la costruzione di una Federazione indocinese con poteri autonomi dal punto di vista amministrativo, ma integrata nell’Unione francese. La Francia si oppose anche all’indipendenza che Ho Chi-Minh proclamò nel 1945 in Vietnam occupandolo militarmente e costringendolo a un accordo nel 1946: la repubblica del Vietnam era indipendente ma pur sempre all’interno dell’Unione francese. Ma gli scontri si ripeterono nuovamente nel 1946 e questa volta gli Stati Uniti, che fino ad allora avevano avallato l’ipotesi di indipendenza, si schierarono a fianco della Francia per ostacolare il comunista Ho Chi-Minh e nel 1949 venne creato un governo fantoccio nel sud dell’isola da contrapporre a quello di Ho Chi-Minh.
Durante la seconda guerra mondiale, la Cina nazionalista di Chiang, con il sostegno finanziario degli USA, aveva combattuto contro il Giappone insieme ai comunisti di Mao; nonostante l’alleanza in senso antigiapponese avesse retto, i rapporti tra i due non erano per niente buoni. Alla fine della guerra nel 1945 i comunisti, che grazie alla strategia della guerriglia avevano avuto perdite minori rispetto all’esercito regolare di Chiang, controllavano un territorio su cui abitavano 160 milioni di persone e avevano un esercito di notevoli dimensioni. Mao propose una trattativa e la formazione di un governo di coalizione a Chiang il quale, per altro appoggiato dall’Unione Sovietica (che riteneva per sé più favorevole quel governo piuttosto che quello comunista di Mao) e dagli USA, rifiutò. Nel 1946, mentre ancora si trascinavano delle trattative con Mao, Chiang lanciò una campagna di annientamento contro i comunisti ed ebbe inizio la guerra civile che si concluse nel 1949 con la vittoria comunista nonostante l’indubitabile superiorità militare dei nazionalisti di Chiang.
Il regime che Mao proclamò nell’ottobre del 1949 venne definito come una “dittatura democratica popolare” che doveva riunire in un fronte unito la classe operaia, i contadini, la piccola borghesia e la borghesia nazionale. Le grandi e medie industrie furono nazionalizzate, le terre delle grandi proprietà furono confiscate e date ai lavoratori riuniti in cooperativa, il commercio con l’estero divenne monopolio dello stato. L’Unione Sovietica fu il primo paese a riconoscere la Cina, stabilendo trattati di reciproca assistenza e di amicizia per i successivi trent’anni.
Nel 1942 gli inglesi avevano promesso all’India lo statuto di dominion che gli indiani rifiutarono ambendo alla totale indipendenza. Nel 1947 l’Inghilterra firmò l’India Act col quale dichiarava che avrebbe lasciato il paese entro il giugno 1948. L’assetto dell’India indipendente prevedeva la divisione del territorio in due stati, comprendenti l’uno l’India propriamente detta e il Pakistan e l’altro formato da due stati distanti tra loro: parte del Pakistan e il Bengala. Gli inglesi si ritirarono dall’India nel 1947 ma nonostante l’indipendenza l’India rimase nel Commonwealth britannico. Nel 1948 Gandhi, padre del nazionalismo indiano, era stato assassinato da un nazionalità indù che non accettava l’ipotesi di conciliazione tra indiani e indù. Divenne capo del governo Jawaharlal Nehru il quale si fece promotore di una politica estera di “neutralità dinamica”. Intanto l’India, giunta all’indipendenza, non aveva modificato le strutture economiche e sociali che aveva ricevuto in eredità dal colonialismo britannico lasciando invariate le condizioni di povertà e di arretratezza nelle quali si trovava.
Nel 1945 la questione palestinese aveva caratteri di estrema gravità e le sorti delle popolazioni arabe e dei coloni ebrei toccavano l’opinione pubblica mondiale, gli inglesi, in quanto detentori di un mandato sulla Palestina, avevano annunciato nel 1939 la creazione nell’arco di dieci anni di uno stato indipendente che si sarebbe fondato sulla coesistenza dei due elementi etnici. Al termine della guerra i palestinesi presenti sul territorio erano circa 1.240.000 e circa la metà gli ebrei; per evitare che la popolazione ebraica si accrescesse troppo furono posti dei limiti all’immigrazione e all’acquisto delle terre dagli arabi, mentre gli USA, in cui l’influenza ebraica era rilevante, richiedevano la libera possibilità di immigrazione. Ma i rapporti tra le due etnie erano difficoltosi e gli inglesi riuscivano difficilmente a regolarli tanto che decisero di ritirarsi da quel territorio e che avrebbero assegnato all’ONU il compito di stabilire il futuro della Palestina. L’ONU si espresse nel 1947 sancendo la divisione della Palestina in due parti, sebbene non tutti gli stati aderenti fossero stati favorevoli; già il 14 maggio 1948, quando le truppe inglesi si furono ritirate, si proclamò la nascita dello Stato d’Israele. L’indomani cominciò il primo conflitto tra israeliani e palestinesi (questi ultimi temevano che la presenza ebraica avrebbe comportato la loro emarginazione religiosa, economica, politica e sociale); le forze arabe furono sconfitte. Nel maggio del 1949 Israele fu ammessa all’ONU e da allora ebbe inizio la tragedia del popolo palestinese.
Durante la seconda guerra mondiale erano cessate le esportazioni di prodotti europei nell’America del sud mentre si erano incrementate notevolmente le richieste di beni dell’economia latinoamericana sul mercato mondiale cosa che determinò un’ingente circolazione di capitali e lo sviluppo di nuovi investimenti. Durante la prima metà degli anni Quaranta con l’ausilio dello stato vennero impiantate nuove industrie, in particolar modo in Messico e in Argentina, ma con la fine della guerra si rovesciò nuovamente il flusso delle importazioni e delle esportazioni in senso sfavorevole all’America latina. Gli USA, che già avevano ottenuto esclusivi contratti di sfruttamento delle risorse naturali impiantando colossi multinazionali, seppero, ancor di più, giovarsi di questa situazione. I grandi investimenti americani proseguirono, ma non portarono alcun beneficio alle economie nazionali e, anzi, incrementarono ancora di più l’influenza, anche politica, degli Stati Uniti in sud America. Ciò che aveva caratterizzato i rapporti tra America del nord e del sud fin dagli anni Trenta e che venne ribadito nella conferenza di Chapultepec in Messico era il cosiddetto “panamericanismo”, nato come un patto di sicurezza collettiva che doveva impedire le aggressioni nelle Americhe ma che, di fatto, permetteva agli Stati Uniti di estendere la propria influenza sui territori del sud.
La seconda guerra mondiale toccò in maniera rilevante anche la popolazione civile poiché sia i bombardamenti e lo spostamento dei fronti attraverso gli stati sia i campi di internamento, e la lotta di Resistenza la coinvolsero direttamente. I bombardamenti, ad esempio, furono compiuti dai tedeschi prima, e dagli anglo-americani poi, con l’uccisione di innumerevoli individui. I campi di sterminio nazisti fecero prigionieri ebrei, zingari e uomini di altre nazionalità giungendo al più tragico esempio di inutile crudeltà. Proprio la guerra contro le popolazioni, che colpiva città, centri industriali, rotte di navigazione e reti di trasporto, aveva l’obiettivo di infrangere la resistenza morale e psicologica dei civili, ridurre la loro capacità lavorativa e dunque indebolire dall’interno il fronte nemico.
L’ampiezza della distruzione messa in atto contro la popolazione civile è rivelata chiaramente dalle cifre sul numero di vittime che equivalgono alle vittime sul fronte: in totale con la seconda guerra mondiale persero la vita oltre 50 milioni di persone e più della metà erano europei. La popolazione civile cercava riparo dai bombardamenti sfollando nei rifugi antiaerei e nelle campagne nella speranza che i piccoli centri non fossero bersaglio delle bombe che piovevano dal cielo. Durante il corso della guerra, le risorse economiche e produttive furono tutte concentrate nello sforzo bellico dando vita a una mobilitazione industriale senza precedenti, e a una conseguente massiccia propaganda volta a trovare valide motivazioni per il sacrificio immane che stavano compiendo i civili. Ma al termine del conflitto le risorse materiali e industriali dei paesi interessati erano state annientate e solo gli Stati Uniti uscirono dalla seconda guerra mondiale più ricchi e più floridi di quanto non fossero pochi anni prima.
La seconda guerra mondiale colpì in maniera significativa le città e le popolazioni con bombardamenti di ingenti dimensioni. Tale fu la sorte di Conventry durante la battaglia d’Inghilterra: Hitler aveva programmato l’invasione dell’Inghilterra con l’operazione denominata “leone marino” ma proprio la difficoltà nel mettere in atto l’attacco, fece intensificare i bombardamenti terroristici ai danni di città come Londra, Coventry, e Birmingham: mentre la prima subì gravi danni, le ultime due furono completamente rase al suolo. Stessa sorte ebbe anche Dresda che fu bombardata dagli anglo-statunitensi, nella notte tra il 13 e il 14 febbraio del 1945. La città fu completamente distrutta e 25.000 persone morirono solo quella notte. Sostenitore del bombardamento era stato Churchill, che intendeva così contrastare l’egemonia sovietica, lasciando quante più macerie nell’area che sarebbe diventata di lì a poco la Germania dell’est.
La mobilitazione dell’apparato economico e industriale nella produzione bellica raggiunse livelli ancora superiori a quelli che avevano già caratterizzato la prima guerra mondiale. La massima produttività delle industrie che producevano armi e sperimentavano nuovi strumenti di morte (il radar, la bomba atomica) fu reputata un indispensabile strumento di vittoria.
All’inizio del conflitto la Germania attuò una strategia di allargamento delle proprie potenzialità produttive attraverso l’imposizione di vincoli economici sui paesi da lei sconfitti dai quali traeva risorse alimentari e belliche. Ma non solo, milioni di persone vittime di retate e rastrellamenti erano stati costretti a lavorare in Germania; vivevano in condizioni di servitù ed ebbero un trattamento differente in base alla popolazione cui appartenevano. Ebrei, russi e polacchi furono considerati carne da macello e sfruttati fino alla morte. Il controllo che la Germania attuò sui territori conquistati, dietro la parola d’ordine di nuovo ordine europeo, imponendo la subordinazione agli interessi del Reich, si interruppe nel 1942-43 quando, con il mutare delle sorti del conflitto, il suo sistema entrò in crisi e la sua stessa produzione interna venne ripetutamente colpita e danneggiata dai bombardamenti alleati.
Sebbene svantaggiati all’inizio, gli Alleati avevano migliorato la loro capacità produttiva nel corso del conflitto: l’Unione Sovietica durante il 1943 era riuscita a mettere in funzione numerosissime industrie, collocate nelle regioni orientali, che riuscirono a produrre la quasi totalità degli armamenti per i propri eserciti; anche gli USA avevano sviluppato, dal 1940, un’industria bellica di consistenti dimensioni che fin da allora invitò aiuti militari alla Gran Bretagna che dal canto suo produceva soprattutto aerei.
La propaganda, che già durante la prima guerra mondiale aveva avuto la funzione di diffondere, nei paesi impegnati nel conflitto, informazioni e notizie volte alla creazione di un compatto senso di patria tra la popolazione, fu ancora più massicciamente utilizzata durante il secondo conflitto mondiale. Proprio la maggiore disponibilità di mezzi di comunicazione di massa, quali le radio ma anche il cinema, che si erano affermati nel corso degli anni Trenta, permise una più capillare diffusione delle informazioni a carattere propagandistico.
La propaganda mirava soprattutto alla negazione dell’avversario e alla ricerca di adesioni ai propri obiettivi, intendeva catalizzare le attenzioni della popolazione civile verso una vittoria che si faceva sempre più impossibile e a indirizzare verso nemici, reali o costruiti a tavolino, le insoddisfazioni dell’opinione pubblica, ormai stremata e incredula nelle possibilità di vittoria e stanca di un conflitto sempre più insensato, che avrebbe altrimenti potuto creare un fronte di opinione pubblica contro la guerra.
Il tutto fu compiuto all’interno di una netta contrapposizione ideologica tra fascismo e antifascismo e tra fascismo e democrazia, che produsse anche una maturazione politica delle grandi masse coinvolte nella guerra e portò alla nascita dei movimenti di resistenza.
Le risorse delle aree coloniali furono di grande importanza per i paesi impegnati nella guerra contro il Patto tripartito: l’Inghilterra in particolare poté contare sulle risorse alimentali e militari, ma anche nelle truppe, di paesi quali il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda. Fece eccezione l’India dove, per volere di Gandhi venne attuata una politica non collaborazionista nei confronti dell’Inghilterra: in India, infatti, il Congresso, nel 1935, aveva compiuto importanti progressi verso l’indipendenza e l’India si limitò a fornire beni alimentari e industriali che furono indispensabili all’Inghilterra.
La Francia poté contare sull’appoggio delle autorità coloniali in Africa che supportarono l’appello del generale de Gaulle contro l’invasione nazista e il collaborazionismo di Vichy.
Gli ebrei, che già dal 1935 erano stati colpiti dalle leggi razziali alle quali avevano riposto in maggioranza con l’emigrazione, furono vittime, con l’inizio della guerra, di uno sterminio sistematico. Il nazismo non si accontentava più di avere privato il popolo ebraico dei diritti civili, di avere distrutto le loro proprietà, ma intendeva ora procedere allo sterminio fisico di quello che era stato individuato come il “nemico per eccellenza”.
Nel 1941 al momento dell’aggressione all’Unione Sovietica, il piano di liquidazione degli ebrei era stato già elaborato in nome della necessità di conquistare uno “spazio vitale” per la popolazione “ariana”: l’avanzata verso est vide cadere in esecuzioni sommarie compiute dai tedeschi centinaia di ebrei. I primi campi di sterminio furono allestiti nel corso del 1942 e venne stesa una vera e propria “mappa” degli ebrei presenti sul territorio europeo che dovevano essere vittime di questa politica assassina: si trattava di 11 milioni di persone. Con la Shoah furono uccisi 6 milioni di uomini, donne e bambini senza altra ragione che la volontà di affermare il predominio della “razza ariana”. Novecento furono i campi, che erano suddivisi in campi di lavoro e di sterminio, dove gli ebrei venivano marchiati a fuoco, ridotti a un numero, sfruttati come forza lavoro in condizioni disumane e infine uccisi nelle camere a gas. Essi furono vittime anche di crudeli esperimenti “medico-scientifici” il cui fine era solo l’esercizio della crudeltà ai danni di una popolazione che era stata individuata come “nemica”.
Sebbene non nei dettagli precisi, l’entità della tragedia era già nota nel 1942 sia tra i governi Alleati, sia al Vaticano ma nessuno parlò: il fine, infatti, era concludere vittoriosamente la guerra e non salvare il popolo ebraico dal genocidio.
Al fine di portare a compimento la “soluzione finale” i nazisti vietarono l’emigrazione degli ebrei e li deportarono sistematicamente nei ghetti che erano stati creati all’est: qui essi si trovarono a vivere ammassati, senza nessuna possibilità di azione o di movimento e con razioni alimentari minime. Il trasferimento nei campi di sterminio fu il passo successivo: nel 1942 in Polonia i ghetti furono quasi completamente svuotati e la stessa sorte toccò nei mesi seguenti anche alla Croazia, alla Serbia alla Bulgaria e alla Grecia. Stesso destino fu anche quello degli ebrei nei paesi occidentali (Francia, Olanda, Belgio, Norvegia, Italia).
Il momento culminante della tragica deportazione fu tra la primavera e l’estate del 1942 quando da ogni parte d’Europa partivano convogli ammassati di persone, senza cibo e aria diretti ai campi di concentramento: all’arrivo coloro che erano giudicati abili al lavoro venivano costretti alla schiavitù e gli altri uccisi immediatamente.
Ma il sistema concentrazionario aveva colpito già fin dal 1933 gli oppositori politici del regime nazista, dal 1938 furono imprigionati anche coloro che, definiti a-sociali, avevano comportamenti non tollerati dal regime (gli omosessuali, gli zingari per esempio). Dopo la “notte dei cristalli” cominciarono ad essere deportati anche gli ebrei. Con la guerra i lager vennero creati anche nei territori occupati e la loro funzione subì una svolta: le SS furono incaricate della loro gestione. Da allora nei campi di lavoro si sfruttarono i prigionieri fino alla morte e nei campi di sterminio si uccideva sistematicamente.
La memoria della seconda guerra mondiale intende riferirsi sia ai vincitori ma soprattutto alle distruzioni che il conflitto comportò. I campi di concentramento, i luoghi dello sterminio, sono assurti a testimonianza delle crudeltà compiute contro gli ebrei e contro gli oppositori al nazismo e al fascismo: nel campo di concentramento di Dachau sono stati mantenuti resti del cancello, del recinto di filo spinato, del binario che portava i convogli dei condannati a memoria della tragedia che in quei luoghi si era compiuta.
In Normandia e in Italia le distese di croci bianche ricordano i soldati Alleati caduti nella guerra, il monolite delle Fosse Ardeatine ricorda le centinaia di morti lì sepolti.
Mentre la guerra era ancora in corso, l’industria cinematografica americana vide molti registi di sinistra impegnati a sostenere la necessità della lotta contro i fascismi e di informare la popolazione d’oltreoceano di quanto stava accadendo in Europa: Frank Capra, John Ford e John Huston produssero documentari e anche filmati di testimonianza: Perché combattiamo di Capra (1944); La battaglia delle Midway di Ford del 1942, La battaglia di San Pietro di Huston del 1944.
Costruzione della memoria furono, invece, i film girati subito dopo la guerra in Italia, del filone neorealista di Rossellini e De Sica di cui ricordiamo Roma città aperta e Paisà, per non far dimenticare le distruzioni della guerra e dell’occupazione nazista.
Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti rappresentavano la maggiore potenza economica, avendo raddoppiato la propria produzione industriale tra il 1941 e il 1945, mentre gli altri paesi, sia vinti sia vincitori, avevano subito distruzioni materiali e affrontato costi bellici ingenti e si trovavano in netto svantaggio. Per assicurarsi un mercato per i propri prodotti e per evitare la diffusione del comunismo in occidente, gli USA pianificarono forme di intervento che avrebbero garantito disponibilità di denaro nei paesi europei e dunque maggiore capacità d’acquisto e un ostacolo al diffondersi del “pericolo rosso”.
Nel 1943 furono varati programmi di assistenza che diedero prestiti e aiuti a livello internazionale; anche l’URSS ne beneficiò inizialmente, ma ben presto i rapporti tra le due potenze si deteriorarono dando vita ai due schieramenti in cui si divise il continente durante la cosiddetta guerra fredda.
Nel 1948, infatti, gli USA lanciarono un nuovo piano di intervento economico, il piano Marshall che vincolava l’Europa a un sistema economico liberista L’Unione Sovietica rinunciò agli aiuti e così furono costretti a fare tutti i paesi che rientravano nella sua sfera di influenza: l’economia sovietica si concentrò così sull’industria pesante attraverso l’intensificazione del lavoro e la contrazione del tenore di vita della popolazione, mentre in occidente i consumi e l’industria leggera cominciavano la loro fase di espansione. Stati Uniti e URSS erano entrambi dotati di enormi arsenali nucleari e proprio quel potenziale distruttivo impedì che i contrasti tra oriente comunista e occidente capitalista sfociassero in un conflitto.
Nonostante ciò, la sfida nel possesso delle armi nucleari si mantenne costante nel tempo: nel 1949 l’Unione Sovietica fece esplodere sperimentalmente la sua prima bomba atomica, mettendo fine al monopolio statunitense sulle armi nucleari. La risposta americana fu la progettazione della bomba H, provata nel 1952 sempre a livello sperimentale, e seguita ancora una volta dall’Unione Sovietica, che ne fece deflagrare una simile nel 1953.
Nel corso della guerra gli Stati Uniti si affermarono come la più grande potenza economica mondiale: il capitalismo americano penetrò in Africa nel 1943-44, prendendo il posto dei francesi e degli inglesi, con multinazionali che ne sfruttavano le materie prime. La General Foods si attestò in Costa d’oro con la produzione di cacao; la Firestone in Nigeria per il caucciù e la U.S. steel ottenne la possibilità di sfruttare il cromo in Rodesia. Anche in America latina accadde la stessa cosa con l’insediarsi delle multinazionali americane sulle piantagioni di frutta tropicale in quasi tutto il continente. Il controllo del fondamentale settore petrolifero era sotto le mani degli USA che ottennero la concessione dei giacimenti delle regioni arabe. Come ben si vede l’area di influenza economica statunitense si estendeva per tutti i continenti già prima della fine della seconda guerra mondiale.
Inoltre con la conferenza di Bretton Woods nel 1944 fu sancita la nuova egemonia economica degli USA poiché venne istituito il Fondo monetario internazionale che pose le basi per l’ordinamento finanziario del mondo occidentale nel secondo dopoguerra.
Gli Stati Uniti beneficiarono, durante il conflitto, del privilegio di non avere avuto combattimenti sul proprio territorio, di non avere avuto danni materiali e avere anzi incrementato la produzione industriale adottando le tecnologie più progredite. La crisi degli anni Trenta venne definitivamente superata in quel frangente, la disoccupazione fu riassorbita poiché le necessità militari avevano aumentato le disponibilità di lavoro. La produzione complessiva industriale si raddoppiò rispetto agli anni prebellici e la forza lavoro, con l’apporto di giovani e donne, era nel 1945 superiore di 9 milioni di unità. Il monopolio economico che le multinazionali si erano assicurate, la flotta mercantile tre volte più grande di quella inglese, l’aviazione civile molto superiore rispetto a quella degli altri paesi e armi tecnicamente avanzate (fino al 1949 ebbero il monopolio della bomba atomica) ne fecero la potenza economicamente e militarmente più potente.
Nel luglio del 1944 si tenne la conferenza monetaria di Bretton Woods con la quale vennero stipulati gli accordi in merito agli scambi internazionali e ai trasferimenti valutari. La conferenza, alla quale presero parte 44 paesi alleati, mise in luce piuttosto chiaramente che il mondo capitalistico si stava riorganizzando sotto l’influenza diretta degli Stati Uniti. La delegazione britannica era guidata dall’economista Keynes che portava una proposta nella riorganizzazione dell’ordine economico e monetario internazionale. Da parte americana, venne la proposta, elaborata da Harry Dexter White, di concretizzare l’assetto keynesiano attraverso la fondazione di due istituti: il fondo di stabilizzazione delle Nazioni Unite e la Banca per la ricostruzione e lo sviluppo. Le decisioni finali non rispecchiarono del tutto le idee keynesiane ma ne accoglievano l’impianto di base. Alla base degli accordi stava la cooperazione monetaria ed economica tra i vari stati (Keynes aveva infatti proposto la formazione di un’unione valutaria internazionale che stimolasse il commercio e lo sviluppo economico mondiale) e anche - riprendendo le suggestioni di Dexter White - la creazione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.
Il clima della guerra fredda ebbe notevoli ripercussioni sulla politica interna degli USA: lo scoppio della bomba atomica sovietica minò le certezze americane e diffuse il timore di un pericolo comunista nell’opinione pubblica statunitense. Nel 1949 furono sottoposti a processo i capi del piccolo Partito comunista americano e nel 1950 venne votato l’Internal security act che legalizzò le persecuzioni verso i sospetti di comunismo o filo-comunismo. A capo di questa “caccia alle streghe” era il senatore Joseph McCarthy appoggiato da Richard Nixon. L’opposizione repubblicana a Truman, considerato troppo debole nei riguardi dell’URSS, portò all’elezione di Eisenhower che fu espressione diretta degli esponenti del capitalismo. Sotto la sua presidenza il fenomeno del maccartismo conobbe il suo culmine e il suo declino. McCarthy diffuse sospetti sull’esercito, affermando che vi erano infiltrati comunisti anche nella difesa, e su Robert Oppenheimer che aveva contribuito alla progettazione della bomba atomica. Ma proprio l’accusa alle forze armate determinò la sconfitta del maccartismo poiché di fronte alle loro reazioni egli non riuscì a provare la sua accusa e fu biasimato ufficialmente dal Senato e costretto a ritirarsi nell’ombra.
Nel 1946 in Unione Sovietica fu avviata una campagna mirata a ripristinare il controllo sulla vita intellettuale e culturale del paese che si era un po’ allentato negli anni del conflitto. Incaricato di condurre a termine queste campagne fu Zdanov il quale attaccò ogni creazione culturale e artistica che a parer suo risultava essere ostile all’ideologia sovietica: si condannò quello che poteva essere tacciato di “decadentismo occidentale”, quello che veniva individuato come “particolarismo antirusso” o “individualismo piccolo borghese”. La campagna continuò anche dopo la morte di Zdanov, fino al 1953. Le ragioni di quest’attacco erano connesse con la volontà di glorificare la nazione e di perfezionare il culto di Stalin, ma il momento prescelto, il 1946, corrispondeva alla crisi economica che era scoppiata quell’anno a causa di una carestia e che suggeriva alle autorità sovietiche di mettere a tacere gli intellettuali russi per evitare le critiche che essi avrebbero mosso alla strategia economica sovietica. A questo fine in quell’anno venne fondata una nuova rivista “Partiinaja Zizn’” volta a controllare la vita scientifica e artistica sovietica.
Il mondo diviso in due blocchi, che costituì il tratto più rilevante del secondo dopoguerra, vedeva gli Stati Uniti e i paesi occidentali da una parte e l’URSS e le regioni orientali dall’altra. L’Unione Sovietica aveva occupato militarmente le nazioni dell’est Europa e le regioni balcaniche man mano che le truppe tedesche fuggivano; trasformandole poi, dopo la guerra, in stati formalmente indipendenti ma nei fatti a lei legate da stretti vincoli. La formazione delle repubbliche popolari si era compiuta attraverso l’occupazione dei posti chiave nei ministeri dell’Interno e della Giustizia da parte dei comunisti locali, realizzata grazie all’appoggio della polizia politica sovietica. L’eliminazione degli oppositori e la trasformazione delle elezioni in plebisciti si compì con l’appoggio dell’URSS.
Negli anni tra il 1945 e il 1948, la Cecoslovacchia, la Polonia, l’Ungheria, la Jugoslavia, la Romania, la Bulgaria e l’Albania vennero riorganizzate in “democrazie popolari”: si affermava, cioè, un’economia collettivistica estranea al mercato capitalistico mondiale e, nella maggior parte dei casi, satelliti dell’Unione Sovietica. La loro funzione era costituire una “cintura di sicurezza esterna all’URSS” che potesse preservare il suo territorio da ogni eventuale attacco. Faceva parte di questa cintura anche la Germania orientale (la Repubblica democratica dell’est) che era nata nel 1949 dalla divisione del territorio tedesco in due parti (a ovest la Repubblica federale).
Come al termine della prima guerra mondiale la Società delle Nazioni era stata costituita al fine di garantire, fallendo, il mantenimento della pace e la composizione in via diplomatica dei contrasti, così, alla fine della seconda guerra mondiale, fu costituita l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Promotore dell’ONU era stato il governo USA, che lo considerava uno strumento utile per superare l’isolazionismo in cui gli Stati Uniti si erano chiusi negli ultimi anni. Lo statuto fu approvato nel 1945 e vi aderirono immediatamente 50 paesi. L’obiettivo era garantire il rispetto della dignità e dell’uguaglianza degli individui e delle nazioni, il progresso sociale ed economico, la pace e la sicurezza. L’ONU, che nacque per porre fine alle prevaricazioni delle nazioni più potenti su quelle più piccole e deboli, in realtà fu dominata fin dall’inizio dalle maggiori potenze mondiali USA e URSS, e dalla contraddizione di fondo dei suoi presupposti generali. Se l’obiettivo era tutelare la democrazia rimaneva ambiguità sul modello “democratico” che si intendeva promuovere e in particolar modo sulle diverse concezioni di democrazia di Unione Sovietica e Stati Uniti.
La Carta delle Nazioni Unite (ONU), elaborata nel 1945, sancì la protezione dei diritti fondamentali della persona non più riconnettendola alla tutela delle minoranze, ma piuttosto estendendola a tutto il genere umano. Nel 1948 venne stesa la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che fondeva i tratti comuni a ideologie diverse, sebbene in un’ottica sostanzialmente occidentale, riuscendo a trovare elementi minimi comuni su cui si trovasse l’accordo generale.
Il primo momento significativo della democrazia italiana nel secondo dopoguerra fu il referendum del 2 giugno 1946 quando gli italiani e le italiane furono chiamati ad esprimere la propria preferenza per la repubblica o per la monarchia e ad eleggere l’Assemblea costituente incaricata di redigere la Costituzione. Il referendum vide prevalere la Repubblica, con il 54,3% dei voti concentrati per lo più nel centro e nord Italia che avevano vissuto l’esperienza delle Resistenza. Nel 1948 entrò in vigore la nuova Carta costituzionale italiana che sanciva l’esistenza di una Repubblica parlamentare in cui i partiti avessero un ruolo attivo e che indicava come principi cui attenersi insieme al pluralismo anche la giustizia sociale, la tutela della persona, dell’ambiente e del lavoro. L’attuazione della Costituzione avrebbe dovuto rinnovare in maniera profonda lo stato e la società italiana ma non venne attuata a causa della guerra fredda e dell’area di influenza occidentale in cui si collocò l’Italia: i timori americani per lo sviluppo del comunismo nella penisola bloccarono le istanze di rinnovamento e di epurazione che pure erano previste dalla Costituzione.
Si aprì così il periodo della ricostruzione, sia materiale sia morale, dell’Italia: fu l’epoca della riflessione collettiva apertasi con i capolavori del cinema neorealista e con la produzione letteraria che indagava il recente passato di fascismo, guerra e Resistenza. Ma fu anche l’epoca della ripresa dei movimenti sindacali con le lotte mezzadrili in Toscana, gli scioperi operai nell’industria e le lotte bracciantili nella Pianura Padana e in Puglia. Al sud le occupazioni delle terre dei latifondi erano state agevolate, già nel 1944, dai decreti Gullo che prevedevano l’assegnazione a cooperative di contadini dei terreni lasciati incolti dai proprietari; e si superarono le tradizionali forme di mobilitazione episodica sostituite dal radicarsi di organizzazioni sindacali moderne anche nelle campagne meridionali.
Le donne australiane, finlandesi, norvegesi, danesi, islandesi e svedesi avevano ottenuto il diritto di voto tra il 1903 e il 1921. In Gran Bretagna il diritto di voto fu concesso tra il 1918 e il 1926 e negli Stati Uniti nel 1920. In Italia, Francia e Belgio le donne ottennero il diritto di voto solo nel secondo dopoguerra. In Italia in particolare, dopo l’ammissione delle donne al voto amministrativo sancita da un decreto nel 1925, durante il fascismo, e subito resa inutilizzabile dall’eliminazione delle elezioni amministrative, le donne si trovavano per la prima volta a esercitare il diritto di voto in occasione del referendum e dell’elezione dell’Assemblea costituente nel 1946. L’ammissione delle donne al voto era stata considerata inevitabile nella costruzione del nuovo assetto democratico, pur non di meno le donne italiane si riunirono nel 1944 nel Comitato pro-voto con il quale esercitarono pressioni affinché venisse affermato il suffragio universale maschile e femminile. Il 27 ottobre 1944 il Comitato inviò un promemoria al Cln centrale rivendicando il diritto a partecipare alle elezioni. Il comitato restò attivo da allora al 10 febbraio 1945 quando fu emanato il decreto che ammetteva le donne al voto.
Gli anni Quaranta portarono innovazioni tecniche nella confezione dei film: il sonoro, già affermatosi negli anni trenta, il Technicolor, macchine da presa più agili, che permettevano maggiore ampiezza di movimenti, e, poco a poco, l’introduzione di effetti speciali.
I generi cinematografici si moltiplicarono anche grazie alle contaminazioni di stili che derivavano dall’emigrazione di registi europei negli USA durante gli anni della seconda guerra mondiale.
Victor Fleming proiettò Via Col Vento, e Il Mago di Oz nel 1939 e, l’anno dopo, John Ford diresse il film “sociale” Furore.
Erano emigrati in America Fritz Lang, Otto Preminger, Billy Wilder, Lubitsch e Hitchcock e ciascuno si concentrò su un singolo genere o si dilettò nell’incrocio di generi differenti: nacquero il noir, l’horror, il gangster movie, ma anche la commedia brillante che aveva per protagoniste coppie bizzarre e ironiche come in Accadde una notte, L’eterna illusione, Susanna, Scandalo a Filadelfia, Ventesimo Secolo diretti da Capra, Cuckor, Hawks.
Del 1941 è Il Sergente York con Gary Cooper, che vinse due Oscar e che si ispirava alla vera storia di Alvin York contadino del Tennesse, descritto nella sua partecipazione alla prima guerra mondiale, per meglio impersonare il quale Gary Cooper passò dei mesi nella fattoria di York.
L’anno successivo venne proiettato negli USA Casablanca, con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, ambientato durante la seconda guerra mondiale e che venne distribuito in Italia nel 1945. Ma gli anni Quaranta sono anche gli anni in cui nacquero e si affermarono altre stelle del cinema americano come Cary Grant, Catherine Hepburn, Gary Cooper, Bette Davis, Rita Hayworth.
Dopo la trasmissione radiofonica La guerra dei mondi negli anni Trenta, Orson Welles venne chiamato a Hollywood ed ebbe un contratto che gli consentiva di essere al contempo regista, produttore, sceneggiatore e attore dei suoi film.
Il cinema di Orson Welles si distacca dai canoni hollywoodiani, dalle certezze, dalle bionde patinate, dalle commedie rassicuranti. Egli produsse infatti film come Quarto Potere nel quale riesce, con una narrazione complessa, a instillare dubbi nello spettatore e a metterlo in gioco direttamente. Il film evidenziava l’ambiguità del sogno americano e svelava i tanti aspetti del protagonista attraverso flashback che raccontano il medesimo episodio sotto differenti aspetti. Welles utilizzava tecniche visive - il montaggio alternato o i salti temporali - dei “trucchi” che costituivano un’innovativa interpretazione dei codici di comunicazione cinematografica. Per tutto ciò i suoi film furono di frequente, contestati dalle case di produzione che talvolta arrivarono a rimontarli seguendo criteri differenti o addirittura a bloccarne la distribuzione.
Il suo secondo film L’Orgoglio degli Amberson, (1942) ebbe questa sorte: ne furono tagliati circa quaranta minuti e rimontati con un finale più positivo di quello che aveva scelto Welles, giudicato poco adatto al periodo bellico. Proprio in seguito a tutti questi aggiustamenti l’autore disconobbe l’opera.
Recitò invece nei film Il terzo uomo di Carol Reed (1949), Moby Dick, di John Houston (1956) e in La Ricotta, di Pasolini (1963).
Maya Deren cominciò a lavorare insieme al marito, Alexander Hammid, nel film che avrebbe costituito l’esempio del cinema sperimentale degli anni della seconda guerra mondiale: Meshes of the Afternoon film basato sulla struttura onirica che aveva tratto ispirazione dal cinema surrealista e espressionista di Buñuel (Un chien andalou) e di Dreyer (Vampyr).
Nell’anno successivo firmò la regia di At Land, preludio a un allontanamento professionale dal marito che si realizzerà negli anni successivi: in quest’opera emergevano, infatti, già interpretazioni psicologiche prettamente femminili che poi caratterizzeranno la sua produzione indipendente. Con i suoi film ella condurrà una riflessione sui nessi esistenti tra cinema, movimento ed espressione corporea, psicologia e comportamenti sociali.
Nel 1945 uscì il suo primo film ispirato alla danza A study in Coreography for Camera, con il quale sperimentava le possibilità di montaggio e inquadratura dando vita a soluzioni che le permettessero di usare al meglio il mezzo cinematografico al fine di creare una progressione di immagini, un continuum tra gli spazi e i movimenti filmati.
Il neorealismo fu la risposta del cinema italiano alla tragedia della guerra, espressione della volontà di soffermarsi e denunciare gli eventi politici e sociali in corso.
I registi del neorealismo vollero azzerare i codici formali ed estetici e concentrarsi su un cinema che potesse raccontare la storia più recente e che la rendesse finalmente visibile attraverso trame in cui dominava la casualità, in cui i finali erano lasciati aperti e ellissi costellavano la narrazione.
Il primo a essere proiettato fu, nel 1943 Ossessione di Visconti che, pur ispirandosi a Il postino suona sempre due volte, introduce temi sociali e adotta uno sguardo sulla realtà che costituiscono la prima prova del neorealismo cinematografico italiano. Roma città aperta di Rossellini che venne proiettato nel 1945 e cui fece seguito, l’anno dopo, Paisà, segnano, insieme ai capolavori di De Sica la nascita compiuta del neorealismo. Al momento della prima uscita, questi film riscossero uno scarsissimo successo di pubblico in Italia mentre, al contrario, vennero riconosciuti come capolavori all’estero.
Roma città aperta ebbe il merito di rispondere a trent’anni di retorica fascista, mettendo in scena la sincerità e descrivendo la realtà senza mistificazioni. Fu girato subito dopo la liberazione in condizioni precarie e con una pellicola scaduta; nel cast Anna Magnani e Aldo Fabrizi. La freddezza con cui fu accolto in patria venne compensata dall’immediato riconoscimento internazionale vincendo il Festival di Cannes nel 1946. Stessa impostazione, e identiche esiguità di mezzi nella realizzazione, ebbe anche Paisà alla cui sceneggiatura collaborarono, tra gli altri, Fellini e Pratolini. Fu accolto tiepidamente dal pubblico, per diventare in seguito uno dei classici del cinema italiano grazie alla descrizione della realtà: con toni tragici pur senza cadere nel patetico. Fanno parte della stessa corrente anche i film di De Sica, Sciuscià e Ladri di biciclette rispettivamente del 1946 e del 1948 entrambi vincitori di Oscar. Il secondo fu girato con attori non professionisti che raccontano le miserie e le difficoltà degli uomini comuni. Il cinema neorealista morì dopo il 1949 quando, con l’emanazione della legge Andreotti sul sostegno statale alle case di produzione venne introdotta, sostanzialmente, una sorta di censura preventiva che si esercitava attraverso l’erogazione, o meno, dei contributi a seconda del genere di film proposto.
Il jazz fu, in un certo senso, la colonna sonora della seconda guerra mondiale; non solo veniva infatti suonato dalle grandi orchestre nelle città americane ma venne anche incoraggiata la formazione di big band all’interno dell’esercito in modo da garantire forma di intrattenimento per i soldati.
Alcune band militari costituirono dei veri e propri luoghi di formazione per musicisti: non a caso Glenn Miller (1904-1944), celebre direttore d’orchestra, si arruolò nell’esercito, con il grado di maggiore, allontanandosi dalle scene musicali e andando a dirigere l’orchestra dell’Air force che suonava concerti per i soldati all’interno degli hangar. Poco prima, nel 1939, egli scrisse alcuni dei suoi più noti componimenti: In The Mood e Moonlight Serenade.
Nel corso della guerra, a partire dal 1942 su iniziativa del Dipartimento della Guerra americano, furono incisi anche i Victory disc (dischi della vittoria) detti anche V-disc che dovevano servire ad allietare i soldati impegnati in Europa e che contribuirono, indirettamente, proprio alla diffusione della musica jazz nel continente europeo. Le incisioni, che proseguirono fino al 1948, costituirono, almeno per gli anni 1942-1944, una sostanziale testimonianza della musica jazz poiché furono anni in cui nessun musicista incise per altri che il Dipartimento della Guerra. I jazzisti intendevano, infatti, ottenere trattamenti migliori dalle case discografiche e per questo le incisioni di grandi maestri come Armstrong, Ellington, Count Basie, Billie Holiday erano ascoltabili solo su questi pregiati pezzi da collezione.
In Europa gli anni del dopoguerra videro musicisti alla ricerca di nuove musicalità da raggiungere attraverso l’esplorazione del rumore, l’introduzione alla musica elettronica e la contaminazione con tradizioni musicali eterogenee. Olivier Messiaen compì un’esperienza significativa nel 1940 con Quator pour la fin du temps che fu composto durante la prigionia in un campo nazista. Alla fine della guerra si interessò di musica orientale, di suoni primigeni come il canto degli uccelli, di musica elettronica: usò le onde Martinot nella Turangalila-symphonie del 1946-48.
Darmstadt a partire dal 1946 divenne sede dei corsi estivi per la nuova musica internazionale promossi da Wolfgang Steinecke, preludio agli esperimenti di Pierre Schaeffer, ingegnere e tecnico del suono, che prenderanno il via dal 1950 a Parigi.
A partire dal secondo dopoguerra la musica jazz cambiò direzione: la produzione commerciale di musica, che già durante gli anni Venti aveva snaturato e privato di spontaneità le composizioni jazzistiche, venne ora superata attraverso la riconquista della creatività e dell’ispirazione istantanea del musicista. Le jam session inaugurate, nel corso degli anni Venti proprio come risposta allo snaturamento della musica jazz, produssero, con la pratica degli incontri informali d’improvvisazione tra musicisti, un nuovo stimolante confronto tra stili e tecniche.
Il nuovo genere musicale, eseguito da un quartetto o un quintetto, si chiamò be-bop: ogni singolo musicista si concentrava su un assolo e lo sviluppava trasferendogli tutta l’emotività della propria esperienza di vita dando luogo a concerti da ascoltare, con attenzione, stando seduti.
Chalies Parker, sassofonista, fu il principale protagonista del be-bop poiché seppe procedere all’elaborazione di un nuovo linguaggio che, con tecnica strumentale e grande fantasia, seppe dare vita a spettacolari assoli e ritmi che mutavano nel corso dell’evoluzione distinguendosi sempre più dal tema iniziale della canzone.
Egli ebbe come principali collaboratori Dizzy Gillespie, Bud Powell, Kenny Clarke e Max Roach – rispettivamente alla tromba, al piano e, gli ultimi due, alla batteria – tutti artisti afro-americani che rispondevano con la libertà musicale al razzismo degli Stati Uniti. Musicisti, coniatori di un’esperienza innovatrice del jazz, che furono però, ben presto, emarginati, perseguitati e fatti oggetto di violenze da parte della polizia e, di frequente, trattati come folli, tutti episodi che ebbero l’effetto di spingerli verso l’emarginazione e la solitudine.
Billie Holiday nata nel 1915 a Baltimora si trasferì a New York dove all’inizio degli anni Trenta venne scoperta da John Hammond, talent scout del jazz. Da allora cominciò a collaborare con i massimi esponenti del jazz, Benny Goodman, Count Basie, Teddy Wilson e Lester Young.
Dalla seconda metà degli anni Trenta, Billie mostrerà di essere una delle massime esponenti del canto jazz: essa metteva in scena esperienze e sentimenti reali, raccontando le sue emozioni con una vocalità caratterizzata da estrema sensualità.
Nelle sue scelte si rifaceva alla tradizione blues, nata alla fine dell’Ottocento tra la popolazione afro-americana delle zone rurali, e raccontava la sua tormentata esistenza riferendosi agli anni della giovinezza in cui si era prostituita ed era stata incarcerata.
Attraverso le sue rivisitazioni diventavano memorabili anche canzoni popolari originariamente poco significative o addirittura stucchevoli; ma fu anche compositrice originale di brani come il famoso Strange Fruit in cui si narra di un uomo di colore impiccato ad un albero. Essa ebbe, come molti altri artisti afro-americani, un’esistenza difficile di cui fu testimonianza la sua voce che nel tempo divenne meno flessibile pur non per questo impedendole di dare vita a capolavori musicali fino alla fine della sua carriera, al momento della sua precoce morte nel 1959.
Nel secondo dopoguerra composero, in America, musicisti quali John Cage e Harry Partch che sperimentarono nuove musicalità sia per quello che riguardava gli strumenti sia i sistemi di note.
John Cage studiò prima con Schönberg per poi allontanarsene avvicinandosi a Satie, del quale apprezzava gli stimoli, e alle culture orientali e zen. Egli intendeva studiare la relazione tra suono, rumore e silenzio per giungere ad una concezione “fisica” del suono. Rifiutò la musica accademica tanto da dirigersi verso la composizione di opere in cui il pianoforte veniva arricchito da una serie di oggetti collocati al suo interno (pezzi di carta e di metallo, viti, gomme) che ne alterassero i ritmi originali. Da lì in poi fu sempre alla ricerca di nuove musicalità precorrendo i tempi con inserzioni di musica elettronica e disturbi radiofonici (Immaginary LandscapeI), fino allo sperimentalismo assoluto di un brano fatto solo di silenzio. Collaborò con Merce Cunnigham e col pianista David Tudor e partecipò agli happening di Allan Kaprow. All’inizio degli anni Cinquanta tenne uno dei primi concerti multimediali nella storia della musica: la Concerted action.
Harry Partch lavorò da autodidatta, giungendo a realizzare una scala di 43 note che gli permettevano di riprodurre sonorità simili a quelle della musica antica. Ma il suo sperimentalismo si spinse, come anche nel caso di John Cage, alla produzione di strumenti musicali costruiti con materiali inediti e diretti alla produzione di effetti timbrici specifici; egli si definiva infatti “un musicista sedotto dalla falegnameria”.
Gli artisti del secondo dopoguerra frapposero alle riflessioni teoriche sull’arte, interrogativi sulle questioni sociali e sulla realtà in cui vivevano, nella convinzione di dovere contribuire all’affermazione di un sistema che garantisse la libertà. In Italia, sotto la spinta del Partito comunista, gli artisti furono sollecitati a un impegno artistico che si concretizzasse nella denuncia sociale: si parlò di realismo socialista e gli artisti che aderirono, tra i quali Guttuso, abbandonarono ogni tendenza all’astrattismo.
In altri paesi europei nel frattempo si andava costituendo uno stile che andava in tutt’altra direzione, l’informale, che esprimeva prima d’ogni altra cosa la propria sfiducia verso il razionalismo e che reputava invece di dover enfatizzare il valore di ogni gesto e di propugnare un contatto diretto tra l’artista e la materia. L’artista allora poté bucare, scavare, bruciare la tela e aggiungervi infinite quantità di materiali inusitati. In America, la galleria aperta da Peggy Guggenheim sulla 57ª strada a New York costituì il punto d’incontro tra avanguardie europee e giovani artisti americani.
All’inizio degli anni Quaranta, in Italia, molti artisti confluirono all’interno di una corrente che poneva le basi nell’espressionismo, e che intendeva testimoniare la presa di coscienza civile attraverso opere dai toni drammatici e angosciati.
Nel 1938 Ernesto Treccani, pittore, aveva fondato la rivista Corrente - dalla quale nacque anche la galleria “Bottega di Corrente” che operò dal 1940 al 1943 - attorno alla quale ruotarono Guttuso, Renato Birolli, Ennio Morlotti, Aligi Sassu, Vedova e Giacomo Manzù.
Essi, in rifiuto dell’arte celebrativa ufficiale ma anche in rifiuto dell’arte astratta, proposero un’arte realista che fosse testimonianza di coscienza morale e civile e che coinvolgesse l’osservatore nella valutazione critica della realtà attraverso la rappresentazione di fucilazioni, eccidi, e degli orrori della guerra. La rivista fu chiusa dalle autorità fasciste nel 1940, mentre l’attività del gruppo proseguì ancora fino al 1943, diventando però la base del movimento artistico del dopoguerra che vide ancora gli artisti impegnati in prima fila nella diffusione di un messaggio civile.
Negli anni del dopoguerra, infatti, il realismo era considerato la base dell’espressione artistica. Vennero fondate molte riviste, aperte nuove gallerie e nuovi gruppi di artisti si confrontarono sul concetto di arte, divisi tra astrattismo e figurazione. Le due tendenze si erano unite nel 1946 con la stesura del Manifesto della nuova secessione artistica italiana, che fondava il Fronte Nuovo delle Arti. Sebbene con stili differenti, tutti i firmatari (Guttuso, Leoncillo, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova) intendevano dirigersi verso la creazione di una pittura che fosse strumento di rinnovamento sociale, utile alla ricostruzione del paese. Esposero insieme alla Biennale del 1948 ma successivamente, sulla base della chiara predilezione del PCI dell’arte realista, il gruppo si scisse. Seguendo la linea del PCI di Togliatti alcuni pittori, tra i quali Guttuso, ritennero che l’unico mezzo per esprimere i valori dell’antifascismo fosse il realismo: è di questa fase, infatti, la sua grande tela Occupazione delle terre, che era stato portata a termine nell’arco di tempo tra il 1946 e il 1950.
Altri artisti si staccarono invece dal realismo costituendo, nel 1947, il gruppo Formula Uno: Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Sanfilippo, Turcato firmarono in quell’anno un manifesto che venne pubblicato sulla rivista “Forma” nel quale rifiutavano il realismo e si facevano propugnatori della ricerca su problemi specifici dell’arte, quali lo studio di forme e di colori e i rapporti puri tra figure geometriche. Essi esposero per la prima volta nel 1948 e la loro attività proseguì fino al 1951, quando molti confluirono nel Gruppo degli Otto guidato da Vedova.
Prima della fondazione del Gruppo degli Otto che avverrà nel 1951 alcuni artisti (Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Bruno Munari, e Atanasio Soldati) si erano già uniti, al fine di rilanciare l’arte astratta, nel MAC, Movimento Arte Concreta.
Si rifiutarono, invece, di prendere una posizione pro o contro la figurazione o l’astrattismo i pittori del gruppo Origine, fondato nel 1949 a Roma. Si raccoglievano sotto questo nome, pur mantenendo stili differenti, Alberto Burri Giuseppe Capogrossi, Mario Ballocco e Ettore Colla, fautori di un’arte che fosse un puro e semplice momento di raccoglimento interiore.
Il gruppo Cobra venne fondato a Parigi nel 1948 da un gruppo di intellettuali e artisti nord europei. In nome faceva riferimento al serpente ricorrente nella mitologia nordica ma era anche frutto dell’unione delle iniziali delle loro città d’origine: Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam.
Il Manifesto del gruppo uscì in quell’anno firmato da Christian Dotremont e Noiret per il Belgio, Jorn per la Danimarca, Corneille, Constant e Appel per l’Olanda: essi esprimevano la loro volontà di contrastare l’assoluta supremazia dell’arte e della cultura francesi. Il Gruppo rimase in attività per quattro anni pubblicando sulla rivista “Cobra” articoli contro il realismo socialista, contro l’arte colta e a favore del recupero delle tradizioni popolari. Nei loro quadri utilizzarono colori violenti e spesso collaborarono a tele comuni giungendo ad un’effettiva coesione tra artisti. Il loro lavoro ebbe carattere internazionale e l’esperienza si concluse nel 1951 con una mostra a Liegi.
I lavori di Wols, Hartung, Mathieu, Fautrier, Dubuffet, Michaux Riopelle erano stati definiti dal critico francese Michel Tapié prima con il nome di art informal poi di art autre (arte altra). Gli esponenti di questa corrente, che esposero a Parigi a partire dal 1944, furono accomunati dalla scelta di non operare più una distinzione tra fondo e figura e di abbandonare lo studio dei rapporti tra gli elementi del quadro. Il loro linguaggio, riconosciuto come radicalmente innovatore, è difficile da definire precisamente poiché il movimento dell’informale racchiuse esperienze molto varie, tra le quali si possono individuare due importanti filoni: gestuale-segnico e quello materico. Il filone segnico prediligeva una pittura basata sulla velocità di esecuzione e sulla raffigurazione di segni privi di un significato concettuale compiuto, senza riferimenti né al naturalismo né al simbolismo; molti di loro si rifacevano, invece, alla scrittura orientale. In Francia Wols, Mathieu, Hartung, Soulanges furono i più rappresentativi di questa corrente.
Il filone materico, parte della cosiddetta arte informale, si basava sulla sovrapposizione di strati di colore molto spessi e altri materiali sulla tela. Il primo a sperimentare questa forma di arte fu Jean Fautrier il quale, nel 1943, compose una serie di tele intitolate Ostaggi nelle quali usò olio, colore, colla il tutto impastato direttamente sulla tela dando luogo a immagini che, pur non avendo una forma ben definita, avevano un forte effetto evocativo. Anche Jean Dubuffet scelse per i suoi lavori dei materiali inusuali e considerati anche indegni di entrare a fare parte di un’opera d’arte, per esempio carbone, sabbia, bitume, dando vita ad alcune delle più significative tele del filone materico.
Lo stesso artista nel 1945 parlò di Art brut intendendo riferirsi a quelle opere prodotte da artisti che rimanevano fuori dai circuiti ufficiali e commerciali dell’arte. Egli organizzò nel 1947 a Parigi, alla Gallerie Rene Drouin, una mostra di opere che aveva raccolto negli ospedali psichiatrici francesi e svizzeri poiché l’art brut era anche questo, le opere di alienati mentali e di autodidatti. Si formò poi, nel 1947, la Compagnia dell’art, che riunì circa 60 persone e voleva fungere da collettore delle opere di sconosciuti e arrivò a contare 2000 tele.
Numerosissimi furono gli artisti europei che per sfuggire ai regimi totalitari si rifugiarono in America; negli anni Quaranta con l’occupazione della Francia: fu la volta di artisti quali Duchamp, Masson, Mondrian, Mies Van der Rohe, Breton.
Essi portarono con sé lo stile surrealista che si trasformò negli Stati Uniti nell’espressionismo astratto: ciò che infatti ebbe seguito oltreoceano, fu la poetica dell’automatismo, cioè la pittura che seguisse gli stimoli che provenivano direttamente dal profondo della coscienza, senza mediazioni.
La diffusione del surrealismo fu dovuta anche all’opera di Peggy Guggenheim, la quale, dopo avere trascorso gli anni del 1921 al 1941 in Europa, era tornata in America portando con se quadri di Picasso, Braque, Duchamp, Mondrian, Brancusi e di altri artisti europei. Essa espose la sua collezione d’arte astratta cubista e surrealista nella galleria che aprì sulla 57ª strada che divenne il mezzo per diffondere l’arte delle avanguardie oltreoceano. Espose anche opere di giovani artisti americani di cui il più famoso sarebbe diventato Pollock, il quale espose per la prima volta nel 1943.
L’espressionismo astratto nacque proprio dalla definizione che un critico americano diede, nel 1946, delle opere che venivano esposte alla galleria di Peggy che egli riconosceva come sintesi tra le tendenze avanguardiste e moderniste. Quello che accomunava
gli artisti che esponevano sulla 57ª (artisti come Pollock, Motherwell, Baziotes, Rothko, Gottlieb, Still) non era tanto lo stile quanto, l’interesse per le avanguardie europee e la volontà di conciliare l’impegno politico, con la ricerca di uno stile che fosse al tempo stesso differente dal realismo sociale degli anni Trenta e da quello degli artisti europei.
Influenzarono la loro arte anche le opere indo-americane e messicane e le teorie junghiane sull’inconscio collettivo.
Essi dipingevano, senza cavalletto, su tele di enormi dimensioni, con colori industriali e senza pennelli in una continua improvvisazione che facesse emergere le emozioni dell’artista alla vista dell’osservatore. All’interno dell’espressionismo astratto, detto anche Scuola di New York, convivevano la action painting e la color field che avevano differenti concezioni sull’uso dei colore nell’espressione dell’emotività dell’artista. I pittori della color field usavano dipingere tele senza nessuna forma o linea ma solo uno o due colori per sottolineare proprio l’assenza di qualsiasi emotività dell’artista.
Si distanziò dall’espressionismo astratto anche Mark Tobey il quale si concentrò sulla filosofia orientale sintetizzando esperienze occidentali e religione orientale alla ricerca di un misticismo e di una purificazione che rispondessero alle necessità del versante teologico dell’espressionismo astratto.
Immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale e la sconfitta e il crollo dei regimi totalitari, la letteratura si orientò verso l’impegno politico e civile divenendo strumento critico e dando vita a romanzi spesso incentrati sulla lotta antifascista della Resistenza.
In Italia uscirono Uomini e no di Elio Vittorini, Se questo è un uomo e La tregua di Primo Levi, Il compagno di Cesare Pavese che ripercorrevano, sotto diversi aspetti ma tutti accomunati dalla volontà di denuncia, gli anni del fascismo e della guerra.
In Francia Jean-Paul Sartre fondò, nel 1949, la rivista Les temps modernes inaugurando la stagione della “letteratura dell’impegno”: subito dopo la guerra vennero pubblicati il romanzo di Vercos Il silenzio del mare, che era stato scritto nel 1942, e ancora, Le Rendez vous allemand di Eluard e Crève coeur di Aragon tutti lavori in cui il linguaggio e la narrazione sono volutamente semplici per diffondere il messaggio antifascista. Nel 1949, dando vita a un’esperienza simile a quella della rivista di J.P. Sartre, Elio Vittorini fondò a Milano Il Politecnico sulle cui pagine lanciò un appello per la costituzione di una letteratura non più consolatoria ma piuttosto impegnata nella battaglia e nell’eliminazione della sofferenza.
Nel 1945 Vittorini pubblicò Uomini e no, romanzo della lotta partigiana composto da 136 piccoli capitoli la cui sequenza si interrompe, talvolta, con le inserzioni - identificate dall’uso del corsivo - del narratore stesso a dialogo coi personaggi del libro. Già introdotta in Conversazione in Sicilia (1941), la distinzione tra uomini e non uomini distingue rispettivamente coloro che, perseguitati, o danneggiati da violenze mantengono la coscienza della vita sociale e del benessere collettivo e gli altri che, concentrati solo sulla propria individualità, perseguitano gli altri. A partire da Compagno del 1947 nel quale si narrava la storia di un giovane che attraverso un percorso di presa di coscienza decide di schierarsi nell’antifascismo attivo, Pavese ripercorse ancora negli anni successivi il tema della Resistenza. Nel 1949 furono stampati con il titolo di Prima che il gallo canti scritti degli anni immediatamente precedenti: Il carcere, composto nel biennio 1938-39, sul tema del confino e La casa in collina, composto nel 1948-49 in cui la lotta partigiana viene vista con gli occhi di un intellettuale lontano dalla realtà e per questo consapevole della sua “solitudine”. Ma nello stesso anno vennero pubblicati anche i romanzi brevi La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tre donne sole ambientati nell’ambiente intellettuale della Torino del secondo dopoguerra.
L’esperienza della guerra e della deportazione è narrata invece da Primo Levi nei celebri romanzi Se questo è un uomo e La tregua. Il primo fu pubblicato nel 1947 per testimoniare il dramma del campo di concentramento di Auschwitz, mentre il secondo, del 1963, racconta il viaggio di ritorno dal lager dopo la fine della guerra. Se questo è un uomo racconta in diciassette capitoli la prigionia dello scrittore descrivendone le violenze subite, la fame, il freddo e la fatica. Il compito di testimoniare e di imprimere nella memoria le atrocità compiute sugli esseri umani dai nazisti si univa alla necessità del protagonista di liberarsi e di riappropriarsi attraverso la narrazione della propria vita di uomo.
Sempre della fine degli anni Quaranta è Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino nel quale l’autore racconta la lotta di Resistenza attraverso l’esperienza di un giovane ragazzo, il cui nome di battaglia è Pin, in una brigata partigiana.
Dopo essersi recato a combattere nella guerra civile spagnola unendosi al POUM, gruppo anarchico a favore della Repubblica, George Orwell scrisse nel 1938 Omaggio alla Catalogna basandosi sulla sua esperienza diretta. Il suo disprezzo fu diretto ai gruppi repubblicani che, pur condividendo l’obiettivo, non si univano a combattere insieme contro il nemico comune. In particolare maturò estraneità rispetto al socialismo autoritario per i comportamenti e le strategie che aveva visto adottare durante la guerra civile. Anche Ernest Hemingway aveva partecipato alla guerra civile spagnola e scrisse, anche lui, Per chi suona la campana che fu pubblicato nel 1940. Il romanzo si svolge tutto nella descrizione di una sola azione di guerra di tre giorni e poco più. Nel corso della narrazione degli eventi dei tre giorni, Hemingway riesce a descrivere i singoli caratteri dei componenti della banda e le riflessioni introspettive del giovane protagonista, Robert. Presenta, inoltre, una serie di sfaccettature e punti di vista dei personaggi impegnati nei diversi fronti della guerra della quale descrive con realismo e crudezza le battaglie.
Gli anni Quaranta sono gli anni nei quali Albert Camus, scrittore, saggista e drammaturgo francese, delinea quello che è stato definito “ciclo dell’assurdo”: nel romanzo L’étranger (Lo straniero) del 1942, nei drammi Le malentendu (Il malinteso) e Caligula (Caligola), rappresentati nel 1944 e 1945, e infine nel saggio Le mythe de Sisyphe (Il mito di Sisifo, 1942), egli pone in tutta la sua tragica, quanto sconcertante evidenza, la questione del suicidio, dunque del motivo per cui la vita abbia un senso o meno. La ripetizione meccanica e quotidiana di abitudini e rituali personali e collettivi nasconde l’assenza di una reale e oggettiva finalità che giustifichi fatica e sofferenza: l’“uomo assurdo” è colui che, come Mersault, protagonista de Lo straniero, coglie con implacabile disincanto la rispettiva estraneità tra uomo e natura, tra uomo e mondo che lo circonda, tra assurdità dell’esistenza e incapacità umana di rinunciare al desiderio, inesausto e insoddisfatto, di chiarezza e felicità. L’“eroe assurdo” è invece identificato da Camus in Sisifo, condannato dagli dei a spingere faticosamente un macigno fino alla sommità di una montagna, per vederlo puntualmente e incessantemente rotolare giù dal pendio: un lavoro inutile e senza alcuna speranza. Sisifo raggiunge la vera libertà nel momento in cui mette lucidamente a fuoco, e senza infingimenti, la propria condizione. Solo allora egli è più forte della pietra e del proprio destino che lo schiacciano: “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.
Nel 1944 il medico ucraino A. Waksman rese noto che era disponibile una nuova sostanza antibiotica per la cura della tubercolosi: la streptomicina, derivata dal fungo Streptomyces griseus, per la prima volta ricavata da una coltura di Streptomyces presente nello stomaco di alcuni polli malati. La tubercolosi è una malattia infettiva cronica causata da un batterio, il Mycobacterium tubercolosis ed interessa qualsiasi organo del corpo, sebbene ne siano soprattutto colpiti i polmoni.
Con l’uso di derivati di tale sostanza, tra i quali la diidrostreptomicina, la tubercolosi cessò di essere una delle grandi piaghe del mondo contemporaneo. La mortalità, causata da questo agente patogeno all’inizio del secolo, era superiore al 40%, mentre grazie all’utilizzo della streptomicina, si ridusse al di sotto del 0,6%.
Appena due anni dopo la scoperta della streptomicina furono trovate altre sostanze antibiotiche ad ampio spettro, quali la framicetina, la terramicina, la tetraciclina e il cloramfenicolo, quest’ultimo isolato dal terreno di coltura di Streptomyces, efficace, anche se assai tossico, contro i batteri della salmonella e della clamidia e in grado di curare malattie quali il tifo, il paratifo e le brucellosi.
D. A. Karnofsky ha cominciato a usare le sostanze alchilanti, dette anche “mostarde azotate”, iniziando la prima terapia medica dei tumori capace di conseguire qualche significativo successo. La scoperta che gli alchilanti sono in grado di determinare un’involuzione dei tessuti linfatici e del midollo osseo ha indotto gli oncologi a studiarne a fondo gli effetti, analogamente agli esperimenti effettuati con le radiazioni ionizzanti. Nel 1947, all’Istituto di Oncologia sperimentale di Mosca venne messo a punto il Melphalan, mentre in Germania si sintetizzò la ciclofosfamide (Endoxan), un farmaco selettivo contro i tumori. Altri alchilanti usati sono il busulfano, le nitrosouree (carmustina, lomustina, semustina, streptozicina) e la dacarbazina. Queste sostanze creano un legame irreversibile fra le due eliche del DNA, che viene alterato nella struttura; al danno seguono il blocco della replicazione e la morte della cellula tumorale. Purtroppo queste sostanze scatenano effetti collaterali piuttosto pesanti e, dopo un certo tempo, determinano una “resistenza” del tumore nei loro confronti. Le ricerche sulle molecole capaci di interferire negativamente sulla fase moltiplicativa delle cellule cancerose hanno portato a dare una certa importanza all’acido folico, naturalmente presente nelle verdure fresche, nella frutta e nei lieviti, come agente naturale anti-tumorale. Dagli anni cinquanta in poi, grazie soprattutto agli studi di G. H. Hitching e G.B. Elion, la ricerca si è concentrata sull’individuazione di farmaci in grado di interferire con il metabolismo cellulare, in particolare con la sintesi degli acidi nucleici.
La lotta contro i tumori ha tratto beneficio anche dallo studio dell’azione inibitoria della crescita cellulare svolta dagli antibiotici, fra i quali l’actinomicina, sintetizzata negli anni Quaranta, quindi la mitramicina disponibile fin dagli inizi degli anni Sessanta e le bleomicine scoperte nel 1973. Tuttavia, nell’ambito degli antibiotici le aspettative maggiori sono riposte nelle antracicline, che riescono a rompere le catene di DNA; tra esse sono da ricordare la doxorubricina e la daunorubricina con le quali si possono validamente attaccare le leucemie, il carcinoma mammario, quello ovarico, quello polmonare, del testicolo, della prostata e della cervice uterina, ed inoltre il carcinoma tiroideo.
Dopo gli studi di Charles B. Huggins sull’azione degli estrogeni sul carcinoma della mammella e su quello prostatico negli anni 1940-1945, la relazione tra ormoni e tumori ha aperto interessanti prospettive di cura. Nonostante non siano del tutto chiari i meccanismi di azione antiblastica degli ormoni steroidei sul cancro alla prostata, su quello della mammella e sui linfomi, oggi la cura di questi tumori può dare buoni risultati. Contro il carcinoma mammario viene usato il tamossifene, un antiestrogeno, e nella cura del carcinoma della prostata vengono usati gli antiandrogeni, mentre con i corticosteroidi vengono curate le leucemie infantili. Dal 1957 è noto che le cellule infettate da un virus liberano una sostanza liquida capace, in una certa misura, di proteggere l’organismo da un’infezione successiva. Questa sostanza, scoperta da Isaacs e Lindemann, è nota con il nome di interferon e il suo meccanismo di azione è divenuto più chiaro a partire dagli anni Settanta. L’interferon è attivo nel trattamento di particolari forme tumorali come, ad esempio, il melanoma maligno, il sarcoma di Kaposi e il carcinoma renale. Queste due ultime affezioni sono divenute curabili anche attraverso le interleuchine.
Nel 1944 Oswald Avery, Colin MacLeod e Maclyn McCarty, ricercatori del Rockfeller Institute di New York, identificarono una strana e misteriosa sostanza, chiamata acido desossiribonucleico (DNA), come la portatrice del codice genetico. Questi scienziati scoprirono che il DNA contiene quattro differenti basi chimiche: adenina, guanina, citosina e timina, contrassegnate per semplicità con le lettere A, G, C e T.
Nove anni dopo gli inglesi Francis Crick e James Watson della Cambridge University scoprirono la struttura del DNA, ricevendo nel 1962 il premio Nobel. Il DNA ha la forma a doppia elica, simile a una scala a spirale i cui gradini sono costituiti dalle quattro basi azotate, in sequenze diverse. Le parti esterne della scala sono formate da zuccheri e fosfati. Le basi A, G, C, T si presentano accoppiate in combinazioni successive e una coppia più un’altra base formano un codice (CAT, TAC, TAG) che ordina un particolare aminoacido, fino ad arrivare alla codifica di 20 aminoacidi diversi. La semplice ripetizione in lunghissime sequenze, come i punti e le linee del codice Morse, comporta la codificazione di tutti i caratteri di un essere vivente, dai suoi tratti somatici, al suo metabolismo.
Per la duplicazione del DNA, Watson e Crick teorizzarono che la doppia elica si srotola perdendo il suo andamento a spirale e le basi accoppiate a due a due si separano: si formano così due semi-eliche che servono da stampo nella replicazione del codice genetico, cioè nuove molecole ricostruiscono la metà mancante lungo ciascuna semi-elica, da una catena di DNA se ne formano due perfettamente identiche.
Il modello di Watson e Crick divenne in breve, dopo le numerose conferme sperimentali, il modello universale del DNA.
Enrico Fermi (1901-1954) lasciò l’Italia nel 1938 per ricevere il premio Nobel per la fisica in Svezia e non vi tornò mai più. Con sua moglie si trasferì negli Stati Uniti a causa del fascismo e del crescente antisemitismo in Italia.
Fermi si rese conto che la fissione nucleare era accompagnata dal rilascio di colossali quantità di energia dalla conversione della massa in energia, secondo l’equazione di Einstein E=mc². Quando gli scienziati convinsero il presidente Roosevelt di questo, Fermi fu nominato capo di un gruppo di ricerca che si occupava di un progetto segreto per la creazione di una bomba atomica, il progetto Manhattan. Tuttavia il compito di Fermi era di creare una reazione nucleare controllata: cioè dividere l’atomo senza dar luogo ad un’esplosione mortale.
In teoria era possibile: durante la fissione, un neutrone è bombardato nel nucleo dell’atomo, che si divide ed espelle un neutrone. Questo neutrone espulso può dividere un altro nucleo, rilasciando un altro neutrone libero che ne divide un altro ancora, e così via: una reazione a catena autoalimentante. Se la reazione a catena andava troppo veloce, diveniva un’esplosione atomica, ma sotto controllo poteva produrre un flusso stabile di energia. Se la reazione a catena partiva con l’uranio, creava anche un sottoprodotto, il plutonio, un ottimo carburante per un’arma nucleare, che era stato appena scoperto nel 1940 da Glenn Seaborg.
All’Università di Chicago, Fermi lavorò col suo gruppo di ricerca per trovare il modo di controllare la reazione a catena. Riuscì nel suo intento creando un dispositivo, la pila atomica, nel quale era possibile inserire un materiale che assorbisse i neutroni nel mezzo del processo di fissione per rallentarlo o per fermarlo. Scoprì che le barre di cadmio assorbivano i neutroni. Se la reazione a catena si accelerava, le barre di cadmio potevano essere inserite per rallentarla oppure potevano essere rimosse per accelerarla di nuovo.
Il 2 dicembre del 1942, il gruppo effettuò la prima prova. L’apparecchiatura fu sistemata in un campo da gioco dell’Università di Chicago. Il momento era cruciale; se le loro teorie ed esperimenti si dimostravano sbagliati, potevano radere al suolo mezza città. Alcune barre furono tirate fuori e la reazione cominciò. Riuscirono ad aumentare o diminuire il quantitativo di energia risultante sistemando le barre. L’idea di Fermi funzionò, ottenendo la prima reazione a catena controllata autoalimentante, il primo flusso controllato di energia da una fonte che non fosse il Sole.
Un messaggio cifrato annunciò al governo il successo dell’esperimento: “The Italian navigator has just landed in the new world” (il navigatore italiano è appena approdato nel nuovo mondo).
Da allora, la teoria di Fermi è stata ampliata e raffinata. Sono stati costruiti reattori nucleari in molti paesi per fornire energia sia a scopo militare, per esempio nei sottomarini nucleari, sia per usi civili, come per la normale elettricità.. Purtroppo gli incidenti avvenuti negli ultimi anni hanno reso meno popolare l’uso di tale forma di energia, soprattutto per i problemi legati alle scorie radioattive.
Le esigenze della guerra resero le ricerche di fisica nucleare, legate ai processi di fissione, di immenso valore strategico. La prima bomba atomica fu sganciata contro la città giapponese di Hiroshima il 6 agosto del 1945, seguita da una seconda esplosione sopra Nagasaki tre giorni dopo. Le motivazioni che furono addotte dai capi di governo di allora, Truman e Stimson, non trovano piena giustificazione. Autorizzarono l’uso della bomba atomica per il fatto che la continuazione della guerra con i mezzi tradizionali avrebbe comportato molte vittime e ulteriori atrocità; ma non si tenne conto che la bomba atomica comportò ugualmente decine di migliaia di morti tra la popolazione civile, senza contare gli effetti a lungo termine delle contaminazioni radioattive.
Dopo l’invenzione del turboreattore sono state costruite diverse varianti allo schema principale, per esempio, la turboelica, i pulsoreattori, gli statoreattori e gli endoreattori. Questi ultimi sono generalmente definiti razzi, e sono stati fondamentali per lo sviluppo degli aviogetti e per la nascita dell’avionautica. Tra il 1920 ed il 1930 sono stati eseguiti i primi voli a razzo usando quali propellenti la nitroglicerina e la nitrocellulosa. I primi aviogetti sono stati gli aerei da caccia “Messerschmitt 163” prodotti negli anni tra il 1941 e il 1945, che riuscivano a superare la velocità di oltre 1000 chilometri orari, e il Bell X-1 che il 14 ottobre 1947 superò per la prima volta la velocità del suono, volando a 1610 km orari. Il motore a razzo viene usato essenzialmente per voli nella stratosfera, poiché la sua trazione non dipende dall’aria esterna, come invece avviene nel turboreattore. Nel 1956 l’americano Franck Everest riuscì, volando su un aviorazzo, a raggiungere la velocità di 3200 km all’ora.
James Chadwick aveva scoperto nel 1932 il neutrone, la piccola particella atomica con massa simile al protone ma priva di carica. Questa scoperta diventò di cruciale importanza per il bombardamento dei nuclei atomici. Due anni dopo, Fermi bombardò l’uranio con i neutroni, osservando la formazione di nuovi elementi radioattivi, diversi dall’uranio. Questi risultati interessarono i fisici Otto Hahn, Fritz Strassmann e Lise Meitner che cominciarono a sospettare che Fermi non avesse creato un nuovo elemento, ma che avesse, in realtà, diviso l’atomo di uranio in due, era cioè avvenuta la fissione nucleare. Quando avveniva la divisione, entrambe le metà dell’atomo avevano una carica positiva che le teneva fortemente lontane l’una dall’altra. Diversi scienziati, rendendosi conto che la fissione poteva essere usata per costruire un’arma micidiale, scrissero al presidente Roosevelt per informarlo di queste scoperte da parte degli scienziati europei. Il presidente immediatamente costituì una commissione per la ricerca sulla materia. Otto Hahn si rifiutò di avere a che fare con la ricerca di nuove armi e tornò in Germania.
Alla fine del 1941, i britannici avevano individuato i materiali occorrenti per la bomba atomica e la ricerca dell’uranio che stava continuando in varie università americane.
Nel 1942 il gruppo di ricerca di Fermi dell’Università di Chicago aveva creato la prima reazione a catena di fissione nucleare. Sempre durante il 1942 fu istituito il Manhattan District, per la preparazione delle sostanze necessarie alla bomba atomica. A Oak Ridge, nel Tennesse, fu costruito un impianto e un reattore nucleari per separare l’uranio 235 dall’uranio naturale, che normalmente si trova nei minerali di pechblenda e uraninite. A Hanford, nello stato di Washington, creati tre reattori per estrarre plutonio dall’uranio non fissionabile. Infine fu edificato un laboratorio per la costruzione della bomba a Los Alamos, nel Nuovo Messico. L’intera installazione del progetto Manhattan costò più di 2 miliardi di dollari.
Julius Robert Oppenheimer fu nominato direttore del laboratorio nel Nuovo Messico e nel 1943 riunì più di 200 scienziati a lavorare con lui. Prepararono due tipi di bombe, una che usava l’uranio, ribattezzata “Little Boy” e una che usava il plutonio, “Fat Man”. All’inizio del 1945, gli impianti del Tennessee e dello stato di Washington avevano prodotto abbastanza materiale per le bombe. Il 13 Luglio 1945, a Trinity, 200 km a sud di Alamogordo, fu assemblata una bomba al plutonio, ma la prova dell’esplosione fu rinviata a causa di una tempesta. Il 16 Luglio, nel deserto, in un luogo detto significativamente Jornada del Muerto, la bomba fu fatta esplodere e questa produsse una intensa luce e una caratteristica nuvola a “fungo” che furono visti dai tecnici che si trovavano nei bunker lontani 10 km dal luogo dell’esplosione. Il potere esplosivo, equivalente a 18,6 mila tonnellate di tri-nitro-toluene, fu quattro volte più grande di quanto fosse previsto. Alcuni degli scienziati di Los Alamos prepararono una petizione per il presidente Truman, dove chiedevano di dare un avviso al Giappone e una possibilità di arrendersi prima di usare la bomba, ma il progetto rimase segreto fino alla fine. Il 6 agosto la bomba all’uranio fu sganciata sulla città di Hiroshima (186.940 morti) e il 9 agosto, quella al plutonio su Nagasaki (102.275 morti). Oppenheimer si dimise dalla sua posizione nell’ottobre del 1945, e negli anni successivi fece parte delle commissioni sull’energia atomica, che nell’ottobre del 1949 si opposero allo sviluppo della bomba all’idrogeno.
La macchina Enigma era un dispositivo elettromeccanico che permetteva la cifratura e la decifratura di un messaggio. Fu inventato nel 1918 dal tedesco Arthur Scherbius. Questi riuscì a meccanizzare i dischi cifranti inventati nel XV secolo dall’architetto italiano Leon Battista Alberti, a loro volta una versione sofisticata del cifrario di Cesare, che si basava sulla sostituzione di una lettera dell’alfabeto con un’altra lettera in base ad un codice cifrante. La macchina Enigma era composta da una sequenza di tre pannelli elettrici composti da scambiatori che, partendo da una tastiera, portavano il segnale a un visore dove varie lampadine corrispondevano alle lettere dell’alfabeto. La combinazione degli scambiatori, stabilita da un codice cifrante, determinava la corrispondenza tra la lettera digitata sulla tastiera e quella che appariva sul visore. L’operatore, dopo aver impostato il codice, digitava il messaggio sulla tastiera e riportava su carta il messaggio cifrato che appariva sul visore. Il messaggio cifrato veniva digitato su una macchina Enigma, configurata con lo stesso codice, sul cui visore appariva il messaggio in chiaro. La potenza della macchina Enigma stava nella velocità con la quale si generava il codice cifrato e nella difficoltà di decifrarlo, dato che le combinazioni possibili degli scambiatori erano 26 x 26 x 26 = 17.576, pari al numero di combinazioni possibili dell’alfabeto di 26 caratteri per il numero di pannelli presenti. Il codice era modificato giornalmente, impedendo di fatto la possibilità di decifrare in tempo utile i messaggi che venivano intercettati. Ricordiamo che al quel tempo non esistevano ancora elaboratori elettronici per automatizzare questo tipo di calcoli: i primi veri elaboratori furono costruiti proprio per risolvere i messaggi della macchina Enigma nei primi anni ’40.
La macchina Enigma determinò un salto di qualità nelle comunicazioni militari dei Tedeschi nel primo dopoguerra fino ai primi anni della Seconda Guerra Mondiale, ma vide anche una controffensiva degli alleati, in primis gli Inglesi, nel trovare contromisure, grazie all’aiutio di crittografi polacchi e la mente geniale di Alan Turing.
L’ENIAC (Electronic Numerical Integrator Analyzer and Computer) con le sue 18,000 valvole, 70,000 resistenze, 10,000 capacitori, 1,550 relays, 6,000 interruttori manuali, chilometri di collegamenti e 30 tonnellate di peso fu il primo computer, un monumento di ingegneria, costruito nel 1946 nella città di Philadelphia, alla Moore School di Ingegneria elettronica dell’Università della Pennsylvania.
Fu essenzialmente un prodotto della seconda guerra mondiale. I militari avevano bisogno di sviluppare delle tavole balistiche per la loro artiglieria, così che i soldati potessero velocemente decidere quale tipo di arma usare su un particolare obiettivo in particolari condizioni. Le equazioni per determinare queste figure erano così complicate che ci volevano giorni per essere calcolate e gli esistenti calcolatori meccanici potevano appena migliorare la situazione. Il Laboratorio di Ricerca Balistica, responsabile della fornitura di queste proiezioni ai soldati in guerra, non riusciva a migliorare il lavoro. Il laboratorio aveva però saputo delle ricerche fatte dall’ingegnere John Mauchly alla Moore School, che aveva suggerito di usare le valvole per velocizzare i risultati dei calcolatori. Nel 1943 il laboratorio commissionò a Mauchly e al suo assistente J. Presper Eckert la creazione di un computer ad alta velocità. Ci volle un anno intero a ideare ENIAC e 18 mesi a costruirlo materialmente. Quando fu completato, nel novembre 1945, la guerra era già finita da tre mesi, ma il computer era capace di elaborare calcoli in 10 milionesimi di secondo e poteva fare fino a cinquemila operazioni al secondo. Rispetto ai vecchi calcolatori era migliaia di volte più veloce. Il tipo di architettura era sequenziale, cioè il computer obbediva alle teorie del calcolo automatico del matematico americano John Von Neumann. Le parole venivano scomposte in lettere e le lettere venivano identificate dalla macchina attraverso numeri in codice, così come ogni simbolo grafico e ogni operazione da eseguire. Allo stesso modo ogni problema, per quanto complesso, era frantumato in una miriade di piccoli problemi elementari che il calcolatore risolveva uno dopo l’altro fino alla risposta finale.
Il fatto che le orbite dei pianeti si trovassero tutte su un medesimo piano faceva supporre che il sistema solare si fosse formato durante un unico evento poiché tale simmetria non era compatibile con il susseguirsi di eventi successivi nel tempo.
Dopo una serie di ipotesi non risolutive, nel periodo compreso tra il ‘43 e il ‘46 uno studioso tedesco, Carl Friedrich von Weizscker, riprendendo un’idea che era stata di Immanuel Kant ipotizzò che tutto fosse nato da una nebulosa. Il procedimento sarebbe stato il seguente: la contrazione della nebulosa causata dalla forza di gravità avrebbe formato il sole; da quel momento in poi il movimento delle particelle del gas nebuloso avrebbero assunto comportamenti diversi muovendosi alcune velocemente (quelle centrali), altre più lentamente (quelle esterne). Nelle zone più periferiche del sistema alcuni vortici avrebbero dato luogo ad altri vortici, che determinavano aggregazioni ulteriori di materia: cioè i pianeti coi loro satelliti.
Nel 1948 si ebbe allora la nascita di un immaginario collettivo intorno alla “nascita del sistema solare” che si sviluppava attorno a due opposte teorie: quella del big bang e quella dello “stato stazionario”. La prima era stata già accennata dagli studi di Lemaitre e si basava sull’idea di una grande conflagrazione iniziale. Altri due studiosi la ripresero e la elaborarono, George Gamow e Ralph A. Alpher; essi supposero che dopo un “grande scoppio” sarebbero stati emessi neutroni, dai quali sarebbero derivati i protoni e l’idrogeno e poi l’elio e a seguire tutti gli elementi presenti nell’universo.
Hermann Bondi, Fred Hoyle, Thomas Gold furono i fautori dell’altra teoria; essi partivano dalla supposizione della stasi assoluta: così era l’universo in origine e così rimarrà in futuro; sebbene al suo interno le galassie si allontanino, le stelle mutino e muoiano. Essi conciliavano immobilità con mutamento attraverso l’idea di “creazione continua” di materia nell’universo: opponendosi al principio della termodinamica secondo cui nulla si cera e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma essi affermavano che nell’immutabilità vi fosse comunque produzione di materia.
Nel 1947, volando sull’aviorazzo Bell X-1, l’aviatore americano Charles Yaeger superò per la prima volta al mondo la barriera del suono, a 1610 km orari. Il motore a razzo venne sviluppato ed usato per i voli stratosferici. Il velivolo con tale tipo di motore porta con sé il carburante e il comburente, ossigeno o altre sostanze capaci di alimentare la combustione.
Si denomina “numero di Mach”, dal nome del fisico Ernst Mach che per primo si occupò dei motori supersonici, il rapporto tra la velocità dell’aereo e la velocità del suono nell’aria attraversata dall’aereo stesso. Per esempio, Mach 1 significa che la velocità dell’aereo è uguale a quella del suono, Mach 2 la velocità dell’aereo è il doppio della velocità del suono.
Nel 1956 l’americano Franck Everest volò su un aereo razzo raggiungendo la velocità di 3200 km orari.
Dal 1906, grazie al lavoro di Lee de Forest, le valvole entrarono nell’uso comune come mezzi per convertire la corrente alternata in corrente continua e per amplificare un segnale elettronico e, negli anni successivi, sempre più perfezionate. Alla Fiera Mondiale del 1939 le valvole erano addirittura impiegate per i primi prototipi di televisione. Nel 1946 quando il primo computer (ENIAC) fu costruito, furono usate più di 17.000 valvole. Anche se ebbero successo, sia l’ENIAC che i computer di seconda generazione mostrarono i limiti delle valvole: per avere computer più potenti, si necessitava di più valvole, ma queste usavano troppa energia, erano fragili, tendevano a surriscaldarsi ed occupavano troppo spazio.
La compagnia di telefonia americana Bell, nel 1945, istituì un gruppo di ricerca che trovasse il modo di scoprire semiconduttori che sostituissero le valvole. Il gruppo era guidato da William Bradford Shockley e includeva Walter Houser Brattain, John Bardeen e altri fisici che avevano lavorato alla teoria quantistica dei solidi. Dopo due anni di ricerche Bardeen e Brattain crearono un circuito amplificatore che sembrava funzionare, usando il germanio. Nel 1951 Shockley migliorò quest’idea originale con un transistor di giunzione. Il transistor era un solido, ma aveva le proprietà elettriche di un tubo a vuoto, in più era di basso costo, piccolo e usava poca energia. La Bell cominciò ad autorizzare l’uso dei loro transistor brevettati, implementando la loro diffusione nell’industria.
Il primo transistor fu usato per dispositivi uditivi ed in seguito per le radio e per l’industria dei computer.
Nel 1940 Martin Kamen scoprì un isotopo radioattivo del carbonio, il carbonio-14, e trovò che aveva un tempo di dimezzamento pari a circa 5700 anni. Gli scienziati avevano anche scoperto che parte dell’azoto presente nell’atmosfera si modificava in carbonio-14, quando veniva colpito da raggi cosmici. Si raggiungeva così un equilibrio nella sostituzione tra il carbonio-14 appena formato e il carbonio 14 che decadeva, così che ne rimaneva sempre una piccola quantità nell’atmosfera.
Nel 1947 il chimico americano Willard Libby (1908-1980) capì che le piante trattenevano una parte di carbonio-14 quando assorbivano il carbonio nel processo di fotosintesi. Una volta che la pianta moriva, non poteva più assorbire carbonio di alcun tipo e il carbonio-14 che conteneva decadeva al suo tasso usuale senza essere sostituito. Calcolando la concentrazione di carbonio-14 presente nei resti di una pianta, era così possibile calcolare da quanto tempo la pianta era morta. Con questa tecnica gli scienziati hanno potuto determinare l’età di oggetti contenenti resti vegetali, come legno, pergamena e tessuti anche di 45.000 anni fa. Questo metodo ha permesso la datazione delle mummie egiziane, dei ritrovamenti preistorici e di altri scavi archeologici. Per i suoi studi sulla datazione con il carbonio-14, Libby ha ricevuto il premio Nobel per la chimica nel 1960.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’esistenzialismo emerse come uno dei riflessi più fedeli e come una delle manifestazioni più autentiche della situazione di profondo disorientamento ed incertezza che stava vivendo la società e la cultura europee, segnate profondamente dalle distruzioni materiali e spirituali della guerra e avviate ad un processo di difficile ricostruzione, soprattutto in ambito morale ed etico. La cosiddetta “letteratura esistenzialistica”, che vede in Jean-Paul Sartre il suo principale interprete, rappresenta il trait d’union tra la situazione contingente e le forme concettuali del pensiero esistenzialista che erano state elaborate nei due decenni precedenti. Si trattava di una letteratura volta in primo luogo a descrivere le situazioni umane che recano più visibili tracce del carattere radicalmente problematico dell’uomo stesso, sottolineando perciò le vicende più meschine e meno rispettabili, dolorose o peccaminose, l’incertezza della progettualità (buona e cattiva), l’ambiguità infine del bene stesso che talvolta sfocia nel suo esatto contrario. Sono tematiche che ricorrono anche nell’opera di Simone de Beauvoir, nonché in quella, molto forte ed originale, di Albert Camus (1913-1960): egli, ne Il mito di Sisifo (1943), ha visto nell’eroe mitologico l’emblema del carattere assurdo dell’esistenza umana, sospesa tra l’infinità delle aspirazioni e la finitezza delle possibilità, e culminante nella vanità di tutti i suoi sforzi. Nel successivo L’uomo in rivolta (1951) descrisse nei suoi vari aspetti la “rivolta metafisica” intesa come “il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione e contro l’intera creazione”. L’uomo in rivolta è il simbolo di un nuovo individualismo per il quale il “noi siamo” sta a significare la difesa della comune dignità umana; una difesa che d’altra parte respinge qualsiasi ipotesi di matrice assolutistica.
Per quanto riguarda due dei principali esponenti del pensiero esistenzialista prebellico, va sottolineato che né l’ontologia di M. Heidegger né la filosofia della fede di K. Jaspers possono essere ricondotte nei quadri del pensiero esistenzialistico, pur presupponendone o utilizzandone motivi e conclusioni.
L’esistenzialismo di Sartre (1905-1980) rappresenta il fenomeno tipico del periodo seguente la seconda guerra mondiale. Egli è stato un autore eclettico e poligrafo, spaziando in molteplici generi letterari, dal saggio filosofico a quello letterario, dal romanzo (L’età della ragione, 1945; La morte nell’anima, 1949; La nausea, 1938) al teatro (Le mosche, 1943; A porte chiuse, 1945; Le mani sporche, 1948), dal pamphlet politico (L’antisemitismo, 1946) alle opere di impianto squisitamente filosofico (L’immaginario, 1940; L’essere e il nulla, 1943; L’esistenzialismo è un umanismo, 1946). Nella sua infaticabile attività di pensatore, se inizialmente riprende dalla fenomenologia di Husserl l’idea di intenzionalità della coscienza, ne nega, però, recisamente i presupposti soggettivistici insiti in questo concetto: il mondo non è riducibile all’attività e ai meccanismi di funzionamento della coscienza. Essa è sì apertura al mondo, tuttavia quest’ultimo non è riducibile all’esistenza e se l’uomo non riesce a trovare più alcun scopo, allora il mondo stesso diviene privo di senso. L’esperienza della nausea svela appunto il carattere gratuito della realtà e dell’uomo ridotto a cosa e sommerso nelle cose: la coscienza, che rappresenta il “per-sé”, sta di fronte alla realtà, all’“in-sé”, come possibilità, e la possibilità non è realtà. La coscienza è dunque piena libertà. Infatti l’uomo, una volta gettato nella vita, è responsabile di tutto ciò che fa, del progetto fondamentale, vale a dire della sua vita: egli si sceglie, la sua libertà è incondizionata e l’esperienza che ne fa genera angoscia, perché l’uomo costituisce l’essere per cui tutti i valori esistono. Ne L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre riafferma non soltanto la completa libertà dell’uomo, “demiurgo” del suo avvenire, ma anche la sua totale responsabilità e il suo essere-per-altri, che implica una pariteticità tra la libertà del singolo e quella degli altri.
Molto attento agli sviluppi degli studi della psicologia scientifica, in particolare del comportamentismo, e della biologia, Merleau-Ponty (1908-1961) pose come tema centrale della propria riflessione il rapporto tra coscienza e mondo. Nell’arco delle sue opere (La struttura del comportamento, 1942; La fenomenologia della percezione, 1945; Umanesimo e terrore, 1947; Senso e non senso, 1948; Le avventure della dialettica, 1955; Segni, 1960) egli ha delineato un rapporto di opposizione funzionale (non sostanziale) tra anima e corpo, in quanto lo spirito non utilizza il corpo, come vorrebbe lo spiritualismo, ma si fa attraverso di lui. Una relazione analoga intercorre tra uomo e mondo: l’uomo non è infatti soggettività oziosa, sguardo disinteressato, è invece presenza attiva nel mondo e verso gli altri. La percezione delimita e costituisce il mondo intersoggettivo (nella cui analisi diventa centrale il concetto di corpo): essa apre sempre nuovi angoli di visuale, lasciando il significato delle cose e del mondo stesso in continuo mutamento e permanente ambiguità. Diversamente da Sartre, Merleau-Ponty, che non condivideva né il rilievo accordato dalla psicoanalisi alla sessualità né dal marxismo all’economia, colloca l’uomo in uno stato di libertà condizionata dal mondo in cui vive e dal passato che ha vissuto, poiché l’uomo ha una sua struttura psicologica e storica e poiché è mescolato in modo inestricabile al mondo. Un mondo che è ben lungi dall’esser dominato dalla legge dialettica: esso è invece un sistema aperto ed incompiuto, sostanzialmente contingente.
Dopo la chiusura della sede francofortese, l’Istituto per la ricerca sociale si era trasferito prima a Ginevra poi a Parigi; ma lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’occupazione della Francia decretarono il definitivo trasloco a New York, dove l’Istituto venne collegato alla Columbia University, con il nome di International Institute for social research. Nonostante l’uscita di soli quattro numeri della rivista dell’Istituto, cessata nel 1941, fu proprio negli Stati Uniti, a contatto cioè con la punta più avanzata del capitalismo internazionale, che nacquero le opere più rilevanti della Scuola. Dopo il conflitto, alcuni esponenti o ex-esponenti (Adorno, Horkheimer e Pollock) hanno fatto ritorno in Germania, dove realizzarono nuovamente l’Istituto, nella cui atmosfera si è formata una nuova generazione di studiosi, tra i quali Alfred Schmidt, Oskar Negt e, soprattutto, Jürgen Habermas.
La riflessione di Adorno (1903-1969) è stata profondamente influenzata da quella di Benjamin e, soprattutto, di Horkheimer, assieme al quale redasse la Dialettica dell’Illuminismo (1947), lasciando una produzione, ricchissima e varia, che spazia dalla filosofia alla critica letteraria, dalla musica alla sociologia, dall’estetica alla critica dell’ideologia (tra le opere Filosofia della musica moderna, 1949; La personalità autoritaria, 1950; Minima moralia, 1951; Tre studi su Hegel, 1963; Dialettica negativa, 1966). Il tratto comune che attraversa l’intera produzione di Adorno è costituito dal rifiuto di un approccio sistematico e dalla costante polemica nei confronti di ogni forma di dialettica “positiva”. Questo rifiuto di concepire la realtà come un apparato razionale, connesso alla denuncia della disgregazione e disomogeneità dell’universo sociale contemporaneo, spiega la sua predilezione per la scrittura frammentaria, da lui definita “micrologia”, che trova la sua massima espressione in Minima moralia. Riguardo ad Hegel, col cui pensiero intrattenne un rapporto costante e conflittuale, Adorno optò per il contenuto “negativo” della dialettica proprio della Fenomenologia dello spirito, rifiutando gli aspetti sistematici contenuti nella Logica e nella Filosofia del diritto: egli puntava, infatti, sulla dialettica che nega l’identità tra realtà e pensiero e che fa venir meno la pretesa filosofica di afferrare la totalità del reale e di afferrarne il senso nascosto. Più in generale, la sua critica si indirizzava verso le filosofie positive (oltre all’idealismo, il positivismo, il marxismo ufficiale, l’illuminismo, la fenomenologia), accusate di trasformarsi in ideologie normative e prescrittive: dopo la tragedia di Auschwitz, sosteneva Adorno, è solo affermando la non identità di essere e pensiero che sarà possibile smascherare i tentativi “eternizzatori” delle filosofie positive. Il compito della dialettica negativa è proprio quello di scombinare le false sicurezze, di compiere la rivolta dei “particolari” contro i “cattivi universali”, poiché il singolare non si fa ingabbiare nella rete di un sistema. Un altro passaggio fondamentale dell’elaborazione adorniana è l’analisi della cosiddetta industria culturale, figlia dell’odierna società tecnologica. Infatti, il potere dei mass-media di imporre valori e modelli di comportamento (che, in quanto destinati a tutti, devono bloccare la creatività e appiattire le differenze) trova nei campi del divertimento e del tempo libero una delle sue paradigmatiche manifestazioni. Questi ultimi, infatti, non sono più i luoghi della libertà, della gioia, della genialità, bensì regolati dai tempi dell’industria culturale, la quale non trasmette un’ideologia, ma è l’ideologia stessa.
Pur incanalandosi verso il marxismo e la filosofia critica della società, il pensiero di Marcuse (1898-1979) risente fortemente, soprattutto nel periodo giovanile, dell’influenza esercitata da Heidegger durante gli studi all’università di Friburgo: egli, infatti, intendeva fondare l’azione rivoluzionaria del proletariato attraverso un concetto di esistenza autenticamente storica, così com’era stata individuata da Marx e ripresa da Heidegger. Fino alla seconda guerra mondiale l’elaborazione marcusiana si indirizzò verso un recupero in chiave non conservatrice del pensiero hegeliano, in particolare del contenuto “negativo”, nel senso già individuato da Adorno, della dialettica. Dopo il conflitto egli operò un significativo innesto sul filone seguito fino ad allora, sviluppando in Eros e civiltà (1955) uno dei temi più importanti del pensiero di Freud, cioè la teoria secondo cui la civiltà si basa sulla permanente repressione degli istinti umani: tuttavia, mentre Freud concepiva come eterna ed insolubile la contrapposizione tra principio del piacere e principio della realtà, centrale nella fondazione della cosiddetta “civiltà”, Marcuse lo interpretò come portato di una specifica organizzazione storico-sociale, cioè la società industriale e tecnologica. In funzione critica egli recuperò il valore di verità della memoria, che non termina nella riconciliazione col presente, ma nella riconciliazione tra natura e civiltà, nell’affermazione di Eros liberato, nella gioia della praxis svincolata dal lavoro mercificato. Quest’ultimo è al centro de L’uomo a una dimensione (1964), dove Marcuse delineò i tratti di una società e di una cultura come quelle attuali, dominate dall’erosione di ogni spazio e spirito critico, dalla progressiva repressione di ogni progetto realmente alternativo, dalla riduzione di ogni aspetto dell’esistenza ad un universo tecnologico oramai indipendente ed autonomo (basato sull’organizzazione della natura come mero oggetto di sfruttamento) che produce e distrugge, sotto forma di apparente libertà, ogni fenomeno ridotto a merce, e che, in sintesi, annulla ogni possibilità di “pensiero negativo”.
Ludwig Wittgenstein
Attraverso l’intenso sforzo speculativo che culmina nelle Ricerche filosofiche (parte I, 1945; parte II, 1948-1949), Ludwig Wittgenstein si allontanava dalle conclusioni del Tractatus logico-phliosophicus e concretizzava una sua nuova prospettiva filosofica. Particolarmente rilevanti ai fini di questa rielaborazione sono stati la riflessione sulla matematica intuizionistica, i frequenti colloqui con F. P. Ramsey sulla logica e sui fondamenti della matematica, nonché, e non meno importante, l’esperienza di insegnamento nelle scuole elementari che lo mise a diretto contatto con il linguaggio dei bambini. Nasce, infatti, la concezione del linguaggio come forma di vita, come attività, e i cosiddetti “giochi di lingua” non vengono introdotti a fini regolamentativi, bensì come funzioni linguistiche alternative che, tramite somiglianze e dissomiglianze, descrivono l’uso delle parole in una forma di vita, in un contesto di comportamenti e di operazioni umane. È evidente la distanza dal precedente atomismo logico di ascendenza russelliana, così come dal mentalismo, che avevano generato numerosi dubbi derivati dall’analogia delle parole col mondo degli oggetti. Wittgenstein respingeva così l’essenzialismo basato su sostanze immutabili che starebbero dietro ai concetti, così come la concezione di purezza della logica: il concetto passa adesso a designare una famiglia di somiglianze. Il linguaggio viene dunque regolato secondo il principio d’uso, vale a dire che l’utilizzo fonda la dimensione semantica.
Definito a più riprese come esponente del neopositivismo, in realtà Karl Popper si è notevolmente distanziato dalle linee di fondo sia del Wiener kreis, sia della filosofia analitica di Cambridge e di Oxford. Innanzi tutto ha esattamente rovesciato il metodo euristico proprio del neopositivismo, vale a dire il principio di verificazione (che è un principio di significanza), puntando invece sul criterio di falsificabilità (che è invece un criterio di separazione tra scienza e non-scienza). Inoltre sostituì alla teoria dell’induzione il metodo deduttivo della prova, affermò che le asserzioni protocollari non erano di natura assoluta e definitiva, respinse le pretese antimetafisiche dei neopositivisti, fornendo anzi delle interessanti riletture di filosofi come Platone e i presocratici, questi ultimi visti come fondatori della tradizione di discussione critica. Tra le sue opere principali in questi ambiti si possono annoverare Logica della scoperta scientifica (1935), Congetture e confutazioni (1963) e Conoscenza oggettiva (1972).
Un’altra parte non meno importante della riflessione popperiana si incentra sulla critica alle fondamenta della teoria storicista. Egli, infatti, partiva dalla confutazione del metodo dialettico in quanto principio scientifico, poiché quest’ultimo non implica né una produzione necessaria della sintesi, né una altrettanto necessaria conservazione in essa della tesi e dell’antitesi. In definitiva la dialettica, secondo Popper, privata delle sue pretese scientifiche, risulta tautologica e giustificatrice dell’esistente in quanto tale. Nella sua fondamentale opera, Miseria dello storicismo (1945), egli sosteneva l’unità del metodo scientifico nelle scienze naturali e nelle scienze sociali, contro la separazione propugnata dallo storicismo. Popper, infatti, asseriva che la storia in sé non ha alcun senso né tantomeno leggi, fatta eccezione per quelle che l’uomo stesso le conferisce. Ne La società aperta e i suoi nemici (anch’essa del 1945), Popper attaccava lo storicismo in quanto ideologia reazionaria, sostenitrice di una “società chiusa” e nemica, appunto, della “società aperta”. Una società chiusa che egli definiva come tendenzialmente totalitaria, contrapposta ad un regime di democrazia nel quale le istituzioni vengano continuamente perfezionate tramite la partecipazione attiva dei cittadini.
Emmanuel Mounier, francese, fondò la rivista “Esprit” ed elaborò il programma del movimento personalista nel 1935 stampando il volume Rivoluzione personalista e comunitaria. Durante la seconda guerra mondiale, arrestato e imprigionato, fu costretto ad interrompere i suoi studi per riprenderli nel secondo dopoguerra. Egli poneva al centro della riflessione teorica la persona che non era costituita dai personaggi che ciascuno era stato in passato, non coincideva con la personalità, non era la coscienza che si ha della propria persona. La persona per Mounier è descritta da tre dimensioni: vocazione, incarnazione e comunione e per questo è inoggettivabile, è incarnata in un corpo e nella storia ed è comunitaria. Il personalismo intende così affrontare i problemi umani in tutti i loro aspetti, a partire dalla condizione materiale più umile fino alla spiritualità più elevata. Ma personalismo non coincide con individualismo, che anzi Mounier condannava apertamente, così come condannava il capitalismo ed anche il marxismo. Il capitalismo che vede il suo primato nel profitto è nemico del lavoro della persona e consacra l’avere surclassando l’essere; egli auspicava invece una “gestione personale e uso comune” dei beni. Ma anche il marxismo veniva da lui respinto, in primo luogo perché figlio del capitalismo (anche se figlio ribelle), e in secondo luogo perché sostituisce al capitalismo il capitalismo di Stato, dà vita a regimi totalitari, e perché implica un pessimismo radicale della persona. La società che Mounier descriveva era perciò personalistica e comunitaria che si fondava sull’amore e sulla comunione e, sebbene irrealizzabile, poteva fungere da criterio di giudizio e da strumento regolatore per i mutamenti politici.
Sia nella sua attività durante la Repubblica di Weimar, sia in quella del periodo dell’emigrazione antinazista, sia nell’altra seguita al conflitto mondiale e svoltasi negli Stati Uniti, Franz Neumann fu ispirato costantemente dalla necessità di fornire risposte agli interrogativi posti dallo specifico sviluppo sociale, economico e politico intrapreso dalla Germania. In particolare il suo Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, pubblicato nel 1942 in piena guerra, fornisce una delle interpretazioni in chiave marxista del fenomeno nazista meno schematiche e più ricche di spunti e suggestioni: in esso si fondono, infatti, l’analisi socio-economica basata sulla dinamica dei rapporti tra le classi, l’attenzione per le trasformazioni istituzionali, la centralità attribuita al ruolo delle masse e della loro manipolazione. Le direttrici su cui si muove l’analisi di Neumann sono due: innanzi tutto, i caratteri dell’imperialismo nazista, in secondo luogo l’incompatibilità tra imperialismo e regime democratico. Il primo viene definito come “imperialismo razziale”, nel quale convergono non soltanto i cromosomi aggressivi e razzisti del nazismo, ma anche la collusione bellicista tra socialdemocrazia, sindacati e governo del Reich che risale all’inizio del primo conflitto mondiale e che, per l’effetto catalizzatore della crisi del ‘29 e del disfacimento del movimento operaio, contribuì fortemente alla cattura delle masse da parte del nazionalsocialismo. Riguardo a questo, lungi dal fermarsi alla teoria della coercizione e del capro espiatorio, egli sottolineava l’importanza della trasposizione in termini nazisti di elementi e simboli della tradizione socialista, come la contrapposizione della “razza proletaria” alla democrazia pluto-giudaica. In secondo luogo, dall’analisi della struttura dell’economia tedesca derivava l’affermazione dell’incompatibilità tra imperialismo e democrazia: la distruzione, in altre parole, del regime democratico rappresentava una necessità, non solo per riaffermare i diritti e le leggi del profitto dei grandi gruppi monopolistici, ma proprio per realizzare quella convergenza nell’espansione imperialista degli interessi del nazionalsocialismo e del big bussiness. Neumann, infatti, fu tra i primi a sottolineare come la funzione svolta dallo stato come promotore dello sviluppo economico e dell’avanzamento tecnologico, soprattutto durante la preparazione alla guerra, non comportò nessun mutamento nella struttura della proprietà dei mezzi di produzione.
Nonostante la precocità, lo studio di Neumann rappresenta, ancora oggi, una delle analisi più puntuali, acute e pregnanti che siano state prodotte sul fenomeno nazionalsocialista.
Il doppio stato fu scritto nel 1941 negli Stati Uniti da Ernst Fraenkel, ebreo, costretto all’emigrazione nel 1938. La sua analisi dello stato nazista si basa sull’elaborazione teorica centrale che è “lo stato d’eccezione”. Egli affermava, infatti, che lo stato di diritto (cioè lo Stato in cui il potere politico, limitato e regolato da norme giuridiche, si esprime sostanzialmente nell’emanazione di norme generali) viene sostituito da uno “stato d’eccezione” nel quale i detentori del potere si sentono autorizzati a non rispettare le norme generali e ad esercitare abitualmente il potere mediante provvedimenti scaturiti di volta in volta dalla singola opportunità. Se la dottrina giuridica riconosce il principio secondo il quale, in determinati casi eccezionali, il potere politico ha la facoltà di sospendere le garanzie costituzionali e operare “nell’eccezionalità”, non fa altrettanto un potere che agisca richiamandosi costantemente allo stato d’eccezione. Il potere nazista contrappose perciò allo stato di diritto uno stato d’eccezione nel quale il rapporto tra politica e diritto era completamente rovesciato. Il “doppio stato” si riferisce però al fatto che il nazismo, pur avendo esteso lo stato di polizia governando sulla base dell’eccezione, non abolì del tutto lo “stato normativo” perché risultava funzionale al sistema economico capitalistico che per sopravvivere necessita di un sistema legale che gli garantisca la continuità e l’esistenza a lungo termine della proprietà, della libertà di impresa e dell’iniziativa economica, così come della regolarità della concorrenza o dell’inviolabilità dei contratti. Egli rilevava, dunque, come nel nazismo il diritto pubblico fu sottoposto al dominio dello stato eccezionale o discrezionale mentre il diritto privato fu sottratto all’arbitrio del potere politico e veniva ancora regolato dallo stato normativo: salvo per quello che riguardava il diritto privato degli ebrei che era invece sottoposto allo stato d’eccezione.
Hans Kelsen, austriaco, nei suoi studi sul valore e l’essenza della democrazia affermò che per avere una democrazia “reale” sarebbero stati necessari numerosissimi capi e nella pratica un parlamento che comprendesse tutti i partiti e che esprimesse la volontà nazionale. Egli riconosceva la più grande legittimità ai partiti mentre dall’altro lato riteneva che l’elezione diretta del presidente costituisse una premessa per un regime autocratico, poiché la gerarchia di funzionari che sarebbe derivata dal vertice presidenziale avrebbe fatto smarrire il valore di rappresentanza della volontà nazionale e soprattutto la possibilità di controllo su coloro i quali si fossero presentati come la legittima incarnazione della volontà nazionale. Egli riteneva, inoltre, che con l’affermarsi del sistema proporzionale gli elettori organizzati in partito politico avrebbero potuto esercitare un controllo sull’azione dei deputati. Il suo pensiero, che fu piuttosto isolato nell’ambito del pensiero giuridico tedesco in quegli anni, prendeva le mosse dalla compartecipazione e dalla condivisione di tutti i membri della nazione della volontà politica. Nel dettaglio, egli affermava che dal momento che la nazione nasceva dalla condivisione di una lingua, di un territorio, di costumi comuni, anche il sentirsi membri di un’unica comunità politica dovesse derivare dalla compartecipazione alla formazione della volontà politica e non dalla sola creazione di un organo che fosse depositario di questo potere.
Ernesto Codignola (1885-1965) si formò alla scuola gentiliana e collaborò, proprio con Giovanni Gentile, alla riforma della scuola del 1923. Dopo la firma dei Patti Lateranensi si allontanò dall’idealismo e fu costretto ad interrompere i suoi studi in quanto antifascista. Nel 1944 fondò la Scuola-città Pestalozzi a Firenze nel quartiere di Santa Croce dando vita ad un progetto scolastico sperimentale e profondamente democratico. Intento di base della Scuola-città era l’educazione dei ragazzi sia come studenti sia come cittadini, per questo alle attività più propriamente didattiche si affiancavano nella scuola tutta una serie di attività collaterali che prevedevano la partecipazione diretta degli alunni. Più in particolare, e da qui deriva il suffisso “città”, la scuola - nella quale vigeva il tempo pieno - aveva al suo interno la mensa, la biblioteca, l’orto, l’infermeria alla cui gestione partecipavano in maniera diretta gli insegnati, gli impiegati e gli studenti. Sempre rifacendosi alla “città”, e al fine di far apprendere ai più giovani i valori della convivenza democratica, all’interno dell’istituto scolastico erano stati creati una giunta e una corte d’onore, attraverso le cui decisioni collegiali si regolava la vita scolastica o si interveniva sulle infrazioni. Nel progetto iniziale del fondatore c’era la speranza di estendere l’esperienza della scuola Pestalozzi ad altri quartieri; l’istituto di Santa Croce rimase, invece, l’unico ma costituisce ancora oggi un modello scolastico all’avanguardia.
Tra gli anni Trenta e i Cinquanta diversi studiosi intervennero alla definizione della psicologia comportamentista: Tolman, nel 1932, affermò che i comportamenti umani ed animali non rispondono solo a uno schema meccanico di stimolo e risposta, ma piuttosto fanno parte di una catena di azioni che ha degli scopi ben precisi. Hull, fondatore insieme ad alcuni collaboratori, della Scuola antropologia di Yale, parlò di “spinta motivazionale”. Ma il più battagliero esponente del comportamentismo è Burruhus F. Skinner il quale opponendosi a Tolman rifiutava di pensare che i comportamenti siano legati all’aspettativa di un certo fine; in Il comportamento degli organismi (1939) egli scrisse che non si possono considerare “comportamento” tutte le attività di un organismo, ma solo quelle che creano un rapporto col mondo circostante. Egli parlava, infatti, di “comportamento operante” intendendo individuare proprio che il comportamento umano interviene sull’ambiente e produce delle conseguenze.
Nell’opera Walden two del 1948 provò ad applicare i principi comportamentisti ai progetti di riforma sociale, descrivendo una comunità ideale un cui le persone vivono una “vita ideale”. La sua “utopia” sulla società è stata duramente criticata da quanti vi rintracciavano caratteri dittatoriali e quanti rilevavano che le manipolazioni del comportamento, come le immaginava Skinner, avrebbero prodotto un’oppressione totale su persone affaccendate e indotte a credere d’essere felici.
Ludwig von Mises assunse su di sé, nel 1919, il compito di impedire una rivoluzione bolscevica a Vienna e il suo pensiero definisce proprio l’impraticabilità del socialismo. Egli riteneva che ogni azione umana sia cosciente e responsabile, e che gli individui agiscano perché insoddisfatti, per intervenire, cioè, a produrre un cambiamento e rimuovere quelli che riconosce come disagi. Egli, di fatto, attribuiva l’azione umana a singoli individui e affermava che nel mondo ci sono solo individui e che le entità collettive quali lo stato, il popolo, la nazione esistono solo nelle azioni dei singoli individui. Per indagare i fenomeni sociali egli partiva perciò proprio dagli individui, contrariamente ai “collettivisti” che sostenevano che la persona è un’astrazione e che i concetti collettivi corrispondono a realtà sostanziali. Secondo von Mises il collettivismo presuppone il sacrificio della propria libertà in nome di superiori “forze storiche”, mentre egli riteneva che le azioni sociali siano frutto delle azioni dei singoli individui e che tendano al raggiungimento del proprio diretto benessere. Ciò su cui Mises si interrogò ripetutamente riguardava la strada da percorrere per soddisfare il maggior numero di persone: l’economia di mercato o l’economia pianificata e centralizzata? Egli riteneva che il socialismo fosse del tutto inadeguato alla realizzazione del benessere e della libertà mentre era perfettamente adeguato il capitalismo, poiché, nel socialismo la centralizzazione dei mezzi di produzione fa sì che le autorità detengano sia i mezzi sia i “fini”, mentre nella società capitalistica i “fini” sono nelle mani di chi detiene i mezzi di produzione e dei consumatori. Egli considerava capitalismo e democrazia profondamente interconnesse tanto da dire che la società capitalistica è “la democrazia dei consumatori”: il consumatore può dare sfogo ai propri desideri, in quanto il mercato è il regno della libertà, e la proprietà privata dei mezzi di produzione fonda la libertà stessa dei cittadini.
Fu discepolo di von Mises e come lui fondò il suo pensiero sull’opposizione di individualismo e collettivismo: anche secondo lui ad agire sono sempre gli individui, e le entità collettive non devono essere trattate dalle scienze sociali come “insiemi”, o come oggetti dati e compiuti una volta per tutte, poiché sono solo teorie provvisorie e modelli costruiti per dare una spiegazione a quello che vediamo. Anch’egli esaminò la funzionalità dei sistemi economici socialisti, e perciò centralizzati. Egli affermava che la pianificazione economica centralizzata non è adeguata a centralizzare tutte le conoscenze e nemmeno a pianificare gli sviluppi futuri delle conoscenze, e che solo il decentramento le può utilizzare al meglio basandosi sostanzialmente sul sistema di comunicazione dei prezzi che riesce a dare informazioni essenziali in modo rapido. I prezzi indicano alle persone quale sia la giusta direzione verso cui muoversi, quali siano le materie di cui c’è scarsità, quali siano i beni di valore, e lo scambio di idee permetterà di risolvere al meglio i problemi che di volta in volta si presentano. Per questo motivo il liberalismo è l’unica filosofia veramente “scientifica” mentre il socialismo è superstizione in quanto i socialisti presumono di sapere programmare la società che invece, a suo parere, non è programmabile perché nessuno può conoscere in anticipo i meccanismi messi in moto dal mercato.
Simone de Beauvoir si allontanò intorno ai vent’anni dalla famiglia e contemporaneamente dalle tradizioni in cui era cresciuta, cominciando ad elaborare il suo originale contribuito all’emancipazione delle donne. Nei suoi primi romanzi (L’invitata, I mandarini) la tematica è presente, anche se non chiaramente esplicitata come lo sarebbe stata nei romanzi autobiografici (Memorie di una ragazza per bene, La forza delle cose, L’età forte) e nel saggio teorico Il secondo sesso nel quale essa adottava come riferimento filosofico l’esistenzialismo sartriano. Simone de Beauvoir, ne Il secondo sesso, analizzò la condizione della donna dalla preistoria al Novecento ricostruendo i “fatti e i miti” del suo destino, cercando di trovare l’origine della sua subordinazione all’uomo; ma non un’origine temporale quanto piuttosto il tipo di modello adottato perché la donna risultasse subordinata all’uomo. Nella seconda parte del libro presentava una serie di esperienze che caratterizzano le fasi della vita delle singole donna (l’infanzia, il matrimonio, la maternità, la prostituzione e così via) e indicava le possibili vie verso la conquista della libertà. Essa affermava che la subordinazione della donna non è insista nello stato delle cose, non è necessaria e la sua origine non è spiegabile con la biologia, o con la psicoanalisi; inoltre, anche la donna è in qualche misura “complice “di questa sua subordinazione. Punto finale del percorso delle donne verso la libertà deve essere, secondo lei, il raggiungimento di un’uguaglianza con gli uomini nella quale le differenze non vengano mortificate ma bensì esaltate e in cui l’autonomia e la libertà della donna come soggetto non escludano però l’esistenza di un rapporto con gli uomini. Proprio per questa affermazione una parte del Movimento delle donne degli ultimi decenni del Novecento ha considerato Simone de Beauvoir moderata o addirittura “conservatrice” poiché non auspicava la separazione del mondo delle donne da quello degli uomini ma la loro convivenza a patto del superamento della subordinazione all’uomo.
Nei primi anni Quaranta, in Italia, Antonio Banfi fondava la rivista “Studi filosofici” che si collocava nell’alveo della filosofia realista, antimetafisica e antiteologica, che destò preoccupazione nei pensatori neoscolastici dell’Università Cattolica di Milano. Il dibattito sull’irrazionalismo e sul razionalismo, nei primi anni Venti, aveva interessato anche Nicola Abbagnano, il quale aveva giudicato insufficienti entrambe le teorie per comprendere la tensione tra la sfera irrazionale e razionale dell’esistenza umana. La filosofia dell’esistenza gli sarà invece utile per infrangere l’estraneità di pensiero e vita, e per considerarli nella loro unità come i termini del problema dell’uomo. Le sue idee sull’esistenzialismo vennero presentate, insieme a Enzo Paci, sulle pagine di “Primato” nel 1943 dando vita ad un dibattito al quale parteciparono Banfi, Della Volpe, Luporini; quest’ultimo era il più giovane tra i partecipanti al dibattito, proveniente dall’area del dissenso al regime della quale facevano parte Vittorini, Pavese Pintor. Gli anni immediatamente successivi alla Liberazione furono anni di libertà sul piano culturale e caratterizzati in primo luogo dalla ricomparsa sulla scena della politica del Partito comunista, e su quella della cultura italiana del marxismo. Dal punto di vista degli studi filosofici venne iniziata nel 1946 l’esperienza laica e di sinistra della “Rivista di filosofia” e di quella, fondata dall’azionista Mario Dal Pra, “Rivista di storia della filosofia”. Tutte riviste che alimentarono il dibattito sia attraverso la ripresa degli studi marxisti sia attraverso il pensiero laico neo illuminista che si ispirava al pensiero scientifico alla logica e alle scienze umane: entrambe del tutto estranee e contrapposte alla tradizione filosofica italiana dell’ultimo ventennio che era l’idealismo gentiliano, filone che pure continua ad essere rappresentato da parte dei gentiliani di sinistra. Non mancano poi le riviste d’ispirazione cattolica, ma mantengono un ruolo piuttosto marginale nel dibattito filosofico, poiché trattano temi interni all’area cattolica senza spingersi oltre quei confini.