Gli Anni Sessanta

1960-69

Cronologia

1960

  • E’ eletto il democratico John Fitzgerald Kennedy, primo presidente cattolico degli Stati Uniti.
  • L’URSS si ritira dalla conferenza di Ginevra sul disarmo.
  • L’inasprimento dei rapporti diplomatici con l’URSS provoca il ritiro dei tecnici sovietici dalla Cina.
  • Incidente dell’U2: un aereo spia americano viene abbattuto mentre sorvola l’URSS. Si irrigidiscono i rapporti tra i due paesi.
  • Nel Vietnam del Sud viene fondato il “Fronte nazionale di liberazione” per la riunificazione.
  • Conquistano l’indipendenza diciassette stati africani: Camerun, Togo, Madagascar, Congo (ex belga), Somalia, Dahomey, Niger, Alto Volta, Costa d’Avorio, Ciad, Repubblica Centroafricana, Congo (ex francese), Gabon, Senegal, Mali (ex Sudan francese), Nigeria e Mauritania.
  • Nel Katanga, una regione del Congo (ex belga), scoppia una rivolta separatista guidata da Ciombé. Il primo ministro Lumumba chiede l’intervento dell’ONU. Il governo di Lumumba è rovesciato da un colpo di stato appoggiato dal presidente della Repubblica Kasavubu.
  • In Brasile, viene proclamata capitale dello stato la nuova città Brasilia.
  • Maggio: gli Stati Uniti sospendono gli aiuti tecnici a Cuba e in ottobre bloccano tutte le esportazioni verso l’isola.
  • In Giappone, violente manifestazioni antiamericane in seguito alla ratifica di un trattato che autorizza gli USA a installare basi militari nel paese.
  • In Iraq iniziano le repressioni contro i Curdi.
  • Maiman costruisce il primo laser a rubino.
  • Jacques Piccard, con il batiscafo Trieste raggiunge, nell’Oceano Pacifico, la profondità di 11.521 metri.
  • Ad Askabad, nel Turkmenistan (URSS), viene costruita una centrale elettrica a energia solare.
  • Gli USA mettono in orbita il satellite meteorologico Tiros I, che invierà immagini televisive della nuvolosità sulla terra, e Echo I, il primo satellite per comunicazioni.
  • Primo impianto di valvole cardiache artificiali (pacemaker).
  • In Francia, A bout de souffle con la regia di Godard è il manifesto della “Nouvelle vague”.
  • Esce Sabato sera, domenica mattina del regista Karel Reisz.
  • Il cinema statunitense propone West side story di Robert Wise, Gli spostati di John Huston con Marilyn Monroe, e Vincitori e vinti di Stanley Kramer.
  • Esce Viridiana di Luis Buñuel, film interamente girato in Spagna.
  • Si diffonde dagli Stati Uniti, il movimento artistico Pop art (Popular art).
  • Nella Germania Occidentale esce Il tamburo di latta di Gunter Grass.
  • Esce Nexus di Henry Miller, ultimo romanzo della trilogia iniziata con Sexus e Plexus.
  • Esce Corri coniglio di John Updike, giovane scrittore statunitense.
  • Esce Il buon compleanno della morte di Gregory Corso, poeta americano della Beat generation.
  • Esce Critica della ragione dialettica di Jean-Paul Sartre.
  • Esce La nascita dell’intelligenza nel bambino di Jean Piaget.
  • Esce L’Io diviso. Studio di psichiatria esistenziale di R. D. Laing.
  • Escono i saggi Altre inquisizioni di Luis Borges.
  • Esce Massa e potere di Elias Canetti.
  • Esce la commedia The caretaker (Il guardiano) di Harold Pinter, esponente della neoavanguardia e del non-sense.
  • Nasce il free jazz. Questa nuova libertà del jazz è legata alle aspirazioni dei neri americani, alla rivendicazione dei diritti civili, al Black power. (Ornette Coleman e John Coltrane, sassofonisti; Don Cherry, tromba).
  • I due maggiori partiti sudafricani, il Congresso Panafricano (PAC) e l’African National Congress (ANC), organizzano una manifestazione nel ghetto nero di Sharpeville per la partecipazione dei neri al governo. La polizia interviene e provoca la morte di 69 persone. Il governo decreta la stato di emergenza e mette fuorilegge i due partiti.
  • Negli USA, a Greensboro, North Carolina, si svolge il primo sit-in contro la segregazione razziale. Alla fine dell’anno, le città in cui si svolgono questi sit-in saranno più di cento. Vi partecipano anche molti studenti bianchi.
  • Il sudafricano Albert John Luthuli, presidente dell’African National Congress (ANC), vince il premio Nobel per la pace per il suo impegno contro l’apartheid.
  • Negli ultimi dieci anni il reddito nazionale è aumentato del 47% in Italia: sono gli effetti del “miracolo economico” che si verifica anche in altri paesi europei.
  • Negli Stati Uniti viene commercializzata la pillola antifecondativa, il primo contraccettivo per via orale.
  • Sirimavo Bandaranaike, nello Sri Lanka, è la prima donna a presiedere un governo.
  • XVII Olimpiade a Roma. Berruti è medaglia d’oro nei 200 piani; la campionissima è Wilma Rudolph detta la “Venere nera”.
  • Ciclismo: Muore Fausto Coppi; Jaques Anquetil vince il Giro d’Italia; Gastone Nencini il Tour de France.
  • Negli Stati Uniti si diffonde la televisione via cavo e nasce la televisione a colori.

1961

  • Gli ultras colonialisti francesi formano l’OAS (Organisation de l’Armèe Secrète) che compie attentati terroristici in Francia e in Algeria.
  • In Congo, a Leopoldville, Lumumba viene fatto uccidere da Ciombè. Scoppia una guerra civile che l’ONU non riesce a fermare.
  • L’Unione Sudafricana esce dal Commonwealth e prende il nome di Repubblica Sudafricana.
  • Rottura dei rapporti diplomatici tra USA e Cuba.
  • In Brasile, diventa presidente Goulart che avvia riforme progressiste incontrando l’ostilità di conservatori e militari.
  • Si chiude la Conferenza interamericana di Punta del Este: gli stati latinoamericani (tranne Cuba) fondano con gli Stati Uniti l’“Alleanza per il Progresso”.
  • A Cuba fallisce il tentativo di sbarco alla Baia dei Porci di esuli anticastristi organizzati e finanziati dalla CIA. Fidel Castro proclama il carattere socialista della rivoluzione cubana.
  • In giugno si riuniscono al Cairo Nasser, Tito e Sukarno e propongono la creazione di un fronte i cui membri sostengano i principi di coesistenza pacifica e non allineamento, diano sostegno ai movimenti di liberazione nazionale, non accettino sul proprio territorio la presenza di basi straniere.
  • 12 aprile: il sovietico Jurij Gagarin è il primo uomo a compiere un volo nello spazio con la capsula Vostok I. Anche il secondo uomo nello spazio, Titov, è sovietico.
  • L’astronomo Sandage identifica la prima radio-stella.
  • Viene individuato il “codice genetico”.
  • In URSS escono Il biglietto stellato di Vasily Aksjonov e il poema contro l’antisemitismo Babyj Jar di Evtusenko
  • Esce Il giorno della civetta del siciliano Leonardo Sciascia.
  • Esce la trilogia Il tempo e il vento del romanziere brasiliano Enrico Verissimo.
  • Esce La morbida macchina del romanziere William Borroughs.
  • Esce Kaddish and other poems di Allen Ginsberg.
  • Nella Germania Occidentale escono Gatto e topo e Anni da cani di Gunter Grass; Congedo dai genitori di Peter Weiss.
  • Esce I dannati della terra del medico, sociologo e scrittore martinicano Frantz Fanon.
  • L’architetto Michelucci progetta la chiesa di San Giovanni Battista sull’autostrada del Sole, nei dintorni di Firenze.
  • A New York, Peter Schumann fonda il Bread and Puppet Theatre, teatro da marciapiede e da corteo.
  • Esce Giorni felici di Samuel Beckett.
  • Escono Elegia per giovani amanti di Hans Werner Henze; War Requiem di Benjamin Britten.
  • Viene fondato il WWF (World Wildlife Fund).
  • Giovanni XXIII promulga l’enciclica Mater et magistra sui doveri di giustizia sociale tra gli uomini.
  • Il governo federale degli Stati Uniti dispone la fine della segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici.
  • In Sudafrica Nelson Mandela, datosi alla clandestinità, fonda il movimento Umkhonto we sizwe (La lancia della nazione).
  • I lavoratori dell’industria costituiscono il 40% della popolazione attiva in Italia, dove è in pieno corso l’inurbamento.
  • Ciclismo: Jaques Anquetil vince il Tour de France.

1962

  • Il Comitato Centrale del PCUS approva la ristrutturazione del partito.
  • Gli accordi di Evian, tra Francia e governo provvisorio algerino, stabiliscono una tregua.
  • 3 luglio: viene proclamata l’indipendenza dell’Algeria che si costituisce in Repubblica popolare democratica con Ferhat Abbas presidente e Ben Bella capo del governo.
  • In Argentina un colpo di stato militare depone il presidente Frondizi e mette fuorilegge il partito peronista e il partito comunista.
  • A Cuba Fidel Castro ottiene assistenza tecnica e militare dall’Unione Sovietica. In ottobre scoppia la “crisi dei missili”.
  • Incidenti di frontiera portano all’invasione cinese dell’India. Le truppe cinesi si ritirano per la minaccia di un intervento russo-americano a favore dell’India.
  • L’americana Carson in Primavera silenziosa denuncia il processo di avvelenamento delle catene alimentari dovuto all’uso indiscriminato degli insetticidi.
  • L’aviorazzo americano X-15 raggiunge la velocità di 6.600 Km all’ora e l’altitudine di 96.000 metri.
  • Gli americani J. Glenn e M. Scott Carpenter sono i primi astronauti a compiere voli spaziali in orbita.
  • La sonda spaziale statunitense Mariner II passa a 30.000 Km da Venere, trasmettendo dati sulla costituzione del pianeta.
  • Gli astronomi Cooper e Price dimostrano l’esistenza di campi magnetici extragalattici.
  • Primo trapianto di fegato.
  • La mostra New realists alla Sidney Gallery di New York consacra il successo della Pop art. Espongono Lichtenstein, Warhol, Wesselman, Dine, Oldenburg, Indiana.
  • Manzù realizza la Porta della morte in bronzo (San Pietro, Roma).
  • In Inghilterra, Anthony Burgess scrive Un’arancia a orologeria, da cui il film di Kubrik L’arancia meccanica.
  • Esce Una giornata di Ivan Denisovic dello scrittore sovietico Aleksandr Solzenicyn.
  • Esce Lunga vita all’uomo dello scrittore statunitense Gregory Corso.
  • Nella Germania Occidentale, esce Il terzo libro su Achim Uwe Johnson.
  • Esce Il pensiero selvaggio di Claude Lèvi-Strauss.
  • Esce Dio è morto di Roger Garaudy.
  • Esce Introduzione alla sociologia della musica del filosofo tedesco Theodor Adorno.
  • Il satellite Telestar I, messo in orbita dalla NASA, permette di fare trasmissioni televisive da una parte all’altra della curva terrestre: nasce la mondovisione.
  • 5 agosto: in Sudafrica viene nuovamente arrestato Nelson Mandela, che trascorrerà in carcere ventisette anni.
  • Ottobre: si apre il Concilio Ecumenico Vaticano II.
  • In Giappone vengono costruiti i primi robot industriali.
  • Suicidio di Marilyn Monroe, a soli trentasei anni, sex-simbol dell’America del dopoguerra.
  • In Italia nasce il settimanale “Panorama”.
  • In Francia nasce il primo fumetto erotico, Barbarella, creato da Jean Claude Forest.

1963

  • 28 febbraio: il presidente americano J. F. Kennedy presenta un progetto di legge per porre fine alla discriminazione razziale.
  • In URSS iniziano le importazioni di grano dall’America.
  • Nasce ad Addis Abeba l’“Organizzazione per l’Unità Africana” (OUA). Vi aderiscono trenta paesi.
  • Nel Congo (ex belga) Ciombé pone fine alla secessione del Katanga concedendo una certa autonomia alla regione.
  • Proclamazione della “Grande Malesia”, federazione indipendente che riunisce quattordici stati.
  • L’americano Sutherland inventa la penna ottica per calcolatori elettronici.
  • Il chirurgo americano De Bakey usa, per la prima volta durante un’operazione sul cuore, la macchina per la circolazione extracorporea.
  • Negli Stati Uniti vengono realizzati denti artificiali in resina sintetica.
  • In URSS entra in funzione il primo tokamak, apparecchio destinato allo studio della fusione termonucleare.
  • In Brasile esce I fucili di Ruy Guerra, rappresentativo del “Cinema nuovo”.
  • In Inghilterra esce il film Tom Jones di Richardson.
  • Negli Stati Uniti il regista Kubrik realizza Il dottor Stranamore.
  • In Italia escono i film Otto e mezzo di Fellini e Il Gattopardo di Visconti.
  • In Italia, escono La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, Lessico familiare di Natalia Ginzburg, La tregua di Primo Levi.
  • A Palermo viene fondato il movimento poetico d’avanguardia “Gruppo 63” (Sanguineti, Pagliarani, Porta, Balestrini, Giuliani).
  • Nella Germania Occidentale esce il romanzo Le opinioni di un clown di Heinrich Böll.
  • Il drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth è al centro di grosse polemiche per il suo dramma Il Vicario, in cui Pio XII è accusato di concorso colposo negli stermini nazisti.
  • Aprile: esce l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII dove condanna la guerra.
  • 20 maggio: la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione razziale. Il presidente Kennedy chiede al Congresso provvedimenti legislativi che tutelino i diritti civili dei neri.
  • Giugno: muore papa Giovanni XXIII. Gli succede il cardinale G. B. Montini col nome di Paolo VI.
  • 25 agosto: Il movimento antirazzista americano guidato da Martin Luther King, promuove una grande “marcia su Washington”, chiedendo l’immediata concessione del diritto al voto, all’istruzione, al lavoro, alla libertà per la popolazione nera. Vi partecipano 250.000 persone. Il presidente Kennedy riceve i dirigenti della manifestazione.
  • Ciclismo: per la seconda volta il francese Anquetil e l’italiano Balmanion vincono rispettivamente il Tour de France e il Giro d’Italia.
  • I Beatles sono in cima alle classifiche inglesi con Please, please me
  • A Dallas, nel Texas, viene ucciso in un attentato il presidente degli USA Kennedy. Il vicepresidente Johnson assume le funzioni di capo dello Stato.

1964

  • Johnson viene eletto presidente degli Stati Uniti per il quadriennio 1965-1968.
  • In URSS, cade Kruscev, accusato di “culto della personalità”. Leonid Breznev diventa segretario del partito, Kossygin primo ministro.
  • La Francia riconosce la Repubblica popolare cinese.
  • In seguito all’incidente del golfo del Tonchino, gli Stati Uniti iniziano i bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord, intensificati negli anni successivi.
  • Il 1° Congresso nazionale palestinese decide la costituzione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).
  • In Congo (ex belga) Ciombé viene nominato primo ministro. A Kisangani i lumumbisti danno vita ad un nuovo moto separatista e costituiscono la Repubblica popolare congolese. Sarà un intervento belga a soffocare la secessione.
  • In Bolivia, con un colpo di stato, va al potere il generale Barrientos che, l’anno seguente, proclama lo stato d’assedio.
  • Gli astronomi inglesi Hoyle e Narlikar formulano una nuova teoria della gravitazione universale.
  • Gli americani Penzias e Wilson scoprono che l’intero universo emette onde radio interpretabili come “rumore fossile” del “Big bang”.
  • Primo trapianto di cornea.
  • In Italia, esce il film Il deserto rosso di Antonioni.
  • Christo Javacheff, scultore bulgaro, esponente del Nouveau rèalisme, esegue Tavolo con oggetto impacchettato.
  • A Praga il poeta Vladimir Holan pubblica Una notte con Amleto.
  • Esce il romanzo Herzog di Saul Bellow.
  • Esce la raccolta di poesie Il predicatore morto dell’americano Le Roi Jones.
  • Esce Nova express dello scrittore statunitense William Borroughs.
  • Esce L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse.
  • Esce Umanesimo socialista di Erich Fromm.
  • Esce Elementi di semiologia di Roland Barthes, critico francese ed esponente dello Strutturalismo.
  • E’ messo in scena da Peter Brook con la Royal Shakespeare Company Marat-Sade di Peter Weiss.
  • 19 giugno: negli Stati Uniti viene approvata la legge sui diritti civili che estende i poteri del governo federale contro la discriminazione razziale. Scoppiano tumulti razzisti, soprattutto negli stati del sud.
  • Agosto: gravi disordini razziali sconvolgono l’America, da Jersey City a Elizabeth, da Chicago a Filadelfia. Nel Mississippi, molti giovani bianchi che aiutano gli elettori neri organizzandoli nel Mississippi Free Democratic Party, vengono contrastati con violenza dalla comunità bianca.
  • Il governo sudafricano approva nuove leggi che inaspriscono l’apartheid: vengono create speciali zone (Bantustans) in cui segregare la popolazione di colore.
  • Martin Luther King riceve il premio Nobel per la pace.
  • XVIII Olimpiade a Tokyo. La fiaccola olimpica è portata da un ragazzo di diciotto anni nato ad Hiroshima pochi minuti dopo lo scoppio della bomba, “il figlio dell’atomica”. Il campionissimo è Don Schollander, americano.
  • Boxe: Cassius Clay batte Liston per la prima volta.
  • Esplode la “beatlemania”: il quartetto di Liverpool ha cinque singoli ai primi cinque posti nella classifica discografica mondiale.
  • La Germania Federale è il primo paese a rendere obbligatorio l’uso di detersivi biodegradabili.

1965

  • Inizio della guerriglia in Israele a opera di Al-Fatah, braccio armato dell’OLP.
  • In Algeria il colonnello Boumedienne prende il potere con un colpo di stato e procede alla nazionalizzazione delle industrie di base, delle miniere, delle banche.
  • Nella Rhodesia del Sud, il primo ministro Ian Smith, fautore della discriminazione razziale, proclama l’indipendenza dalla Gran Bretagna e, con la nuova costituzione, assicura il potere politico solo ai bianchi.
  • Nelle Filippine viene eletto presidente Marcos. Nel paese riprende la guerriglia comunista.
  • Scoppia una nuova guerra indo-pakistana per il controllo del Kashmir. La mediazione dell’ONU ottiene la tregua.
  • In Indonesia un colpo di stato militare costringe Sukarno a lasciare il potere al generale Suharto, che procede all’eliminazione dei comunisti.
  • Nella Repubblica popolare cinese inizia la “rivoluzione culturale”.
  • Gli americani Kurtz e Kemeny elaborano il linguaggio di programmazione Basic per computer.
  • Gli americani Leith, Upnatjecks e Stroke realizzano i primi ologrammi (fotografia tridimensionale) col laser.
  • Il cosmonauta sovietico A. Leonov esce dalla capsula Voskod II e rimane nello spazio per circa venti minuti.
  • Esce Andrej Rublev del regista sovietico Andrej Tarkovskij.
  • Prima esposizione di Op art (Optical art) al Museum of Modern Art di New York.
  • Esce La centrale idroelettrica di Bratskaja del poeta sovietico Eugenij Evtusenko.
  • Esce Il sistema dell’Inferno dantesco di Le Roi Jones, suo primo romanzo.
  • Ultimi discorsi di Malcolm X.
  • Esce Cent’anni di solitudine del colombiano Gabriel Garcia Marquez.
  • Esce Donna Flor e i suoi due mariti del romanziere brasiliano Jorge Amado.
  • Escono Per Marx e Leggere il Capitale del filosofo francese Louis Althusser.
  • Viene messo in orbita stazionaria, sopra l’Atlantico, l’Intelsat I, primo satellite per le telecomunicazioni.
  • Papa Paolo VI visita le Nazioni Unite dove tiene un discorso sulla pace mondiale.
  • In Alabama, negli USA, viene arrestato il leader nero Martin Luther King durante una marcia per i diritti civili, da Selma a Montgomery.
  • 21 febbraio: a New York viene ucciso il capo dei “musulmani neri”, Malcom X.
  • Agosto: rivolta nera a Los Angeles, promossa dal movimento radicale Black Panthers. Violenta repressione da parte della polizia.
  • La stilista inglese Mary Quant lancia la minigonna.
  • Guido Crepax disegna la prima storia di Valentina per la nuova rivista “Linus”.

1966

  • In URSS comincia la stagione del dissenso con il processo Sinjavskij-Daniel.
  • Al XXIII congresso del PCUS, Breznev diventa segretario generale del partito.
  • Mao Tse-tung dà vita al movimento delle “Guardie rosse” a sostegno della “rivoluzione culturale”.
  • Manifestazione vietnamita contro la presenza americana e contro il governo del generale Nguyen Kao Ky. A Saigon viene incendiata la base aerea. Segue una sanguinosa repressione.
  • Gli Stati Uniti bombardano la capitale del Vietnam del Nord, Hanoi.
  • Un colpo di stato militare porta al potere il colonnello Bokassa nella Repubblica Centrafricana. Bokassa abroga la costituzione e scioglie il parlamento.
  • L’ONU, su proposta britannica, adotta sanzioni economiche contro il governo razzista della Rhodesia, che si stacca dal Commonwealth.
  • In Argentina, un colpo di stato porta al potere il generale Ongania. I militari resteranno al potere fino al 1973.
  • Con la conferenza di pace di Taskent ha termine la guerra indo-pakistana. Resta insoluta la questione del Kashmir.
  • In India muore il primo ministro Shastri. Gli succede Indira Gandhi figlia di Nehru.
  • Il veicolo spaziale sovietico Lunik IX esegue il primo “atterraggio morbido” sulla luna.
  • Dolfus e Kozyrev accertano l’esistenza di un’atmosfera sul pianeta Mercurio.
  • Primo trapianto di pancreas.
  • Si diffonde in Inghilterra la corrente artistica dell’Arte concettuale.
  • In URSS termina la pubblicazione a puntate de Il maestro e Margherita di Bulgakov ed esce l’ultima stesura di Divisione Cancro di Evtusenko.
  • Esce il romanzo documento A sangue freddo di Truman Capote.
  • L’architetto finlandese Alvar Aalto progetta la Parrocchia di Riola a Bologna.
  • A Floresta è jovem e cheja de vida di Luigi Nono, su testimonianze riguardanti la lotta di liberazione nei paesi del Terzo Mondo.
  • Le società americane che hanno aperto filiali all’estero (multinazionali) sono 23.000 contro le 7.500 del 1950.
  • Nuovi tumulti razziali in varie città degli Stati Uniti. Il movimento nero si divide in due fazioni: una moderata, che si ispira alla dottrina della non-violenza, guidata da Martin Luther King; l’altra, radicale, che si ispira alle lotte antimperialiste del Terzo Mondo.
  • Nasce l’American National Organisation for Women (NOW) fondata da Betty Friedan, autrice del manifesto del femminismo, La mistica della femminilità, allo scopo di ottenere la parità tra i sessi.
  • Si diffonde un nuovo ballo, lo shake.
  • Mondiali di calcio in Inghilterra. Vince l’Inghilterra contro la Germania: 4 - 2.
  • I Beatles hanno ormai conquistato tutti i mercati discografici del mondo. Il loro beat inglese è un intreccio di rock’n roll, rhythm & blues, country, con influenze provenienti dal jazz, dalla musica orientale, dal folk.
  • La “Congregazione per la dottrina della fede” abolisce l’“Indice dei libri proibiti”.

1967

  • Grandi manifestazioni di protesta contro la guerra nel Vietnam si tengono negli Stati Uniti.
  • Maggio: la regione sudorientale della Nigeria si proclama indipendente col nome di “Repubblica del Biafra”. I secessionisti resistono alle truppe governative anche grazie agli aiuti francesi, ma sono decimati dalla fame.
  • 5-10 giugno: “Guerra dei sei giorni” tra Israele, Egitto, Giordania e Siria (terza guerra arabo-israeliana): l’esercito israeliano, organizzato da Dayan, occupa il Sinai, Gerusalemme, la Cisgiordania e le colline del Golan; l’ONU interviene ottenendo il “cessate il fuoco”.
  • L’ONU invita Israele a ritirarsi dai territori occupati nella “guerra dei sei giorni” e gli stati arabi a riconoscere lo stato d’Israele e a negoziare un trattato di pace. La risoluzione è respinta da Israele, dagli stati arabi e dall’OLP.
  • Ernesto Che Guevara viene catturato e ucciso in Bolivia dalle truppe di Barrientos.
  • Bobeck, presso i laboratori Bell, realizza la memoria a bolle per calcolatori.
  • Negli Stati Uniti viene sperimentato il primo veicolo a sostentazione magnetica.
  • La capsula spaziale sovietica Venus 4 compie il primo “atterraggio morbido” su Venere.
  • Entra in uso il metodo diagnostico della scintigrafia.
  • Il chirurgo sudafricano Barnard compie il primo trapianto cardiaco umano.
  • Viene utilizzato per la prima volta il laser in chirurgia.
  • In Italia esce Blow up di Michelangelo Antonioni, opera incriminata dalla censura.
  • Esce il film L’armata a cavallo dell’ungherese Miklos Jancso.
  • Esce il film Bella di giorno di Luis Buñuel.
  • William Borroughs scrive Il biglietto che esplose.
  • Esce La fine dell’utopia di Herbert Marcuse.
  • Esce Rivoluzione nella rivoluzione di Règis Debray.
  • A New York nasce il Teatro di guerriglia per iniziativa del Performance Group diretto da Richard Schechner.
  • Va in scena, in una sala “off Broadway” di New York, la commedia musicale Hair di Gerome Ragni e Jimmy Rado, con musiche di Galt Mc Dermot.
  • Boxe: Cassius Clay, richiamato sotto le armi, rifiuta di andare in Vietnam e, un mese dopo, viene dichiarato “decaduto” dal titolo mondiale.
  • L’album dei Beatles, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts è primo in classifica nel giro di poche ore.
  • In Polonia i Rolling Stones si esibiscono al Palazzo della Cultura di Varsavia nell’unico concerto rock di oltrecortina, mentre migliaia di giovani si scontrano con la polizia a poca distanza dal teatro.
  • Esce il disco The Doors, dal nome di un gruppo americano le cui musiche (un incrocio personalissimo di beat, rock’n roll, ritmi latini e musiche da cabaret) diventano la colonna sonora più spietata dell’America di Nixon e del Vietnam.
  • Il disegnatore italiano Hugo Pratt dà vita al suo personaggio più riuscito: nasce Corto Maltese.

1968

  • In Cecoslovacchia diviene segretario del Partito comunista Dubcek: inizia un nuovo corso riformista.
  • Gennaio: in Italia gli studenti occupano l’Università di Trento contro l’“autoritarismo accademico”.
  • “Offensiva del Tet”: nel Vietnam del Sud i vietcong occupano Hue.
  • Marzo: marines americani compiono il massacro di May Lay in Vietnam.
  • 1 marzo: a Roma “battaglia” di Valle Giulia: gli studenti si scontrano per ore con la polizia davanti alla Facoltà di architettura, chiusa dal rettore per evitare una nuova occupazione.
  • 2 marzo: a Tokio violenti scontri fra studenti pacifisti e polizia.
  • 18 marzo: nella fabbrica “Pirelli Bicocca” di Milano si forma il primo CUB (Comitato Unitario di Base).
  • 22 marzo: a Nanterre, in Francia, Daniel Cohn-Bendit con 142 compagni occupa l’Università per protestare contro l’arresto di uno studente e dà vita al gruppo “22 marzo”.
  • 4 aprile: a Memphis, negli USA, viene assassinato Martin Luther King. Sommosse dei neri in tutto il paese.
  • 11 aprile: Rudi Dutschke (“Rudi il rosso”), leader del movimento studentesco di Berlino, viene gravemente ferito da uno squilibrato. L’attentato provoca manifestazioni e proteste in tutta la Germania. Il movimento studentesco assalta le sedi dell’editore di destra Alex Springer. A Monaco si verificano aspri scontri con la polizia con due morti e migliaia di arresti.
  • 3 maggio: gli studenti di Nanterre confluiscono alla Sorbona per un’assemblea. Viene votata l’occupazione, ma la polizia sgombera con la forza. Ne nasce una battaglia di strada tra studenti e polizia nel quartiere latino, che si protrae per più giorni.
  • 7 maggio: gli studenti della Sorbona escono dal quartiere latino, e percorrono in cinquantamila il centro della città. Nuovi scontri con la polizia.
  • 13 maggio: proclamazione dello sciopero generale in Francia.
  • 14 maggio: a Parigi, circa un milione di persone in corteo contro il decurtamento dei salari. La sera, numerosi operai partecipano all’assemblea che si tiene alla Sorbona.
  • 16 maggio: viene occupata la Renault Billancourt, alla periferia di Parigi. I rappresentanti sindacali impediscono a un corteo di studenti di entrare nella fabbrica.
  • 20 maggio: gli scioperanti in Francia sono dieci milioni e comprendono assicuratori, bancari, giornalisti, insegnanti. Il paese rischia la paralisi totale.
  • 27 maggio: De Gaulle scioglie il parlamento e indice nuove elezioni per il 23 giugno.
  • 2 giugno: in Francia i sindacati cominciano a firmare accordi separati per le varie categorie in sciopero. I metalmeccanici resistono e si scontrano, insieme agli studenti, con la polizia a Flins e a Sochaux: muoiono uno studente e due operai.
  • 13 giugno: il governo francese mette fuorilegge i gruppi rivoluzionari. Nei giorni successivi cessano le occupazioni nelle fabbriche.
  • Luglio: Paolo VI promulga l’enciclica Humanae vitae, che condanna il controllo delle nascite con metodi artificiali.
  • 25 luglio: inizia l’occupazione dell’Università a Città del Messico. Il governo la reprime brutalmente uccidendo venti studenti. La protesta dilaga in tutte le scuole.
  • Agosto: la Cecoslovacchia è occupata da truppe sovietiche e di altri paesi del Patto di Varsavia che reprimono come “controrivoluzionario” il tentativo di riforma avviato da Dubcek.
  • Settembre: l’Albania si ritira dal Patto di Varsavia.
  • 13 ottobre: a Città del Messico l’esercito spara su una manifestazione di 10.000 studenti uccidendo più di cento giovani.
  • Viene assassinato Robert Kennedy, fratello di John, candidato democratico alla presidenza USA.
  • Il repubblicano Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti.
  • 1 novembre: gli Stati Uniti sospendono i bombardamenti sul Vietnam del Nord.
  • 13 dicembre: in seguito ad agitazioni studentesche il governo brasiliano decreta lo stato d’assedio.
  • In Perù un colpo di stato porta al potere una giunta militare progressista guidata da J. Valasco Alvarado.
  • Gli astronomi inglesi A. Hewish e J. Bell scoprono la prima Pulsar (pulsating star).
  • L’inglese Ch. Cockerell costruisce l’Hovercraft, nave a cuscino d’aria.
  • Esce La doppia elica di J. D. Watson, resoconto delle sue scoperte sul DNA e sul codice genetico.
  • E’ l’anno della contestazione anche per il cinema. Inizia a Cannes, continua a Pesaro, culmina a Venezia, dove il festival può aver luogo solo dopo lo sgombero degli occupanti e il successivo presidio del Palazzo del cinema da parte della polizia.
  • Esce Z, l’orgia del potere del regista greco Costa-Gavras.
  • Esce il film 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrik.
  • In Italia, esce postumo Il partigiano Jonny dello scrittore Beppe Fenoglio.
  • Esce Coppie dell’americano John Updike.
  • Esce il “romanzo biologico” La scimmia nuda di Desmond Morris.
  • Esce Discorso sul Vietnam di Peter Weiss.
  • Esce L’istituzione negata dello psichiatra italiano Franco Basaglia, critica della psichiatria istituzionale.
  • Esce Per un teatro povero, testo teorico del regista teatrale polacco Jerzy Grotowski.
  • Gli Stati Uniti lanciano il satellite per telecomunicazioni Intelsat III, in grado di sviluppare una capacità di 1200 canali telefonici.
  • Negli Stati Uniti, l’Open Housing Law (Legge sugli alloggi) proibisce la discriminazione razziale nella vendita o nell’affitto degli appartamenti.
  • Mentre le truppe del governo nigeriano compiono spaventosi massacri contro la popolazione biafrana, i capi di stato dei paesi dell’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana) riunitisi ad Algeri, esprimono solidarietà al governo nigeriano in nome dell’integrità territoriale. Intervento umanitario della Croce rossa.
  • XIX Olimpiade in Messico. I 2230 metri di altitudine e le nuovissime piste in tartan rendono possibile un’ecatombe di record, ma anche malori e svenimenti. Hines, nero americano, corre i cento metri in 9,9. Un altro nero americano, Tommie Smith, batte il record dei 200 m.: 19,8. E’ quest’ultimo, insieme a John Carlos, medaglia di bronzo, che durante la premiazione alzerà il pugno chiuso nel saluto del Black Power. Bob Beamon nel salto in lungo raggiunge gli 8.90m nel salto in lungo.
  • Gli americani Drake e Schwetzer inventano il wind-surf che diventa subito una moda per i giovani amanti degli sport acquatici.

1969

  • Aprile: in Cecoslovacchia Dubcek è costretto alle dimissioni. Viene eletto segretario del partito, con l’approvazione dell’URSS, G. Husak.
  • 24 aprile: i sovietici lanciano il Lunik 16, la prima sonda a tornare sulla terra dopo essersi posata sulla luna.
  • 21 luglio: l’equipaggio americano dell’Apollo 11 raggiunge la luna. L’astronauta americano Neil Armstrong è il primo uomo a mettere piede sulla luna, ad Aldrin, nel mare della tranquillità.
  • Scontri di frontiera tra Cina e URSS.
  • A Parigi si aprono i negoziati di pace tra USA e Vietnam del Sud da una parte e Vietnam del Nord e Fronte di liberazione dall’altra.
  • 15 ottobre: negli Stati Uniti, “Moratorium Day”: è la giornata delle dimostrazioni contro la guerra nel Vietnam. Vi partecipano più di due milioni di persone in tutto il paese.
  • In Libia un Consiglio della rivoluzione, con a capo il colonnello Mohamed el-Gheddafi, destituisce il re Idris I e assume il potere. Viene proclamata la Repubblica araba di Libia.
  • Al congresso nazionale palestinese, riunito al Cairo, Yasser Arafat è eletto presidente dell’OLP.
  • L’americano N. Wirth elabora il linguaggio Pascal per la programmazione di calcolatori elettronici.
  • Con le sonde Venus e Mariner si evidenzia in modo certo che Venere e Marte non sono adatti alla vita di tipo umano.
  • Maxfeld ottiene la sintesi dell’antibiotico terramicina.
  • Il chirurgo Cooley mette in opera il primo cuore artificiale nell’uomo.
  • In Francia, Cèline scrive Rigodon.
  • Escono Lamento di Portnoy di Philip Roth, scrittore americano, e Il taccuino di un vecchio sporcaccione del californiano Charles Bukowski.
  • Il regista polacco Tadeusz Kantor, direttore del teatro d’avanguardia Cricot 2 di Cracovia, rappresenta in Italia La gallinella acquatica di Witkiewicz.
  • Il Living Theatre presenta a Torino Paradise Now. La polizia sospende lo spettacolo per motivi di ordine pubblico. Ci riprovano a Roma, all’Università, ma anche qui vengono interrotti dalla polizia: la compagnia viene espulsa dall’Italia.
  • Spiral, per flauto solista, di Karl Heinz Stokausen.
  • Si svolgono le prime liturgie eucaristiche in lingua volgare e con il celebrante rivolto verso l’assemblea dei fedeli.
  • Negli Stati Uniti, processo agli “otto di Chicago”, accusati di aver cospirato e incitato alla violenza durante la Convenzione del Partito democratico, nell’agosto del 1968. Durante il processo il leader delle Pantere nere, Bobby Seale, viene fatto ammanettare e imbavagliare: verrà poi condannato a quattro anni per oltraggio alla corte.
  • A Woodstock, negli Stati Uniti, si svolge un grande festival della musica pop con la partecipazione di centinaia di migliaia di giovani. Lo slogan del festival, “3 giorni di pace e musica”, lega quest’avvenimento anche alla battaglia contro la guerra nel Vietnam che il movimento dei giovani sta conducendo in tutto il mondo occidentale.
  • Ciclismo: Merckx vince il Tour de France.
  • Esce il libro Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto di Dorfles.
  • 12 dicembre: Nella sede milanese della Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana esplode una bomba che uccide 16 persone e ne ferisce 90. Un’altra bomba inesplosa è rinvenuta alla Banca Commerciale in Piazza della Scala sempre a Milano. A Roma esplodono altre due bombe una all’Altare della Patria e un’altra alla Banca Nazionale del Lavoro provocando 16 feriti. Inizia la “strategia della tensione”.

Nel mondo

Il mondo diviso: il muro di Berlino e la paura atomica del ‘62 a Cuba

Cuba, 13 novembre 1962: la nave russa Anosov torna in URSS con missili delle basi cubane

Gli anni Sessanta sono caratterizzati dalla proliferazione dei paesi in possesso di armi atomiche e nucleari. Alle due superpotenze, gli USA e l’URSS, si affiancarono la Gran Bretagna, la Francia e la Cina.

Nel frattempo la progressiva diminuzione, a parità di potenza esplosiva, del peso e del volume degli ordigni, che potevano essere oramai usati come semplici proiettili d’artiglieria, così come l’aumento della gittata, attraverso missili e bombardieri, rafforzò il clima di, già cominciato nel decennio precedente.

I primi anni Sessanta segnano il culmine della Guerra Fredda, e hanno come epicentro Berlino e l’isola di Cuba. Nella città tedesca due società erano quotidianamente a confronto, ma soprattutto la città era la via principale di transito di quanti volevano abbandonare la Germania Orientale e trasferirsi ad ovest, dopo la chiusura delle frontiere attuata da quest’ultima nel 1952. Dopo alcuni tentativi di accordo e a causa della contemporanea crisi economica che colpì la DDR, il flusso verso l’occidente riprese in modo massiccio: ogni giorno lasciavano il Paese dalle 1400 alle 1600 persone, e spesso fra loro c’erano medici, insegnanti, tecnici e altri specialisti.

Nell’estate del 1961, in luglio, alle voci di una chiusura dell’ultima via di uscita, circa 30.000 profughi raggiunsero i centri di accoglienza di Berlino Ovest. Il governo della DDR decise quindi di bloccare definitivamente l’emorragia: nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 reparti dell’esercito chiusero tutti i varchi tra i due settori con reticolati e cavalli di frisia. Due giorni dopo fu eretto un vero e proprio muro con blocchi di cemento. Il borgomastro dell’area occidentale della città, il socialdemocratico Willy Brandt assistette impotente alla divisione definitiva di Berlino. Nonostante il muro e i rigidi controlli operati dalla polizia ai confini per evitare fughe di popolazione, i cittadini della Germania Est continuarono durante tutti gli anni ‘60 e ‘70 a fuggire, in particolare attraverso l’Ungheria.

L’altro momento di acuta tensione fu la crisi di Cuba. Tra il 15 e il 18 ottobre 1962 degli aerei-spia nordamericani scoprirono, attraverso una serie di fotografie, la presenza di alcune rampe di lancio per missili nell’isola caraibica, a soli 300 km dalle coste della Florida. Per una decina di giorni il mondo fu sull’orlo di una guerra nucleare. Gli USA decisero di attuare il blocco navale di Cuba. Il 22 ottobre in un discorso alla nazione Kennedy mobilitò la Guardia nazionale annunciando che gli USA erano intenzionati a prevenire l’uso dei missili contro di loro o contro un altro paese e si impegnavano ad ottenerne il ritiro e l’eliminazione dall’emisfero occidentale; dichiarò inoltre che ogni attacco missilistico lanciato da Cuba sarebbe stato considerato come un attacco dell’URSS e che, in quanto tale, avrebbe provocato una rappresaglia massiccia contro il territorio russo. Il giorno seguente il blocco divenne operante. La “crisi dei missili” si concluse dopo un serrato braccio di ferro il 28 ottobre, quando Kruscev annunciò lo smantellamento delle basi missilistiche. Gli Stati Uniti, dal canto loro, si impegnavano a non tentare altre invasioni, dopo il tentativo della Baia dei Porci del 17 aprile 1961.

Lo sviluppo economico: i favolosi anni ‘60 e la società dei consumi di massa

La Borsa di New York oggi

Dopo la fine della seconda guerra mondiale vi fu un forte sviluppo delle attività produttive, degli investimenti, dell’occupazione e del reddito. Tra il 1946 e il 1973 si verificò una fase espansiva senza precedenti, tanto da indurre a sostituire nel linguaggio corrente il termine di “crescita” economica a quello di “sviluppo”. La produzione industriale mondiale accumulata in questo periodo, infatti, è paragonabile quantitativamente a quella dell’intero secolo e mezzo precedente, ed il tasso di incremento produttivo annuo dei paesi occidentali tra il 1963 e il 1973 fu del 6,2% annuo. Nel corso del ventennio 1950-70 l’ammontare delle esportazioni si moltiplicò per cinque e, per la prima volta nella storia, il commercio dei beni manufatti superò quello dei prodotti primari.

La riapertura dei mercati, la forza espansiva del capitalismo americano, la rinnovata stabilizzazione monetaria internazionale, attuata per mezzo degli accordi di Bretton Woods, furono le condizioni che a partire dagli anni Cinquanta favorirono il grande sviluppo del commercio internazionale e la sostanziale globalizzazione dell’economia mondiale. L’intensificazione degli scambi e la compenetrazione dei mercati, avvenuta grazie alle “rivoluzioni” in atto nel campo delle comunicazioni e dei trasporti, e alle riduzioni delle tariffe doganali, oltre ad un’incidenza economica, si rivelarono elemento non trascurabile della crescita del settore terziario inserendosi nel più complesso quadro del contemporaneo sorgere della società dei consumi di massa.

All’interno del mondo occidentale l’espansione è particolarmente vivace in un gruppo di paesi – Giappone, Germania, Italia – per i quali si parla di “miracolo economico” in virtù dell’impennata del loro prodotto interno lordo (PIL). Tra le condizioni che permisero questo “miracolo”, l’elemento più importante fu il prodigioso sviluppo della scienza e i connessi rivoluzionari progressi della tecnologia, vale a dire del sapere applicato alla sfera pratica e produttiva.

Alti incrementi produttivi si ebbero nell’agricoltura, grazie all’impiego generalizzato di prodotti chimici come i fertilizzanti e i pesticidi, all’introduzione di varietà di cereali ad alto rendimento e all’allargamento della meccanizzazione e della motorizzazione. Tutto ciò era favorito dai bassi prezzi delle fonti di energia e delle materie prime provenienti dai paesi sottosviluppati.

La crescita economica portò all’aumento degli addetti del terziario, con particolare effetto nel commercio, nell’impiego pubblico e privato, nei servizi professionali, assicurativi e bancari, nei settori scolastico e sanitario. Erano i cosiddetti “colletti bianchi” che da allora diventarono il baricentro dell’organizzazione sociale, costituendo quello che viene comunemente definito il “ceto medio”. Il progressivo affermarsi della società industriale su quella agricola causò un radicale cambiamento nella struttura della popolazione attiva, con una drastica riduzione degli addetti al settore primario e un esodo dalle campagne verso le città. La disoccupazione era ridotta al minimo, la crescita dei salari costante e l’aumento dei beni di consumo in commercio cambiarono la vita delle famiglie occidentali: aumentarono le infrastrutture e i servizi: migliorarono i sistemi di trasporto cittadini ed extraurbani, vennero costruite nuove infrastrutture viarie, la popolazione scolastica aumentò costantemente, i servizi sanitari garantirono un alto livello di assistenza, soprattutto grazie all’applicazione e all’uso di nuovi medicinali come i vaccini.

La crescita ebbe i suoi punti di forza nell’industria, specialmente nei settori più interessati dal ritmo delle innovazioni o in quelli produttori dei beni di consumo di massa (automobili, elettrodomestici, apparecchi televisivi). Per esempio prodotti completamente nuovi invasero i mercati: nel 1961 la IBM realizza la prima macchina da scrivere elettrica, si fabbricano rasoi elettrici, giradischi, e mangianastri nonché i primi registratori. Arrivano i cibi preconfezionati o surgelati, i detersivi sintetici e i dischi in vinile a 45 giri. Acquistare l’automobile era un sogno che per molti cominciò a divenire realtà: nel ‘38 in Italia c’erano 750.000 auto, nel ‘75 ne circolavano quindici milioni.

Il benessere garantiva la possibilità di consumi non primari. Le vacanze diventarono fenomeno di massa e le località turistiche, in particolare quelle balneari, riscossero un successo senza precedenti, attirando famiglie intere di operai e impiegati in cerca di svago. Anche la cultura, il cinema, la musica entrarono nel business. Si compravano più libri, si andava al cinema, a teatro, ad ascoltare musica più spesso; grazie alla riproducibilità dei prodotti culturali si aprirono nuovi mercati e l’industria dello spettacolo raggiunse livelli mai conosciuti in precedenza. In questa fase anche i giovani diventarono consumatori, e non solo di beni materiali.

L’ultima frontiera: la conquista della Luna

Luglio 1969: Edwin Aldrin sulla Luna

L’esplorazione del cosmo è stata da sempre uno dei principali obiettivi scientifici dell’uomo. La sua realizzazione coincise con la Guerra Fredda ed alimentò la rivalità tra le due superpotenze, in tal caso assumendo i caratteri di una gara sportiva, rispecchiando nei suoi sviluppi il decorso delle loro relazioni. La conquista dello spazio divenne uno strumento propagandistico al quale gli USA e l’URSS ricorsero per affermare la superiorità dei rispettivi regimi e far valere il proprio primato tecnologico anche come arma psicologica. I sovietici conseguirono i maggiori vantaggi iniziali. L’URSS lanciò con successo il primo satellite artificiale (lo Sputnik, 4 ottobre 1957), il primo essere vivente nello spazio (la cagnetta Laika, novembre 1957), la prima sonda lunare (12 settembre 1959) e il primo uomo nello spazio (Jurij Gagarin, 12 aprile 1961). Sovietici furono anche la prima donna cosmonauta (Valentina Tereskova, 16 giugno 1963), il primo uomo a “passeggiare” nello spazio (Aleksei Leonov, 18 marzo 1965) e il primo velivolo a raggiungere Venere (1 marzo 1966). Furono però gli Stati Uniti a ottenere il risultato più significativo quando Neil Armstrong divenne il primo uomo a sbarcare sulla Luna (20 luglio 1969). La sua missione costituì il coronamento del programma Apollo varato dal presidente John Fitzgerald Kennedy nel 1961. Tale progetto ebbe origine dalla necessità di colmare il divario che separava gli USA dall’URSS nella corsa all’esplorazione dello spazio e restituire fiducia nelle risorse scientifiche e tecnologiche di un paese che fin dal lancio dello Sputnik aveva paventato le ripercussioni militari del proprio ritardo dai sovietici.

In definitiva, la conquista della Luna è una data fondamentale che va ben al di là degli avvenimenti più significativi del decennio degli anni Sessanta.

Una nazione opulenta: gli USA della presidenza Kennedy

Washington, maggio 1961: Robert, Edward e John Kennedy

Interrotta nel 1958, l’espansione economica riprese anni dopo, ma la sua ampiezza aveva definitivamente sancito gli USA come il paese leader del capitalismo, ed avviato il fenomeno del consumismo che conobbe il suo apice negli anni ‘60. Con l’affermarsi definitivo della moderna società dei consumi, una tendenza diffusa al conformismo segnò sempre più marcatamente la società di massa americana che conobbe in questa fase supermercati, televisione, ampia diffusione di auto private e luoghi di svago collettivi.

L’interruzione nel 1958 della crescita economica causò dei cambiamenti nella politica. Per la prima volta lo stato imboccò la strada del superamento della segregazione razziale nei confronti della popolazione nera; si affacciò sullo scenario politico un primo movimento democratico a larga base giovanile. Nel 1960 l’affermazione del candidato democratico John Fitzgerald Kennedy aprì una nuova fase della storia americana. Nel novembre del 1960, alle nuove elezioni presidenziali, Kennedy si oppose al vice presidente di Eisenhower, il repubblicano Richard Nixon. Nel corso della campagna elettorale, condotta sul filo del rasoio sul piano dei consensi, un ruolo decisivo venne giocato dalla televisione che per la prima volta documentò l’evento con grande spiegamento di energie. Grazie, infatti, agli ultimi quattro confronti televisivi fra i due candidati la sapiente immagine, la grinta ed il dinamismo del giovane candidato democratico ebbero la meglio su Nixon, sconfitto con un esile scarto dello 0,2%. Fin dal suo discorso di insediamento, il più giovane presidente della storia degli Stati Uniti, e il primo cattolico, tracciò quella che divenne da subito l’immagine di riferimento della sua politica: “In tutto il mondo - affermò - giungono oggi al potere giovani non legati alle tradizioni del passato… Ci troviamo oggi sulla soglia di una nuova frontiera”. Era un chiaro invito al recupero dello spirito pionieristico che animava gli americani delle prime generazioni. La carica degli ideali fu un elemento costante della presidenza Kennedy che conquistò rapidamente popolarità e un grande ascendente fra le giovani generazioni. Il programma di riforme sociali e la volontà di imprimere una svolta democratica alla politica americana faceva credere, soprattutto alle fasce meno protette della società, alla possibilità di realizzare il sogno di una democrazia compiuta e di una società giusta. Tuttavia, a fronte di grandi speranze, Kennedy ottenne pochi risultati concreti: le riforme sociali riguardanti la scuola pubblica, l’assistenza agli anziani, i diritti delle donne ed il risanamento urbano vennero ostacolate dal Congresso dove la maggioranza democratica era molto debole. Anche riguardo alla battaglia contro la segregazione razziale, Washington subì le critiche di Martin Luther King, che rimproverava a Kennedy “di essersi accontentato di un progresso fittizio”.

La politica estera kennediana oscillò fra il rilancio della volontà di egemonia americana sul mondo, e la difesa dall’espansione sovietica e dalla crescita dei movimenti di liberazione sempre più attivi in tutte le regioni del Terzo Mondo. Fu protagonista con Kruscev della nuova stagione della coesistenza pacifica, ma nel 1962 dovette gestire la “crisi dei missili” a Cuba, riportando il confronto con l’URSS a dieci anni indietro, con il rischio dell’esplosione di un conflitto nucleare. L’impegno a contenere la diffusione del comunismo in nuove aree del mondo lo portò a sostenere il fallito tentativo di invasione a Cuba attraverso l’operazione della Baia dei Porci (1961), e a sostenere i governi autoritari dell’America Latina e dell’Asia minacciati da forti movimenti di guerriglia.

Il 22 novembre del 1963 a Dallas, nel Texas, Kennedy fu assassinato in circostante che non sono mai state definitivamente chiarite. L’epilogo di Dallas gettò un’ombra sinistra sul futuro dell’America, che a partire dall’avventura della guerra in Vietnam scivolò verso una crisi sempre più drammatica; inoltre contribuì a rilanciare la popolarità del presidente e della sua famiglia edificandone il mito e aprì una stagione di violenza politica contrassegnata dagli omicidi di Malcom X (1965), Martin Luther King e Robert Kennedy (1968).

“I have a dream”: il problema dell’integrazione razziale

Martin Luther King assieme al presidente Lyndon B. Johnson e Robert F. Kennedy (1963)

I primi anni ‘60 videro lo sviluppo del “movimento per i diritti civili” e l’estendersi delle lotte per il riconoscimento della parità di possibilità di accedere al sogno americano per ricchi e poveri, bianchi e neri americani.

A Kennedy successe il suo vice presidente Lyndon Johnson che, confermato nelle elezioni del 1964, si impegnò ad applicare il programma di riforme sociali avviato dal suo predecessore. Prima della sua rielezione riuscì a far approvare il Civil Rights Bill, la legge più avanzata del dopoguerra in tema di diritti delle minoranze di colore. Nel biennio 1964-65 varò l’Office of Economic Opportunities, preposto per il sostegno dei meno abbienti. Ottenne anche l’approvazione di fondi per l’istruzione primaria, il Medicar per la salute degli anziani e il Medicaid per i poveri. I diritti civili furono consolidati con il Voting Rights Bill dell’agosto del 1965.

La legislazione sociale fu approvata anche grazie all’intensificarsi dei movimenti di solidarietà che aumentarono nel paese e sostennero importanti campagne di massa e di sensibilizzazione. Anche gli studenti dei campus universitari scesero in piazza manifestando per la pace - i freedom raids - e contro la segregazione razziale. Nacquero nuove organizzazioni come la Student Nonviolent Coordinating Committee e la Southern Christian Leadership Conference promossa da Martin Luther King, la figura principale delle lotte per i diritti civili dei neri americani e premio Nobel per la pace nel ‘64. La grande marcia di Washington per i diritti civili dell’agosto 1963 rappresentò l’apice di queste mobilitazioni che con la legge del 1965 ottennero un’importante vittoria. Oltre 250.000 persone, fra le quali moltissimi giovani, parteciparono alla marcia per i diritti civili organizzata il 28 agosto 1963 a Washington da Martin Luther King che pronunciò uno storico discorso (I have a dream). Ma la mancata soluzione di altri problemi, come l’emarginazione dei neri nelle grandi metropoli e l’assassinio di M. Luther King nell’aprile del ‘68, scatenò violente rivolte nei ghetti di New York, Detroit e Los Angeles. Molti militanti abbandonarono la pratica non violenta e diedero vita a movimenti radicali, come il Black Power, guidato fino al 1965 da Malcom X organizzazione che si impegnò in una lotta dura contro il potere bianco dei politici di Washington.

Il Vietnam e le università: squilli di una rivolta

Contadini sospettati di essere collaborazionisti dei Viet Cong vengono condotti alla Da Nang Air Base

Sempre di più nell’Occidente capitalistico si espresse una tendenza alla separazione generazionale, caratterizzata da diversi consumi, diversi ideali, diversi stili di vita. I movimenti giovanili, nati da un’esigenza di ribellione, approdarono alla contestazione politica, a partire dagli anni ‘60, a proposito dei temi della pace e del disarmo. Fu la guerra in Vietnam - che a partire dal 1965 conobbe una terribile escalation - a mobilitare le masse giovanili. Il ‘68 nasce proprio sulla scia dei movimenti antirazzista e pacifista che erano cresciuti in America e nell’Europa occidentale. Fra i miti di questa generazione si affermò anche la figura rivoluzionaria e romantica di Ernesto “Che” Guevara. Anche gli studenti si mobilitarono dando vita alle prime rivolte nelle Università, prima fra tutte quella di Berkeley del 1964, seguita dall’occupazione della Columbia University di New York, nel 1968.

Nel paese esistevano basi americane fin dalla presidenza Kennedy, ma l’intervento militare vero e proprio iniziò solamente nell’estate del 1964, durante la presidenza Johnson, con il bombardamento americano delle coste del Vietnam del Nord. L’intervento americano prevedeva una doppia strategia: bombardamenti sul Vietnam del Nord e invio di truppe statunitensi nel Sud per combattere la guerriglia condotta da elementi filocomunisti per la riunificazione del paese. La guerra rappresentava lo sbocco della politica perseguita dagli Stati Uniti in Asia, caratterizzata dal timore dell’espandersi del comunismo cinese. L’intervento americano fu giustificato con la così detta “teoria del domino”, secondo la quale la vittoria della guerriglia sostenuta dal nord comunista, che mirava alla riunificazione, avrebbe provocato un effetto a catena portando l’intera regione sotto controllo sovietico e cinese. Il fatto che sia URSS che Cina sostenessero il Vietnam del Nord inoltre, per una gran parte dell’opinione pubblica statunitense, costituiva la prova che la contrapposizione politica tra i due stati fosse realtà solo di facciata. La guerra del Vietnam fu pertanto l’ultima guerra di contenimento del comunismo.

La scelta di intervenire direttamente nel conflitto vietnamita sollevò un’ondata di proteste sempre più forti, fino al rifiuto di moltissimi giovani di combattere in una guerra in cui non credevano. La guerra, limitata ad un’area geografica ristretta, divenne presto una guerra “totale”, per l’entità delle distruzioni che provocava e per il coinvolgimento delle popolazioni civili. Accanto ai bombardamenti del Nord, per i quali vennero utilizzate devastanti armi chimiche come il napalm, l’azione antiguerriglia al Sud non riusciva a sopprimere un movimento che aveva una larga base di massa e che era rifornito dal Nord grazie a vie di comunicazione che non potevano essere colpite dall’aviazione statunitense senza violare la neutralità di altri paesi. Il “sentiero Ho Chi Minh”, una pista attraverso la giungla che passava in territorio laotiano e cambogiano, venne utilizzata per trasportare gli aiuti che il governo di Hanoi, URSS e Cina inviavano ai sudvietnamiti. Le efferatezze del conflitto ed il rifiuto di una guerra imperialista alimentarono i movimenti pacifisti, che nel biennio 1967-68 raggiunsero un’ampiezza mai conosciuta nella politica americana. La resistenza vietcong e l’incapacità statunitense di dare una svolta al conflitto, portarono ad una clamorosa débâcle. Nel 1968 il presidente Johnson fu costretto ad ammettere la disfatta dopo l’offensiva vietnamita del Tet. Le truppe americane, colte di sorpresa, furono costrette ad arretrare di centinaia di chilometri: dopo l’offensiva, una vittoria americana risultava impossibile. Vi si oppose la tenace resistenza del popolo vietnamita che trovava espressione politica non solo nei dirigenti del Nord, ma anche nel Fronte nazionale di liberazione nel Sud, trasformatosi, nel giugno 1969, in “Governo rivoluzionario provvisorio della Repubblica sudvietnamita”. Vi si oppose inoltre un largo settore dell’opinione pubblica americana, e il timore di un irreparabile intervento diretto di URSS e Cina. L’epilogo della guerra del Vietnam segnava la prima sconfitta militare subita dagli Stati Uniti nel corso della loro storia. Contemporaneamente aumentò in tutto il mondo occidentale, nel corso delle mobilitazioni del 1968, la critica e la denuncia di massa all’imperialismo americano. Questa situazione portò alla sconfitta dei democratici alle presidenziali del 1968 e alla vittoria di Richard Nixon, che tuttavia non riuscì a dare una soluzione al conflitto vietnamita.

La guerra del Vietnam, concepita come una guerra “locale”, ebbe profonde ripercussioni non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in America Latina. Negli Stati Uniti il conflitto fu oggetto di un dibattito politico e giornalistico. Nel resto del mondo l’opposizione alla guerra e l’appoggio politico al Fronte nazionale di liberazione mobilitò vaste masse, soprattutto di giovani e studenti, e costituì uno degli elementi fondamentali dei nuovi movimenti giovanili della fine degli anni Sessanta. Per la prima volta nella storia dell’umanità i moderni mezzi di comunicazione di massa giocarono un ruolo fondamentale: quella del Vietnam fu la prima guerra seguita e vista attraverso la televisione.

L’URSS dopo la fine del terrore. Le riforme di Kruscev

Khrushchev (a destra) con i cosmonauti Yuri Gagarin, Pavel Popovich e Valentina Tereshkova, 1963

La vita politica e sociale dell’URSS attraversò i mutamenti dovuti alla morte di Stalin (1953) e alle riforme del decennio krusceviano (1954-64). Molto importante fu, nella fase postkrusceviana, la maggiore attenzione che la classe dirigente sovietica indirizzò all’agricoltura, attribuendo ai Kolchoz una maggiore autonomia, anche imprenditoriale, pur restando il problema della penuria dei generi alimentari nei negozi: infatti dal 1963 cominciarono le importazioni di grano dagli USA. La crescita della società sovietica dei primi anni ‘60, inoltre, si caratterizzò per un vasto impegno di codificazione di ordinamenti e regole, in precedenza annullati oggettivamente dal potere staliniano. Denunciata la carenza di leggi in occasione del XX congresso, e iniziata con Kruscev, l’opera ebbe il suo sviluppo massimo dopo la destituzione di quest’ultimo e culminò con la nuova costituzione dell’URSS del 1977. Divenuto padrone assoluto del paese, cumulando nel 1957 le cariche di segretario del Partito comunista e di primo ministro, Kruscev gestì la politica sovietica fino alla sua deposizione (votazione del Comitato centrale del 15 ottobre 1964) che lo costrinse ad un totale isolamento politico. In quegli anni i rapporti con gli Stati Uniti segnarono alti e bassi. Dopo l’incontro con il presidente Eisenhower nel 1959 a Camp David, l’abbattimento di un aereo spia americano nel 1960 creò nuova tensione, che fu superata grazie ai buoni rapporti tra Kruscev e il nuovo presidente Kennedy. Negli anni seguenti, tuttavia, la costruzione del muro di Berlino (1961) e la crisi dei missili a Cuba (1962) riportarono la tensione internazionale a livelli altissimi. Le cause della fine del potere krusceviano vanno ricercate, tuttavia, non solo nella nuova fase di gelo tra le superpotenze e con la Cina di Mao, che non aveva approvato la linea di destalinizzazione condotta da Kruscev, ma anche nei risultati economici negativi all’interno del paese.

Il cambiamento interrotto: Breznev

Breznev dopo aver parlato al Komsomol (Unione della Gioventù Comunista Leninista di tutta l'Unione) nel 1968

Dopo la deposizione di Kruscev, l’Unione Sovietica fu retta da una direzione collegiale dei principali collaboratori dell’ex leader. Il nuovo segretario del PCUS era Leonid Breznev; accanto a lui, Kosygin fu nominato presidente del consiglio e Pogdornyi presidente della Repubblica; facevano parte del gruppo dirigente anche Mikojan e Suslov. Come già la storia del paese aveva mostrato con l’ascesa di Stalin, e poi di Kruscev, progressivamente il potere si accentrò pure questa volta nelle mani di un unico leader. Furono progressivamente allontanati dalle cariche ricoperte Mikojan (1966), Kosygin (1970), e il potere rimase tutto accentrato nelle mani di Breznev. Accanto a questi, in una posizione di subalternità, rimase solo l’ideologo ufficiale del regime, Suslov. Breznev divenne in breve, come Stalin, e in un certo modo Kruscev, oggetto di culto della personalità e concentrò su di sé, le cariche, oltre che di segretario del partito, anche di Capo dello stato e delle forze armate.

L’ondata di rinnovamento degli anni di Kruscev a partire dal XX congresso del PCUS del 1956, fu bruscamente fermata dalla nuova dirigenza sovietica e iniziò una crescente burocratizzazione degli apparati dello stato sovietico e del partito. Stalin fu in parte riabilitato e non si parlò più delle purghe commesse dal dittatore. Dopo la Primavera di Praga (1968), e dopo le critiche ai partiti comunisti occidentali meno ortodossi (soprattutto del maggiore di questi, il Partito comunista italiano), nacque nella classe dirigente la convinzione che la realtà sovietica necessitasse di una difesa assoluta e intransigente per non lasciare alcuno spazio alle critiche. A tale proposito, al fine di giustificare gli interventi militari nei paesi dell’Est europeo che minacciavano rinnovamenti eretici rispetto all’ortodossia, come avvenne dopo i fatti di Praga nel 1968, Breznev parlò di “sovranità limitata”, nel senso che nessun paese del blocco dell’Est poteva mettere in crisi l’appartenenza al sistema comunista internazionale senza che gli altri potessero intervenire a salvaguardare il bene comune.

Nel 1966 era ripresa nell’URSS la repressione del dissenso, anche se in termini meno cruenti rispetto ai grandi processi staliniani. Molti intellettuali vennero internati in ospedali psichiatrici. Alcuni esponenti del dissenso, vittime della repressione, come lo scrittore Aleksandr Solzenicyn e il fisico Andrej Sacharov assursero negli anni seguenti al ruolo di personalità di rilevanza internazionale. Gli ebrei sovietici, inoltre, abbandonarono in numero sempre maggiore il paese emigrando in Israele.

Dalla decolonizzazione politica alla colonizzazione delle armi

Lee Kuan Yew, fondatore e presidente per 31 anni dell'odierna città-stato di Singapore: figura quasi leggendaria per la piccola città Stato, Lee Kuan Yew portò il piccolo villaggio di pescatori di Singapore ad essere una delle metropoli più ricche e cosmopolite del mondo e per questo investito dell'appellativo di padre fondatore di Singapore

Negli stessi anni in cui il “nord” del mondo viveva una fase di espansione economica straordinaria, i paesi dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, sorti dal processo di decolonizzazione avviatosi al termine della seconda guerra mondiale, dovettero affrontare una condizione di diffusa povertà e di crescita economica lenta (il sottosviluppo). Tutti questi stati formarono il “Terzo Mondo”, come venne definito per la prima volta nel 1952 da Alfred Sauvy, un demografo francese, per differenziarlo da quello capitalista e da quello socialista. I paesi coloniali avevano causato questa drammatica situazione imponendo alle economie di questi paesi condizioni artificiali di monocoltura (sistema delle piantagioni) e distruggendo l’artigianato locale; avevano inoltre impiegato solo parzialmente sul posto le risorse ricavate dalle colonie e, infine, avevano ostacolato la formazione di una classe dirigente locale. Dopo la decolonizzazione, inoltre, i paesi industriali continuarono a imporre, grazie al loro peso politico e finanziario, una divisione internazionale del lavoro che confinava il Terzo Mondo al ruolo di esportatore di materie prime a basso prezzo. Il reddito annuo pro capite in questi paesi era circa 110 rispetto a quello delle nazioni a economia sviluppata. Ad aggravare questo rapporto fra reddito, fonti di sostentamento e popolazione, contribuì anche l’aumento vertiginoso del numero di abitanti, che passò in queste nazioni da un miliardo e sessantanove milioni (nel 1950) a due miliardi e 159 milioni (nel 1970). Tale “esplosione demografica” fu dovuta, da una parte, alla riduzione della mortalità infantile, grazie alla lotta contro le malattie infettive e all’introduzione di valide misure igieniche e sanitarie; dall’altra al profondo radicamento di strutture familiari e di mentalità contrarie al controllo delle nascite. Il Terzo Mondo, soggetto spesso a carestie e a gravi calamità naturali, non fu risparmiato da una serie infinita di conflitti armati: guerriglie, talora vere e proprie guerre, insanguinarono molti di questi paesi sia nel periodo in cui lottavano per l’indipendenza che successivamente quando si scontrarono tra di loro. Infatti, oltre al commercio della droga, sviluppatosi all’ombra del boom economico, le organizzazioni criminali presero in mano il traffico delle armi. In diverse aree, negli anni ‘60 scoppiarono conflitti regionali: in Africa cominciarono gli scontri tra e negli stati ex coloniali, in America Latina (in cui fra l’altro i narcotrafficanti controllavano in modo sempre più immediato il potere pubblico) si susseguirono i colpi di stato dei militari. Erano le grandi organizzazioni criminali ad armare i belligeranti, chiedendo in cambio protezione e libertà di gestire i propri traffici.

Dall’indipendenza politica alla dipendenza economica

Patrice Lumumba a Brussels alla conferenza belgo-congolese per l'indipendenza dello stato africano, 1960

Il processo di decolonizzazione avviatosi al termine della seconda guerra mondiale moltiplicò nel giro di pochi anni il numero degli stati sovrani, desiderosi di affermare la propria identità. L’autonomia politica di queste nuove formazioni statali, e in particolare di quelle africane, rappresentò tuttavia una minaccia per alcune società multinazionali interessate a mantenere il controllo sulle materie prime (oro, rame, uranio, cobalto, petrolio) che si trovavano nel territorio di questi Paesi. Le “multinazionali” sono imprese operanti nel mercato mondiale mediante unità locali presenti in più stati ma dipendenti dalla casa madre centrale, che si riserva la definizione della strategia generale e la programmazione di lungo periodo. Esse ammontavano negli anni ‘70 a 250, di cui 200 nei soli Stati Uniti, e la loro produzione globale corrispondeva a circa un quinto del prodotto degli stati nazionali. Le ambizioni neoimperialistiche di questi soggetti economici trovavano ben poca resistenza nei fragili equilibri istituzionali dei giovani stati africani. In molti casi, infatti, questi ultimi sorsero entro i confini delle vecchie colonie finendo con l’essere imitazioni poco vitali degli stati nazionali europei. Le rivalità etniche tribali, la fragilità delle classi dirigenti e l’eredità del passato, resero difficile il consolidamento delle istituzioni, instabile la vita politica, frequenti i colpi di stato militari, prevalenti i regimi autoritari e personali. In questo contesto era facile, dall’esterno, suscitare guerre civili e secessioni che consentivano di mantenere i nuovi Paesi in una condizione di subalternità. Ciò avvenne soprattutto nei territori dove più dura era stata la dominazione straniera e più forti erano gli interessi economici e strategici delle ex potenze coloniali. Nei primi anni ‘60 clamoroso fu il caso del Congo belga (Zaire) di cui fa parte il Katanga, regione ricca di minerali, tra i quali, particolarmente ambito per la sua importanza strategica, l’uranio. Non appena proclamata l’indipendenza (1960), infatti, fu provocata da Moise Ciombè la secessione del Katanga, e, nella guerra civile che seguì, intervennero a più riprese mercenari stranieri assoldati dalle compagnie minerarie europee.

I casi di ingerenza diretta o mediata delle grandi multinazionali in America Latina furono altrettanto numerosi. Quando gli interessi delle società per azioni americane che controllavano le piantagioni di canna da zucchero vennero messi in pericolo dalla guerra civile a Santo Domingo, nel 1965, gli Stati Uniti intervennero direttamente inviando 30.000 marines.

Dal “non allineamento” all’OPEC

Jawaharlal Nehru, Gamal Abdel Nasser e Josip Broz Tito alla Conferenza dei paesi "non allineati", 1961

Alla conferenza di Belgrado del 1961 nacque ufficialmente il movimento dei “non allineati”, già in nuce nella conferenza di Bandung del 1955. Padri fondatori furono considerati l’egiziano Nasser, lo jugoslavo Tito e l’indiano Nehru. Il non allineamento si caratterizzò per la volontà dei paesi del Terzo Mondo di influire sui rapporti internazionali fra le due superpotenze al fine di favorire un processo di pace e di distensione globale. Rispetto a Bandung erano presenti paesi latino-americani, come Cuba, e i nuovi stati africani che avevano ottenuto l’indipendenza dopo il 1955, come l’Algeria. Si portò avanti anche il tentativo di costituire organismi permanenti di coordinamento, come l’Organizzazione per la solidarietà fra i popoli di Asia, Africa, America Latina, fondata nel 1966 con sede a Cuba. Accolto con favore da Kruscev, come contributo per il superamento definitivo della guerra fredda, il movimento registrò la diffidenza americana, timorosa degli elementi di filosovietismo alla base del raggruppamento, pur disomogeneo. Infatti, la partecipazione della Cina al movimento e la crescente vicinanza all’URSS di molti paesi aderenti, ne sfumarono l’immagine di equidistanza tra i blocchi. Ma fu soprattutto l’emergere di rivalità insanabili tra gli più rappresentativi del “terzo mondo” a decretarne di fatto la fine. Gli scontri armati tra Cina e India, in Tibet nel 1962, e le guerre indo-pakistane, nel 1965 e nel 1971, rivelarono che le dichiarazioni di principio, alla base del “non allineamento”, non corrispondevano all’adozione di politiche conseguenti. Le rivalità interarabe in Medio Oriente avevano già dimostrato la sostanziale ininfluenza degli accordi stipulati, nel 1945, per la formazione della Lega Araba, e le numerose guerre africane, negli anni successivi, avrebbero reso altrettanto nominali gli accordi dell’Organizzazione per l’Unità Africana del 1963. Il neutralismo professato da molti paesi del “terzo mondo” divenne così solo lo strumento per giocare sulle rivalità tra USA e URSS, traendone vantaggi in termini di aiuti economici e militari.

Almeno un’organizzazione, tuttavia, seppe superare le rivalità tra gli stati membri: l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). L’importanza strategica per l’economia industriale assunta dalle nuove fonti di energia, e in particolare dal petrolio, emerse in tutta la sua evidenza nel periodo seguente la seconda guerra mondiale. Le politiche energetiche dei paesi industrializzati li resero fortemente dipendenti dalla disponibilità di petrolio (che insieme agli altri idrocarburi copriva il 60% del fabbisogno energetico del pianeta), acquistato a prezzi bassi dai paesi produttori. La nazionalizzazione delle risorse petrolifere di molti paesi produttori, negli anni ‘60 modificò la situazione: nel 1960 gli stati arabi, insieme a Venezuela, Nigeria e Indonesia, si riunirono fondando l’Opec. Questa struttura divenne un efficace strumento di pressione diplomatica ed economica per contrastare l’influenza delle grandi compagnie occidentali e ottenere un maggiore controllo sul prezzo del greggio. Se nel primo decennio di vita l’Opec si limitò a mantenere inalterati i prezzi di listino, dal 1971 cominciò ad intervenire in maniera più consistente nella gestione della produzione.

I popoli dimenticati

Léopold Sédar Senghor, primo presidente del Senegal

I movimenti nazionali d’indipendenza dal dominio coloniale, sorti nel corso della seconda guerra mondiale, rifiutavano spesso la cultura europea, per affermare i valori della tradizione e della civiltà dei propri paesi. Il rifiuto era più o meno accentuato: a volte raggiunse posizioni che idealizzavano il passato indigeno, rafforzando il tradizionalismo religioso; in altri casi era meno radicale, e venivano riconosciuti alcuni valori “europei” come indispensabili al processo di trasformazione delle società coloniali.

Uno degli esponenti più importanti della prima tendenza fu Frantz Fanon (un medico martinicano, francofono, combattente del Fronte Nazionale di Liberazione Algerino, e autore de I dannati della terra), per il quale la lotta per l’indipendenza si doveva proporre di mutare l’ordine universale I “dannati della terra”, secondo l’accezione coniata da Fanon, attraversarono un periodo in cui si succedevano, senza soluzioni di continuità, crisi politiche ed economiche. Centrata sull’esperienza algerina e basata sulla lunga attività medica dell’autore, l’opera aveva un carattere universale e sottolineava il valore epocale dei movimenti di liberazione nei paesi colonizzati, la possibilità dell’avvento del terzo mondo e delle sue ricchezze culturali sulla scena internazionale. Il libro ebbe un forte impatto sulla cultura europea e negli ambienti “terzomondisti”.

Della seconda tendenza poteva essere considerato principale rappresentante Leopold Senghor, primo presidente del Senegal indipendente, secondo cui la liberazione dal dominio europeo, lungi dal poter essere intesa come semplice processo inverso alla colonizzazione, passava anche attraverso l’utilizzazione delle strutture coloniali per dare vita a una rivoluzione profonda delle strutture mentali, morali, sociali ed economiche delle ex-colonie.

Nel quadro delle elaborazioni politiche dei movimenti di liberazione, un ruolo importante rivestì il pensiero marxista. Alcuni esempi di movimenti d’indipendenza fortemente influenzati dal marxismo furono il Movimento nazionale congolese fondato da Patrice Lumumba in Congo, e il Vietminh guidato da Ho Chi Minh in Vietnam.

Fidel Castro e la rivoluzione cubana

Fidel Castro (a sinistra) e Che Guevara (al centro) durante la marcia per ricordare le vittime dell'esposione della nave cargo "La Coubre", attraccata a L'Avana mentre era in corso lo scarico di un grande quantitativo di munizioni, che causò la morte di almeno un centinaio di persone: il governo rivoluzionario cubano accusò gli Stati Uniti di sabotaggio

La rivoluzione cubana (1959) troncò i rapporti privilegiati che gli Stati Uniti avevano intessuto con l’isola dall’inizio del secolo. I contrasti tra i due stati precipitarono dopo l’avvicinamento di Cuba all’URSS e la nazionalizzazione delle imprese straniere.

Il successo della rivoluzione guidata da Fidel Castro a Cuba, che, nel 1959, abbatté la dittatura di Fulgencio Batista, ispirando, con l’esempio del comandante Ernesto “Che” Guevara, i movimenti di guerriglia di tutta l’America latina, resta un caso unico nella storia contemporanea del continente. Anche l’esperienza cubana, comunque, ha pesantemente risentito dei condizionamenti portati dalla potenza degli Stati Uniti, e dal clima teso dello scontro bipolare. Il regime castrista era orientato, inizialmente, verso politiche non ostili agli Stati Uniti, ma ciò si rivelò incompatibile con il varo della riforma agraria, che espropriò 600 000 ettari di canna da zucchero alle grandi compagnie statunitensi. Questo suscitò l’immediata ostilità degli USA, che fin dal 1960 sospesero gli aiuti tecnici e boicottarono lo zucchero cubano, e nel 1961 (Baia dei Porci), tentarono senza successo di rovesciare militarmente il regime di Castro, spingendo Cuba verso l’orbita sovietica, e verso l’instaurazione di un regime socialista chiuso e repressivo nei confronti di qualsiasi dissidenza. Gli Stati Uniti, minacciati nei loro interessi economici, dichiarano nel maggio del 1961 un feroce embargo contro tutte le produzioni cubane. Castro tentò di sfuggire all’isolamento commerciale alleandosi con l’Unione Sovietica di Kruscev. Questa scelta comportò però la sovietizzazione della rivoluzione cubana, la limitazione del pluralismo politico, la centralizzazione e burocratizzazione dell’apparato amministrativo. L’embargo fra l’altro mise in crisi la crescita economica dei primi anni; le spese militari aumentarono. Il successo delle riforme sociali, con l’alfabetizzazione di massa e un sistema di sanità pubblica, senza paragone in tutta l’area caraibica, si accompagnò al fallimento delle politiche di diversificazione economica.

Nell’ottobre del 1962 Cuba fu al centro di una crisi internazionale, in seguito al rilevamento americano di basi missilistiche nucleari sovietiche nell’isola. La tensione diminuì grazie al raggiungimento degli accordi che prevedevano lo smantellamento delle basi sovietiche a Cuba e il riconoscimento dell’indipendenza cubana da parte degli americani. Tuttavia la pressione economica americana su Cuba continuò. Da parte sua, Castro appoggiò per un decennio i movimenti rivoluzionari dell’America Latina e ospitò all’Avana la conferenza tricontinentale (1966) in cui cercava di collegare i problemi del sottosviluppo dei tre continenti.

L’America Latina tra democrazia e regimi militari

René Barrientos Ortuño: Durante il suo governo nominò il criminale nazista Klaus Barbie, che in Bolivia si faceva chiamare Klaus Altmann, presidente della società di navigazione boliviana (Transmaritima); fu lo stesso Barrientos a ordinare l'esecuzione sommaria del Che - catturato ferito il giorno prima - il 9 ottobre del 1967 a La Higuera

Se alla fine degli anni cinquanta la rivoluzione cubana mise radicalmente in discussione la politica nordamericana, negli altri stati si affermarono dittature militari o regimi di tipo populista. Basate sul sostegno politico dei ceti popolari urbani e sulla forza degli eserciti, queste forme di governo tentarono di pilotare il processo di industrializzazione, una fase caratterizzata dall’instabilità politica e da forti tensioni sociali. Se riuscì a formarsi una nuova borghesia industriale, i costi maggiori di queste politiche furono pagati dai ceti rurali. Negli anni ‘60, le diverse forme di statalismo economico e di legislazione sociale, la retorica populista contro le oligarchie e l’imperialismo statunitense, le politiche clientelari che favorivano la costruzione del consenso, entrarono però in crisi, mentre le esigenze della competizione col blocco sovietico inducevano gli USA a nuovi e pesanti interventi. In America Latina, la commistione tra interessi economici e politici degli Stati Uniti emerse con particolare chiarezza e drammaticità. La saldatura tra ceti dominanti locali e interessi statunitensi portò all’instaurazione di molti regimi militari (Argentina, Brasile, Bolivia dove nel 1967 fu ucciso “Che” Guevara), come argine a qualsiasi tentativo di riforma sociale, che ne mettesse in dubbio la supremazia. Agitazioni studentesche attraversarono tutta l’America Latina (Messico 1968) e vennero organizzandosi movimenti di guerriglia (Salvador e Nicaragua), talvolta, appoggiati dal blocco socialista, determinando una forte instabilità. Ma i regimi dittatoriali sudamericani riuscirono ad avere la meglio non solo grazie al sostegno dei militari ma anche grazie agli interessi economici nordamericani da cui furono finanziati e favoriti.

L’Asia

Indira Gandhi con Jacqueline Kenney a New Delhi, 1962

La decisione di costituire in India uno stato separato dei musulmani (Pakistan) fu accettata giuridicamente e politicamente, ma mai legittimata moralmente dai nazionalisti indiani, schierati per un’India unita e non confessionale. Dopo l’indipendenza, divenne motivo di tensione tra i due paesi il Kashmir, abitato da musulmani e passato all’India per meccanismi giuridici validi ma non per volontà popolare. Il Kashmir in India era questione di principio per i governanti indiani, quale prova del carattere multiconfessionale del paese e delle garanzie prestate alla minoranza musulmana che, sparsa in quasi tutte le regioni, rappresentava il 12% degli indiani. Per il Kashmir India e Pakistan combatterono negli anni successivi all’indipendenza e poi di nuovo nel 1965, ma motivi confessionali e interferenze pakistane crearono nella regione un continuo stato di tensione. I piani quinquennali di sviluppo attivati dal governo di Javaharlal Nehru ottennero risultati apprezzabili ma inadeguati rispetto alla tremenda gravità e complessità della situazione: ancora nel 1962, per nutrire una popolazione di 439 milioni di abitanti, venivano prodotte appena 11,6 milioni di tonnellate di grano e 33,5 milioni di tonnellate di riso, mentre le terre incolte raggiungevano la cifra di quaranta milioni di ettari. Nel 1966, morì il primo ministro Shastri, successore di Nehru dal ‘64: gli successe Indira Gandhi figlia di Nehru, una delle prime donne a governare uno Stato.

In Indonesia, dopo aver partecipato al governo di Sukarno, i comunisti, in seguito all’instaurazione della dittatura di Suharto nel 1965, furono oggetto di una durissima repressione. Nel tentativo di evitare l’esplosione definitiva del conflitto, Sukarno aveva cercato di farsi garante di una sorta di equilibrio fra le parti, attuando una politica equidistante che potremmo definire di “democrazia guidata”. Egli riuscì a unificare le varie componenti etniche, politiche e religiose sotto il suo governo. Dovendo fare i conti con il più forte partito comunista asiatico dopo quello cinese, perseguì una politica estera fondata sull’appoggio della Cina e dell’URSS, stringendo tuttavia anche rapporti con gli USA. Scoppiato il conflitto con il Vietnam, gli americani divennero sempre più diffidenti verso Sukarno, considerato troppo filo-comunista. Nel 1965 il generale Suharto, appoggiato dagli USA, guidò un colpo di stato militare che portò al rovesciamento del governo Sukarno. I comunisti, e le organizzazioni ad essi collegate, furono sottoposti ad una sanguinosa repressione, che causò oltre 500.000 vittime. Suharto, adottò una politica nettamente anticomunista e filo-americana, ricercando l’appoggio dei capitali occidentali.

La guerra dei 6 giorni: tutti contro Israele

Carri armati avanzano nel deserto

Pressioni egiziane per il ritiro delle forze ONU, l’aumento della presenza militare araba alle frontiere israeliane e il blocco navale egiziano del golfo di Aqaba, vitale per i rifornimenti allo stato ebraico, indussero Israele a lanciare un attacco preventivo contro l’Egitto il 5 giugno 1967. Sebbene anche Giordania e Siria fossero scese in campo contro l’esercito israeliano, i paesi arabi vennero sconfitti in una guerra lampo durata soltanto sei giorni. Al termine del conflitto, le truppe di Tel Aviv, coordinate dal comandante supremo Moshe Dayan, occuparono l’intera città di Gerusalemme, il Sinai, la Cisgiordania e le alture del Golan. “La guerra dei sei giorni” aggravò i rapporti arabo-israeliani, e soprattutto, inasprì i metodi di lotta. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nata nel 1964 con l’obiettivo di coordinare le attività di guerriglia anti-israeliane di tutti gli stati arabi, si trovò isolata ed ebbe dei contrasti, molto accesi, anche con la Giordania, che ospitava in gran numero dei profughi palestinesi.

Pochi anni prima, nel 1956, era nato il Movimento per la liberazione della Palestina (Al-Fatah, “la conquista”), di cui divenne leader Yasser Arafat. Dotata di un’organizzazione militare, questa formazione collaborò con le forze armate dei paesi arabi e intraprese una lotta anche all’interno delle zone sotto il controllo israeliano. Le cose non migliorano quando lo stesso Arafat assunse la presidenza dell’OLP (3 febbraio 1969).

Gli sviluppi e gli effetti della questione palestinese non rimasero contenuti all’interno dei confini israeliani, ma pesarono fortemente sull’insieme dei rapporti tra gli stati mediorientali, incidendo in maniera particolare su alcuni di essi. E’ quanto avvenne in Libano, un paese in cui convivevano da molti secoli una comunità islamica, una cristiano-maronita e una drusa. A partire dal 1967, dopo la guerra arabo-israeliana, iniziarono ad affluire nel paese numerosi profughi palestinesi, che fecero aumentare il peso dei musulmani e provocarono la rottura del fragile compromesso che fino a quel momento aveva garantito la convivenza delle diverse comunità.

Africa: il decennio dell’indipendenza

Donna nigeriana severamente malnutrita

La decolonizzazione africana ebbe caratteristiche diverse da quella in Asia, così come diverse erano le società coloniali dei due continenti. La saldatura tra rivendicazioni indipendentiste e identità nazionali presente in Asia fu quasi del tutto assente in Africa, dove le società locali erano estremamente disomogenee etnicamente, linguisticamente e dal punto di vista religioso. Le colonie occidentali dell’Africa sub sahariana erano state il prodotto di una spartizione territoriale, che non corrispondeva all’esistenza di identità distinte. Spesso, l’unico riferimento culturale comune sgorgava proprio dalla lingua della potenza coloniale di riferimento. Le rivendicazioni indipendentiste scaturirono, quindi, più dall’esistenza di élite inserite nelle strutture del governo coloniale, che da un’aspirazione diffusa tra la popolazione. I paesi del Maghreb francese, d’altro canto, possedevano un’identità araba ben definita e strutture sociali precoloniali che, nel complesso, non erano state modificate dalla dominazione francese.

In Africa, perciò, l’aspirazione all’indipendenza prese strade molteplici, come il panafricanismo vagheggiato nelle colonie sub sahariane francesi, o la salvaguardia degli interessi di potere di particolari ceti ed etnie nell’Africa britannica, dove esistevano consistenti minoranze arabe e indiane. Nel complesso, comunque, la decolonizzazione africana, iniziata negli anni Cinquanta e sostanzialmente completata entro il decennio successivo (le colonie portoghesi di Angola e Mozambico, tuttavia, divennero indipendenti dopo una lunga guerriglia solo nel 1975), ha seguito un cammino meno traumatico che in Asia, con alcune drammatiche eccezioni. La mancata risoluzione dei problemi economici e sociali, però, ha prodotto talvolta condizioni di forte instabilità e, in molte nazioni, la sovrapposizione artificiale di strutture statali a società arretrate e del tutto disomogenee ha avuto riflesso in numerosi colpi di stato e in esplosioni ripetute di sanguinosi conflitti tribali. Per esempio, spicca il caso della Nigeria: ottenuta la piena indipendenza nel 1960 (anno in cui ben 17 stati si resero indipendente), tre popoli totalmente diversi, gli Hausa, gli Yoruba e gli Ibo, costituivano gran parte della popolazione. Nel corso degli anni ‘60 questi popoli si combatterono prima sotto forma di guerriglia, poi con una guerra vera e propria che alla fine del decennio fece decine di migliaia di vittime, a cui si aggiunse una grave carestia che colpì la regione del Biafra.

Nel 1960 un’altra sanguinosa guerra civile era scoppiata in Congo, dove all’indomani della dichiarazione di indipendenza, il leader Ciombè proclamò l’indipendenza della regione del Katanga dopo aver fatto dimettere e poi assassinare l’ex primo ministro Lumumba. Nel ‘64 i lumumbisti dettero vita ad un nuovo moto separatista e costituirono la Repubblica popolare congolese, ma un intervento belga soffocò la secessione.

Dalla battaglia di Algeri ai regimi dell’apartheid

Balthazar Johannes Vorster, primo ministro sudafricano dal 1966 al 1978 e presidente nel 1979-79: fu un'importante figura del nazionalismo afrikaner e uno dei principali fautori del regime dell'apartheid

Nel 1958, mentre ad Algeri i metodi repressivi dei reparti militari francesi raggiunsero forme di crudeltà tali da far meritare pienamente al conflitto algerino la definizione di “sporca guerra”, gli stessi coloni costituirono un “Comitato di salute pubblica”, per opporsi anche con la forza a qualunque iniziativa del governo che avrebbe potuto rappresentare una capitolazione. Contro la loro volontà si scontrò l’azione di de Gaulle, il quale, sebbene ritornato al potere su invocazione delle destre proprio per salvare la causa dell’“Algeria francese”, era consapevole dell’impossibilità di continuare a negare l’indipendenza al paese africano. Due gravi pronunciamenti dei coloni e dell’esercito vennero sventati nel 1960 e nel 1961; subito dopo prese il via l’azione terroristica dell’OAS (Organisation Armée Secrète), un’organizzazione fascista che scatenò una campagna di distruzione di scuole, ospedali e edifici pubblici in genere - secondo la tattica della “terra bruciata” - specialmente dopo l’avvio dei colloqui di pace tra governo francese e FLN. Tuttavia, nonostante la tensione creata dalla destra, il 18 marzo 1962 furono firmati gli accordi di Evian che posero fine all’occupazione francese, e il 1° luglio dello stesso anno un referendum popolare decretò l’indipendenza dell’Algeria.

In generale, la decolonizzazione britannica in Africa procedette in modo meno traumatico di quella dei possedimenti francesi. Con l’eccezione del Kenia, le colonie inglesi raggiunsero l’indipendenza in modo sostanzialmente pacifico. Un capitolo a parte di tale processo fu, però, la formazione della Rhodesia del sud, retta da un regime basato su una politica di stretta segregazione razziale, modellata sull’apartheid sudafricano. La forte minoranza di coloni bianchi (più di mezzo milione contro i quasi due milioni di africani) proclamò unilateralmente l’indipendenza, nel 1965, sfidando la Gran Bretagna che premeva per l’abolizione del regime segregazionista. Nel ‘66 l’ONU, su proposta britannica, adottò sanzioni economiche contro il governo razzista della Rhodesia, che si staccò dal Commonwealth.

Quanto al Sudafrica, dominio britannico, anch’esso staccatosi dal Commonwealth nel 1961, aveva istituzionalizzato il regime dell’apartheid fin dal 1948, per rafforzare il controllo sociale sulla manodopera nera, utilizzata da un’industria in crescita, in una fase di forte urbanizzazione. Nel 1959 furono costituiti alcuni Bantustan, territori riservati ai neri e dotati di alcune forme di autogoverno, che non sono mai stati riconosciuti internazionalmente. La politica di apartheid divenne sempre più rigida, tanto da provocare una condanna da parte delle Nazioni Unite nel 1962: i paesi membri vennero invitati a rompere le relazioni diplomatiche con il Sudafrica e a boicottarlo economicamente. Nel frattempo la maggioranza nera del paese si organizzò sotto la guida di Albert J. Luthuli, leader dell’ANC (African National Congress), e si avviò una campagna di disobbedienza civile. Il movimento venne represso crudelmente e Luthuli fu processato per alto tradimento. Alla metà degli anni ‘60 l’ANC e il PAC, una costola dello stesso movimento, passarono, sotto la guida di Nelson Mandela, alla lotta armata. Vi fu però un nuovo nemico da affrontare: il partito Inkhata, fondato dal capo zulù M. Buthelezi, che, fiancheggiato da gruppi paramilitari, organizzava attentati contro i leader dell’ANC.

Un paese ignoto: la Cina della Rivoluzione culturale

Il cimitero di Confucio su assalito dale Guardie Rosse nel novembre 1966

Il fallimento del “grande balzo in avanti” provocò una forte crisi del sistema produttivo culminata in una carestia, costata circa venti milioni di morti. La classe dirigente cinese iniziò a porsi interrogativi sulla opportunità di proseguire la linea di politica estera già delineata da Mao, contrario alla destalinizzazione di Kruscev, di chiusura nei confronti dell’Unione Sovietica. La drammaticità della situazione economica (dai 250 milioni di tonnellate del 1958 la produzione di cereali crollò ai 180 milioni del 1961), aggravata dal ritiro dei consiglieri sovietici che paralizzò centinaia di programmi industriali e scientifici, ebbe serie ripercussioni al vertice del partito e del governo. I sovietici rifiutarono ai cinesi anche qualsiasi assistenza in campo nucleare, non impedendo tuttavia alla Cina la realizzazione della prima bomba atomica fatta esplodere sperimentalmente nel 1964. Pochi anni dopo, nel 1969 vennero addirittura rimessi in discussioni gli ottocenteschi confini tra i due paesi, portando a scontri armati ai confini tra Siberia e Manciuria.

La “rivoluzione culturale” nella Repubblica popolare cinese ebbe inizio alla metà degli anni ‘60 sullo sfondo della guerra nel Vietnam, e nel pieno della polemica fra dirigenti del partito comunista cinese e i sovietici, accusati di aver rinunciato al socialismo e ai principi egualitari all’interno del paese, e alla rivoluzione anti-imperialista a livello internazionale. Gli ideali della “rivoluzione culturale” proposti da Mao trovarono rispondenza primaria tra i giovani della società urbana, sottoposti a molti condizionamenti e frustrazioni e anche a difficili prospettive occupazionali, ma si saldarono con la vena profonda di egualitarismo che proveniva dai contadini poveri che erano stati protagonisti della rivoluzione. Questa duplice spinta si estrinsecò in una generalizzata denuncia della cultura tradizionale e degli intellettuali, portando a molti episodi di violenza spesso insensati e a oggettivi danni sociali (come la chiusura delle scuole). A questi reali fattori sociali di tensione si combinarono poi i giochi di potere esistenti all’interno del partito comunista, destinati a ripercuotersi ad ogni livello della società, anche per meccanismi perversi “di gruppo” e per la diffusa cultura del sospetto. La “rivoluzione culturale” fu certamente un fenomeno complesso, lotta di potere tra fazioni del partito comunista, ma anche scontro tra visioni diverse del futuro della Cina rivoluzionaria. Essa si concretizzò in un vasto movimento giovanile, spontaneo nell’apparenza, ma in realtà ispirato, invocato ed organizzato da Mao stesso, che, nel rilanciare l’autentico pensiero del “grande timoniere”, si opponeva ad ogni potere burocratico. Strumenti della rivoluzione culturale furono la gogna, utilizzata per condannare in pubblico i “nemici del popolo”, i “ta-tze-bao” e il “libretto rosso” dove erano contenute le massime di Mao.

Da una parte, con Mao, stavano i sostenitori di una società collettivista e fortemente ugualitaria basata sui ceti contadini, che impedisse anche le degenerazioni del potere comunista in senso burocratico e di casta, come si sosteneva essere accaduto in URSS; dall’altra, stava chi, preoccupato della sicurezza della nazione e fautore di un’ordinata crescita economica, sosteneva la priorità dell’industrializzazione, anche a costo di reintrodurre disuguaglianze sociali e aprendo al libero mercato. Dal 1965 alla fine del decennio, le cosiddette “guardie rosse”, per lo più studenti e giovani operai, divennero il megafono delle campagne maoiste contro i dirigenti moderati che furono contestati, emarginati e esautorati. Il caos economico e politico, prodotto dalla disarticolazione del partito, che preoccupava particolarmente le forze armate, spinse lo stesso Mao a chiudere la fase della “rivoluzione culturale”, nel 1969.

Lo sviluppo economico del Giappone

L'economica Nissan Sunny divenne ben presto il simbolo del ceto medio giapponese negli anni '60

Avviatosi negli anni ‘50, in particolare nel corso della guerra di Corea (1950-53) in cui il paese del Sol Levante svolse l’essenziale ruolo di fornitore di basi e beni per le truppe americane, portò il Giappone a diventare, negli anni ‘70, la seconda potenza industriale mondiale dopo gli USA.

Ai liberali succedettero i liberaldemocratici, i quali avviarono una politica più autonoma dagli Stati Uniti, specialmente nel settore del commercio con l’estero e, forti dello sviluppo ormai assunto da tutto l’apparato produttivo soprattutto dopo la crisi coreana, si interessano a progetti a largo raggio in tutto il sud-est asiatico, intrecciando relazioni commerciali anche con l’URSS e con la Cina popolare. Lo stato intervenne direttamente nella gestione economica del paese; furono rinforzate le politiche protezionistiche e favorita la produzione di beni di consumo, con un’attenzione particolare per i settori industriali a più alta concentrazione tecnologica. Alla base di questa crescita, c’era una politica economica fondata sulla limitatezza del mercato interno e una struttura industriale “bipolare”, formata da alcune grandi concentrazioni (i complessi industriali-finanziari noti come zaibatsu) e una rete di piccole e medie aziende. Ciò consentì di ottenere una rilevante presenza sul mercato internazionale, e quindi di bilanciare le importazioni di materie prime, di cui il Giappone era carente, mantenendo forti attivi nella bilancia commerciale. In pochi anni, il Giappone divenne il maggiore esportatore del pianeta. Con particolari forme di organizzazione produttiva (al “fordismo” si contrappose il ‘toyotismo’, un modello di produzione e di vita aziendale più flessibile in grado di produrre merci differenziate al fine di rispondere a un mercato più incerto e instabile), fornite di personale altamente qualificato e flessibile, le industrie nipponiche vissero, negli anni Sessanta, una crescita impressionante, valutata con percentuali doppie rispetto a quelle dei paesi occidentali, nella stessa fase di sviluppo. Furono però notevoli anche i costi sociali e ambientali pagati dalla popolazione: la mancanza di un ricambio generò tuttavia un alto livello di corruzione, a cui si aggiunse la presenza di un sistema istituzionale non sufficientemente democratico, che non garantiva pienamente alcune libertà, ad esempio quelle sindacali.

La rinascita della grandeur francese di De Gaulle

Charles De Gaulle

Nel 1958, sotto l’infuriare della guerra d’Algeria e in presenza di minacce golpiste che avrebbero potuto portare il paese verso una guerra civile, l’ultimo primo ministro della Quarta Repubblica, Pierre Pflimlin, passò l’incarico a de Gaulle, il quale promosse la riforma della costituzione e la nascita della Quinta Repubblica. La nuova costituzione istituì una repubblica di tipo presidenziale (definita da alcuni storici una “monarchia repubblicana”), e fu approvata per referendum il 28 novembre dello stesso anno: si fondava sull’accentramento dei poteri dell’esecutivo e del presidente della Repubblica. De Gaulle, presidente dal 1958 al 1969, chiuse provvisoriamente la questione algerina, ottenne un ampio consenso popolare e imbastì una politica estera mirata a rinnovare la “grandezza” francese, distinguendosi dalle forze della NATO e dei paesi più filo-atlantici. Dopo circa un decennio di stabilità, il paese affrontò le violente manifestazioni studentesche del maggio 1968, seguite da uno sciopero generale che paralizzò l’intera nazione. Ottenuto un successo schiacciante alle elezioni generali straordinarie del 30 giugno ‘68, de Gaulle si dimise tuttavia nell’aprile del 1969 in seguito al referendum popolare che respingeva la riforma dell’ordinamento regionale e del senato. Il 15 giugno dello stesso anno Georges Pompidou fu eletto presidente della Repubblica.

Il decennio che trasformò l’Italia

Aldo Moro e Francesco Cossiga

Se durante la seconda guerra mondiale l’Italia poteva apparire poco diversa da quella del secolo precedente, tra gli anni ‘50 e ‘60 visse la trasformazione più radicale della sua storia recente. Superata la difficile congiuntura del dopo guerra, lo sviluppo industriale ed economico assunse caratteri vertiginosi. Crebbero le esportazioni, i tassi di produttività (dal 1959 al 1963 la produzione di autoveicoli quintuplicò) e i consumi dei beni durevoli (i frigoriferi da 370.000 divennero un milione e mezzo e le automobili, da 88.000, 634.000). Travolta da un tumultuoso e disordinato processo di urbanizzazione e di emigrazione di manodopera dalle regioni più arretrate verso i poli industriali del nord, scomparve la secolare civiltà contadina italiana. In dieci anni, gli occupati in agricoltura scesero dal 40% al 25% del totale degli attivi. Trasformazioni radicali investirono le forme di produzione e di consumo. Comparvero nuovi gusti e nuovi bisogni. Si diffusero modelli di vita “all’americana” e la televisione irruppe negli spazi pubblici e privati. Tuttavia, col “miracolo economico”, l’Italia non risolse molti dei suoi vecchi problemi. Diminuì la povertà, ma divennero più visibili le distanze economiche tra i gruppi sociali e le diverse regioni della penisola, mentre il sistema politico rimaneva bloccato e molte domande sociali inevase.

A seguito del miracolo economico di quegli anni, di recente si è parlato delle “tre Italie” che si andarono formando, dai confini certamente labili ma, grosso modo, identificabili anche geograficamente: l’Italia del Nord-Ovest, caratterizzata da importanti processi di urbanizzazione e immigrazione, da grosse concentrazioni industriali di tipo fordista, da agglomerazioni metropolitane che ricordavano quelle di molti altri paesi europei; l’Italia del Centro e del Nord-Est, segnata da una dinamica crescita industriale trainata da reti di piccole e medie imprese distribuite sul territorio, con un processo di industrializzazione diffusa che cambiò, senza fratture irreparabili, i tratti di una campagna divenuta urbanizzata; l’Italia del Sud e delle isole, rimasta nel suo insieme ai margini dello sviluppo economico e dissanguata dall’emigrazione di manodopera. Il Lazio è stato considerato un caso particolare per il peso specifico dovuto alla presenza di Roma, la città capitale. Le eccezioni e i confini interni a questa suddivisione potrebbero essere numerosi, ma questa lettura ha il merito di offrire una prospettiva d’insieme per comprendere le caratteristiche di un paese che in pochi anni è passato da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale e, successivamente, postindustriale, attraverso una “grande trasformazione” assolutamente originale.

Dal centro-sinistra alla “strategia della tensione”

L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura dopo l'attentato

La netta flessione della DC nelle elezioni del 1953, rese evidente che solo un ampliamento della coalizione avrebbe permesso il rafforzamento del governo. Le premesse del superamento della formula del centrismo furono individuate nella linea dell’accordo DC-PSI lanciata da Aldo Moro al congresso democristiano dell’ottobre 1959: il paese subì tuttavia una brusca sterzata a destra con il governo monocolore presieduto da Fernando Tambroni nel ‘60, e sostenuto dai neofascisti del MSI e dai monarchici, durante il quale manifestazioni popolari furono duramente represse dalla polizia. Verificata l’improponibilità di un’alternativa di destra, la DC si convinse ad aprire l’area di governo alla sinistra moderata, il PSI di Pietro Nenni. La costituzione di giunte di centrosinistra a Milano, Firenze e Genova anticipò a livello locale quanto si sarebbe realizzato in Parlamento dal 1962. Nel marzo di quell’anno, l’astensione del PSI consentì la creazione di un governo costituito da DC, PRI e PSDI. La nascita del centrosinistra si giovò del mutato atteggiamento della Chiesa cattolica sotto il pontificato di Giovanni XXIII, la cui enciclica Pacem in terris (1963) propugnava il rifiuto della logica della Guerra Fredda, e dell’avallo degli Stati Uniti, che vedevano nell’apertura al PSI un mezzo per isolare il PCI nella politica italiana.

In quegli stessi anni il paese attraversò un sensibile miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e un’espansione dei consumi, entrando nel gruppo delle nazioni più industrializzate del mondo. Le aspettative riformiste dei governi di centrosinistra, guidati dai democristiani Amintore Fanfani (1962-63) e Aldo Moro (1963-68), andarono sostanzialmente deluse. Il governo Fanfani nazionalizzò l’energia elettrica, promosse una riforma scolastica che innalzò l’obbligo della frequenza a 14 anni e istituì la scuola media unica. L’iniziativa riformatrice del centrosinistra giunse però ad arenarsi durante i tre mandati di Moro. L’instaurazione delle amministrazioni regionali – come previsto dalla costituzione e chiesto dal PSI, che ne aveva fatto un punto qualificante della propria partecipazione al governo Moro – fu rimandata al 1970. Venne inoltre affossata la riforma sulla pianificazione urbanistica proposta dal Ministro dei lavori pubblici, Fiorentino Sullo, per combattere la speculazione edilizia. Il governo ricorse anche misure deflazionistiche per arginare la recessione economica del 1963-64, e cercò di soffocare lo scandalo SIFAR (1967). Con la pesante sconfitta elettorale socialista alle elezioni del 19 maggio 1968, l’asse politico del paese fu destinato a spostarsi progressivamente a destra, mentre a sinistra il Partito comunista continuava ad aumentare i suoi consensi; si assistette alla nascita di una sinistra extraparlamentare. L’incapacità dei governi di centrosinistra di affrontare gli squilibri del paese sfociò nella contestazione studentesca e nelle manifestazioni operaie del 1968 e 1969: le lotte dei lavoratori raggiunsero livelli di estrema acutezza in autunno, causando un numero elevatissimo di ore di sciopero nei successivi dodici mesi. Ne derivò un allineamento dei salari ai livelli europei e un miglioramento delle condizioni generali di lavoro. Nel 1969, con la strage di Piazza Fontana, si aprì la “strategia della tensione” che puntava a contrastare l’avanzata delle sinistre. Iniziò, così, una fase di instabilità politica.

Il 1968: scontro tra generazioni

La polizia carica la folla di studenti

Le radici dei movimenti del ‘68 si possono individuare nelle profonde trasformazioni della società di massa del dopoguerra; esse avevano condotto alla formazione di un ceto giovanile con un’identità autonoma, che espresse forti richieste di trasformazione politica e culturale. Partita dalle università, la contestazione riguardò dapprima l’inadeguatezza e l’elitarismo delle istituzioni educative, per poi formulare analisi e obiettivi più radicali, tra cui la netta opposizione all’intervento militare americano in Vietnam. Nel sistema scolastico fu individuato un mero strumento di “riproduzione degli schemi e dei meccanismi di funzionamento della società capitalista”; la critica si estese alla famiglia “tradizionale e patriarcale”, vista come cellula che rispecchiava gli stessi modelli autoritari che strutturavano i rapporti di potere fra le classi. Le masse studentesche che nel 1968 riempirono le piazze americane, francesi, tedesche, italiane, inglesi, spagnole, cecoslovacche, cinesi, giapponesi e messicane, furono spesso animate dal confuso sentimento di essere parte dell’avanguardia di un’epoca nuova, di costituire il segnale di una rivoluzione imminente.

Il ‘68 fu connotato da molteplici accezioni: ad un’anima politica, tesa ad una radicale trasformazione del sistema, se ne intrecciò una “controculturale”, fondata sulla proposta di modelli culturali e stili di vita “alternativi a quelli borghesi”; mentre negli USA, in Francia e in Germania l’ondata di protesta scosse la società per una breve stagione, in Italia si prolungò negli anni successivi, incontrandosi con la mobilitazione operaia. Fra gli elementi comuni si possono individuare sia l’utopia di una liberazione dell’individuo, da perseguire nel presente attraverso il distacco critico dai meccanismi oppressivi che tendevano a riprodurre un’umanità alienata e passiva, sia la sensazione di partecipare ad un movimento rivoluzionario “planetario”, che superava i confini fra le nazioni per proporre una circolarità di messaggi e di simboli. Nonostante il mancato raggiungimento degli obiettivi iniziali e il conseguente riflusso, i movimenti del ‘68 contribuirono a modificare profondamente i costumi sessuali, l’istituzione familiare, i modelli educativi e la produzione culturale di massa delle società occidentali.

Ma le differenze sostanziali tra gli scenari nazionali furono perlomeno altrettanto forti, e portarono a esiti estremamente diversificati. Negli Stati Uniti il movimento studentesco, legato alla controcultura in modo del tutto diverso che in Europa, si rivelò storicamente meno significativo delle lotte per i diritti civili dei neri; in Giappone, la componente antiamericana della mobilitazione prevalse sul radicalismo politico, pure estremamente acceso; in Messico, l’impatto provocato dalla sanguinosa repressione della polizia contro gli studenti della capitale, che segnò l’inizio di una nuova fase della vita politica messicana, dimostrò l’importanza acquisita dal ceto studentesco nelle strategie di modernizzazione di un paese in via di sviluppo.

In retrospettiva, se è possibile trovare un dato unificante nella protesta studentesca divampata tra la metà degli anni Sessanta e gli inizi del decennio successivo, questo va forse cercato nella profonda novità costituita dall’esistenza stessa di un ceto studentesco di massa, nella precarietà di un gruppo sociale separato anagraficamente e per esperienze di vita dalle società circostanti, privo di una collocazione e di un futuro certi in un’epoca di mutamenti che pure lo aveva generato. L’evento ‘68 ha lasciato impronte profonde nella memoria contemporanea affermandosi sulla scena politica come il primo movimento giovanile ad avere un forte impatto internazionale. Tra la fine del 1967 e l’autunno 1968 le agitazioni promosse dagli studenti interessarono gran parte del pianeta. Il carattere marcatamente “generazionale” del movimento contribuì ad aggregare, intorno ad obiettivi comuni, realtà geografiche anche molto distanti. In tal senso il ‘68 può essere considerato come uno dei primi eventi “globali” della società contemporanea, interprete di un livello di sviluppo in rapida accelerazione.

Il maggio francese

"È vietato vietare", uno dei più famosi slogal del "maggio parigino"

In Francia vaste aree dell’opinione pubblica esprimevano un’insoddisfazione sempre più profonda. Studenti, intellettuali, operai, se da un lato si opponevano al gollismo ravvisando in esso un forte conservatorismo sociale, criticavano i partiti e i sindacati della sinistra, ritenuti incapaci di contrastare la politica del governo. Nel maggio 1968 esplose un movimento che, partito in marzo dall’università di Nanterre e dal Quartiere Latino di Parigi, si diffuse in tutto il paese. La protesta nasceva da rivendicazioni comuni a quelle dei movimenti studenteschi di altri paesi, quali la critica all’inadeguatezza della didattica e delle strutture universitarie: gli studenti elaborarono parole d’ordine libertarie e antiautoritarie. Emersero leader come Daniel Cohn-Bendit. Si assistette ad occupazioni delle università e delle scuole, a barricate e scontri di piazza, mentre gli interventi di polizia alimentavano la rivolta. Esplose anche la protesta operaia, in crescita da qualche anno per le ristrutturazioni industriali: gli scioperi paralizzarono il paese, ma non ci fu una saldatura fra operai e studenti. I comunisti e i sindacati si dimostrarono diffidenti verso un movimento che ne metteva in discussione il ruolo e rivendicava una propria autonomia. De Gaulle reagì con forza e intelligenza; sciolse l’Assemblea Nazionale e indisse nuove elezioni agitando di fronte all’opinione pubblica moderata lo spettro della sovversione. Ottenuta un’ampia maggioranza, tentò di disinnescare il movimento operando alcune riforme, come quella universitaria, l’introduzione di nuovi diritti sindacali e di aumenti salariali. Il “maggio parigino” fu un episodio breve, che ebbe però una forte risonanza internazionale e mise in difficoltà la dirigenza gollista, accelerando l’uscita di scena del presidente. A Parigi, nella prima metà di maggio, scontri violenti tra polizia e studenti, soprattutto nel Quartiere Latino, si ripeterono quasi ogni giorno, creando una diffusa simpatia per le proteste giovanili nella popolazione. Il 13 maggio, decennale della presa del potere del generale De Gaulle, il movimento cominciò ad estendersi al mondo del lavoro. Dapprima furono occupati dai lavoratori i grandi stabilimenti industriali di Parigi, poi in tutta la Francia gli operai, ma anche i tecnici, gli intellettuali e i dipendenti statali, entrarono in agitazione, determinando una situazione insurrezionale in gran parte spontanea, come non si era mai verificata in occidente dai tempi del biennio rosso. Il 20 maggio, gli scioperi coinvolsero fino a dieci milioni di persone scesi in piazza per protestare contro l’autoritarismo paternalistico del presidente de Gaulle e per chiedere miglioramenti normativi e salariali. Tali miglioramenti vennero in parte ottenuti il 27 maggio, e riguardarono anche assicuratori, bancari, giornalisti, insegnanti. Il paese rischiò la paralisi totale. Per risolvere la crisi, de Gaulle, forte dell’appoggio dei settori militari, sciolse il parlamento e indisse nuove elezioni, appellandosi contro la sovversione alla “maggioranza silenziosa”, la quale ascoltò la voce del generale riversando sulle sue liste quasi la metà dei voti, mentre i sindacati e i partiti della sinistra storica erano impegnati in un’azione persuasiva per il ritorno alla normalità. A metà giugno la ribellione era di fatto conclusa. La vittoria di de Gaulle non durò però a lungo: l’anno successivo, sconfitto in un referendum, il generale si ritirava definitivamente a vita privata.

La Primavera di Praga

Folla di dimostranti che circondano alcuni carri armati sovietici durante i primi giorni dell'invasione

Il 1968 vide in Cecoslovacchia l’affermazione di un forte movimento di critica all’immobilismo e all’autoritarismo dello stato socialista e della vecchia leadership. All’interno del partito si aprì lo scontro tra gli stalinisti di Novotny, legati all’URSS di Breznev, e un gruppo di riformisti guidati da Alexander Dubcek, fautore di una progressiva separazione del ruolo e del potere del partito dagli organismi istituzionali e dal governo, e di una decisa riforma dell’economia. La nomina di Dubcek alla segreteria del PCC il 5 gennaio, accelerò le spinta alla modernizzazione. In primavera, con la caduta del governo controllato dagli uomini di Novotny, il nuovo corso raggiunse il suo culmine, sostenuto da un vasto consenso popolare che vide in prima fila gli studenti e una nuova generazione di intellettuali e artisti. Si favorì l’introduzione cauta e sperimentale di forme di pluralismo e di libertà d’opinione. In giugno nacquero, negli stabilimenti industriali più importanti (come la Ckd di Praga-Smichov e la Skoda di Pilsen), consigli operai e comitati per l’autogestione delle fabbriche. Negli stessi giorni apparve sulla stampa il “Manifesto delle 2000 parole”, sottoscritto da migliaia di esponenti del mondo della cultura, dell’arte e dello sport, nel quale si sollecitava l’accelerazione del processo di democratizzazione del paese. A luglio gli eventi precipitarono: le manovre militari del Patto di Varsavia dovevano formalmente concludersi con la fine di giugno, ma le truppe sovietiche decisero di rimanere in Cecoslovacchia. Da un vertice dei partiti comunisti a Varsavia si lanciò l’accusa che delle forze straniere stessero portando “il Paese fuori dal solco del socialismo”. Nacque in questa occasione la prima formulazione della cosiddetta “dottrina Breznev” sulla sovranità limitata dei paesi dell’est. Iniziarono convulsi colloqui bilaterali. Il 19 agosto Dubcek ricevette una dura lettera di Breznev che esprimeva “insoddisfazione” sugli sviluppi della situazione in Cecoslovacchia. Il 20 agosto truppe dell’Unione Sovietica, Polonia, Germania Orientale, Ungheria e Bulgaria invasero il paese. Il 26 agosto i dirigenti cecoslovacchi furono costretti a firmare un protocollo segreto nel quale accettarono, nella speranza di salvare il nuovo corso, l’occupazione militare finché la situazione non si fosse normalizzata. Ancora in dicembre i sindacati metalmeccanici chiesero il proseguimento della riforma economica e una legge che riconoscesse l’autogestione. La “normalizzazione”, data la vastità del movimento cecoslovacco, non fu semplice e si concluse solo nel 1969 con l’espulsione di Dubcek dal partito e numerose epurazioni.

La Primavera di Praga fu letta dai movimenti giovanili occidentali come parte della più generale contestazione verso ogni forma di potere, che nel 1968 sembrava abbattere i confini fra le nazioni e anche fra i due opposti sistemi sovietico e capitalista. Gli ideali della rivolta cecoslovacca divennero un punto di riferimento politico e ideologico che si sommava ad altri modelli forti, come il “neomarxismo” di Marcuse o il “terzomondismo”. I fatti di Praga contribuirono, insomma, a rafforzare la percezione di un movimento di rivolta che accomunava varie aree del pianeta e ad arricchire le rivendicazioni e i riferimenti ideologici dei giovani.

La Chiesa del Papa “buono”: Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II

Giovanni XXIII

Il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) fu caratterizzato da un intenso sforzo di rinnovamento. Le complesse trasformazioni sociali del dopoguerra, e la progressiva laicizzazione del corpo civile, rendevano necessario un aggiornamento della dottrina; il clima di relativa distensione, dopo gli anni di guerra fredda, induceva d’altra parte a ripensare anche il ruolo della Chiesa nella politica internazionale. Nell’enciclica Mater et magistra (1961) papa Giovanni ridefiniva i capisaldi del pensiero sociale cattolico: ribadendo la condanna del comunismo e la difesa della proprietà privata, riconosceva allo stato il ruolo di controllo dell’economia e di tutela delle fasce più deboli. Nella Pacem in terris (1963) egli si pronunciava nettamente in favore delle libertà politiche e civili e contro ogni pregiudizio razziale. Il tema centrale era l’invito alla cooperazione internazionale e all’interruzione della corsa al riarmo. Egli invitava inoltre al dialogo coi non credenti, a dispetto delle tendenze integraliste ancora presenti nella Chiesa.

Il rinnovamento della dottrina cattolica trovò la principale sede istituzionale nel Concilio Vaticano II, convocato nel 1962 da Giovanni XXIII e chiuso nel dicembre 1965 sotto il pontificato di Paolo VI. Il Concilio, a cui presero parte più di 2.200 vescovi, oltre a decine di teologi e osservatori, fu un evento di grande portata per cattolici e credenti di tutto il mondo (gran parte di essi, circa i due terzi, erano extraeuropei), che incoraggiò le correnti riformistiche all’interno delle varie chiese nazionali e dimostrò l’attenzione che la Chiesa rivolgeva all’intero pianeta, anzi “all’unità del genere umano”, come fu scritto su un documento conciliare. L’assemblea affrontò una notevole varietà di temi: pacifismo, obiezione di coscienza, rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, possibilità di dialogare con altre fedi religiose, condanna della discriminazione razziale, anche quella contro gli ebrei di cui era storicamente responsabile la Chiesa stessa. Furono sancite importanti riforme interne, venne affermata l’autorità del collegio episcopale e affiancata a quella del pontefice; centrale fu inoltre l’introduzione della liturgia in lingua volgare. Si ribadiva l’impegno sociale del cattolicesimo accettando pienamente i valori del pluralismo; si riconosceva la legittimità delle opinioni dei non credenti e la necessità per i cattolici di sostituire il dialogo alla condanna. Più significativi furono gli effetti del Concilio nei Paesi del Terzo Mondo, soprattutto in America Latina, dove l’azione innovativa del cattolicesimo diventò più incisiva e diffusa. L’assemblea conciliare chiuse i battenti nel 1966.

Erano anni di grandi fermenti in tutto il mondo: le Chiese latino-americane, riunite nel 1968 a Medellin in Colombia, furono coinvolte nella “Teologia della Liberazione”. Si ebbe una diminuzione generalizzata delle vocazioni e moltissimi preti abbandonarono il ministero spesso con forme di contestazione radicale verso la Chiesa. In Olanda, tra il 1966 e il 1970, il Concilio Pastorale adottò un nuovo Catechismo, osteggiato da Roma, varò numerose riforme, sul celibato, per esempio, e sui poteri decisionali dei Consigli Diocesani, tanto che il papa inviò due vescovi conservatori per arginare la situazione. Anche in Italia (la parrocchia dell’“Isolotto” a Firenze) e in Belgio si susseguirono atti di ribellione della base cattolica contro la politica del papa. Essi culminarono con l’aspra reazione dell’opinione pubblica mondiale contro l’enciclica Humanae vitae (luglio 1968) che confermava la non liceità della contraccezione artificiale.

Costume e Società

“Purché si muova”: la società dei traporti e il boom dell’auto

Autobianchi (poi assorbita dal gruppo Fiat - Pirelli) Primula, prima vettura FIAT a trazione anteriore

L’enorme sviluppo della motorizzazione individuale negli ultimi cinquanta anni è uno dei fattori che ha maggiormente cambiato l’aspetto del pianeta, sia modificando il territorio e gli equilibri ecologici, sia giocando un ruolo fondamentale nella crescita economica dei paesi sviluppati. In Europa occidentale, ad esempio, tra il 1945 e la fine degli anni Sessanta, l’industria dell’automobile assorbì circa l’11% della produzione industriale, e ne rappresentò circa un quarto in termini di crescita. Essa svolse, inoltre, un’importante funzione di volano dell’economia rafforzata dal forte indotto nel settore delle costruzioni stradali. Nel 1964 si fabbricavano nel mondo 21.483.489 automobili di cui 1.090.078 solo in Italia. Agli inizi degli anni Settanta, l’Europa e il Giappone avevano ormai raggiunto un volume di traffico paragonabile a quello statunitense, aumentando vertiginosamente la mobilità della popolazione e la congestione del trasporto urbano.

Una diretta conseguenza dello sviluppo della motorizzazione fu la possibilità di spostarsi comodamente, raggiungendo posti turistici, evadendo dalla città, passando giorni di vacanza senza problemi di orari. Con l’utilitaria, il tempo libero, la domenica, a volte perfino la notte, diventavano ore di svago insperato in altri tempi, quando solo le persone dei ceti più abbienti potevano permettersi spostamenti continui. Diventavano sempre più popolari i termini week-end e “ponte”. Per le gite fuori porta poteva bastare il motoscooter, la Vespa, che spesso si caricava di un’intera famiglia: padre, madre e figlio. Quando arrivava la stagione delle ferie, l’automobile diventava il mezzo ideale per raggiungere i posti di villeggiatura. Iniziavano negli anni ‘60 i grandi esodi estivi dalle grandi città. Le strade cominciavano a riempirsi di macchine e si formavano file e ingorghi, a volte su provinciali ormai inadeguate al traffico in continuo aumento. Nel 1967 venne costruita l’Autostrada del Sole, da Milano a Napoli, poi allungata fino a Reggio Calabria. La necessità di autostrade si fece sentire in tutta Europa; vennero così costruite in Germania, la Renana, da Amburgo a Francoforte, e la Parigi-Lione in Francia. Le nuove reti autostradali facilitavano, oltre naturalmente agli spostamenti verso i luoghi di villeggiatura, anche la mobilità commerciale ed economica.

Il turismo di massa

Scena da Vacanze romane, di William Wyler (Paramount Pictures, 1953). Il film ebbe un notevole impatto sul turismo in Italia

L’accresciuto benessere, la diminuzione degli orari di lavoro (che tra 1960 e 1973 si accorciò di 19 nei paesi occidentali sviluppati) e la notevole espansione della popolazione studentesca hanno notevolmente dilatato il tempo libero. Ciò ha modificato le abitudini sociali, portando alla creazione di nuove forme d’intrattenimento di massa, come quelle del turismo e dello sport, talvolta con effetti di sovrapposizione come nel caso degli sport invernali e della navigazione da diporto. L’espansione dell’industria turistica è stato un fenomeno particolarmente significativo, che ha cambiato le abitudini di milioni di persone e rivoluzionato l’economia di intere regioni. Nei paesi sviluppati, questi spostamenti di massa corrisposero a un inusitato aumento del traffico aereo e, più in generale, della spesa destinata al turismo, quasi triplicata durante gli anni ‘60. Il fenomeno beneficiò le economie povere del Mediterraneo e di alcuni paesi esotici, come il Messico e le isole caraibiche.

La radicale trasformazione dei mezzi di trasporto, con la diffusione dell’automobile e dei trasporti aerei, l’invenzione del tempo libero e del concetto di “vacanze”, la diffusione del benessere a ceti anche popolari fu un insieme di fattori che portò all’inedito fenomeno del turismo di massa, effettuato in località marine o di montagna, in luoghi d’arte o in paesi esotici. Un fenomeno che modificò stili di vita e creò una vera e propria “industria del turismo”, che avrebbe fatto la fortuna anche di luoghi altrimenti posti ai margini dell’economia internazionale. I luoghi più frequentati per trascorrere le vacanze erano le stazioni termali, i paesaggi montani, ma soprattutto le località balneari. Con la diffusione di massa della vacanza al mare, in America ed in Europa si sviluppò negli anni Sessanta una vera e propria “cultura della spiaggia” fatta di canzoni, film, comportamenti e merci (giochi da spiaggia, abbronzanti, oggetti tipici) riguardanti la vacanza al mare.

Gli elettrodomestici

Parte esterna di un condizionatore d'aria

Nel mondo occidentale, il boom economico provocò inevitabilmente il fenomeno del consumismo. Sorsero le prime grandi fabbriche di elettrodomestici, sempre più richiesti perché alleggerivano il lavoro domestico. I frigoriferi, che già esistevano prima della guerra, ma con una diffusione piuttosto scarsa, entrarono nelle case di tutti, migliorati sia tecnicamente (raggiungono i 25 gradi sotto zero) che esteticamente (il design si fa più compatto, occupando meno spazio in cucina). Il vero progresso fu però quello della lavatrice automatica, che permise di evitare la snervante fatica del bucato. La prima lavatrice, ancora molto semplice, apparve sul mercato già nel 1950. In pochi anni nessuno ne poté fare a meno, anche perché in breve tempo divenne più funzionale proponendo diversi generi di lavaggio, diverse temperature dell’acqua e diverse forze di centrifuga. Anche la lavastoviglie (1962) si fece avanti, benché con una diffusione un po’ minore della lavatrice: l’idea di poter evitare la lavatura a mano di piatti e pentole convinse un numero sempre maggiore di famiglie. Altri strumenti, che già esistevano, ora divenivano elettrici, come il ferro da stiro, l’impastatrice, il ventilatore: in modo analogo, l’aspirapolvere e il battitappeto, già in commercio negli anni precedenti, ammodernati e resi più potenti e versatili, conobbero il loro boom proprio negli anni ‘60. Nel 1967 apparve sul mercato il condizionatore d’aria, che verrà usato soprattutto nei grandi alberghi e negli uffici. Altri elettrodomestici (frullatori, mix, phon, tostapane etc.) ebbero ampia diffusione e contribuirono ad enfatizzare il fenomeno del consumismo, evento tipico di quest’epoca postbellica.

Vite diverse: i pacifisti e gli “hippies”

1969: figli dei fiori al festival di Woodstock

Il pacifismo divenne un fenomeno di massa nel corso degli anni ‘60, con la guerra del Vietnam. Non appena, nel 1965, il governo americano ordinò i primi bombardamenti, iniziarono le proteste e le manifestazioni. A marzo, 25.000 giovani marciarono a New York. I pacifisti raccoglievano l’eredità del movimento per i diritti civili e contro la discriminazione razziale. Cominciarono anche le campagne per l’obiezione di coscienza: contro la grande coscrizione obbligatoria per il Vietnam, nel biennio 1965-‘67, si susseguirono i sit-in e le proteste. Le cartoline che precettavano per il servizio militare venivano bruciate in piazza; molti giovani preferirono scappare all’estero piuttosto che arruolarsi. Nell’ottobre del 1967, 100.000 persone manifestarono a Washington davanti al Pentagono. In quegli stessi anni il movimento sbarcò in Europa. Manifestazioni contro la guerra del Vietnam si svolsero praticamente in ogni città del vecchio continente.

Il movimento hippy nacque anch’esso negli anni ‘60 negli Stati Uniti, diffondendosi subito dopo anche in Europa. Fu espressione di una generazione di giovani che intendeva rivendicare una propria identità, contrapponendosi all’ideologia familistica e conservatrice prevalente nella società degli anni ‘50. Gli hippy - o “figli dei fiori” - rifiutarono di omologarsi al mondo degli adulti e introdussero nuovi modelli culturali e nuove forme di socialità, alternative a quelle “borghesi”. Inventarono una nuova estetica (capelli lunghi, vestiti colorati), diventata un immediato segno di identificazione e vissuta come una forma di ribellione rispetto alla passiva integrazione ai codici dominanti. Il pacifismo e la non violenza ebbero grande importanza per il movimento, che affondava le sue radici in quel vasto fronte di opposizione alla guerra nel Vietnam che percorreva la società americana. Gli hippy rappresentarono l’anima “controculturale” del 1968, che rivendicava una nuova libertà sessuale e si ribellava ad un’istituzione familiare ritenuta gerarchica e oppressiva. La musica divenne un potente strumento di aggregazione e di liberazione; eventi come il concerto di Woodstock divennero occasione per raduni di migliaia di giovani, che intendevano sperimentare una socialità alternativa, fondata su una solidarietà comunitaria e che si opponeva alla mercificazione e all’individualismo dominanti. Gli hippy espressero anche nuovi gusti letterari e nuove tendenze culturali, come l’adesione alle religioni orientali. L’uso delle droghe era vissuto come strumento per accedere a nuove dimensioni della coscienza represse dal pervasivo razionalismo occidentale. I “figli dei fiori” furono criticati dall’ala più politicizzata del movimento giovanile perché tendenti ad autoescludersi dalla società capitalista preferendo, alla lotta per la sua trasformazione, il vagheggiamento di un modello comunistico da perseguire nel presente, attraverso nuovi modi di vita collettivi; essi, tuttavia, contribuirono a modificare profondamente i modelli culturali, i consumi e l’immaginario giovanile.

Betty Friedan e il movimento femminista americano

La femminista Betty Friedan

Durante gli anni ‘60, negli Stati Uniti e in Europa ci fu una nuova fase di forte rilancio del femminismo. Le donne dettero vita ad un ampio movimento per il riconoscimento della parità dei diritti, mettendo in discussione i ruoli familiari e sociali. Ampio e acceso fu il dibattito politico e teorico sulle condizioni storiche dell’oppressione femminile, codificata da convenzioni e meccanismi profondi che dovevano essere riconosciuti e “smontati” nella pratica politica e nelle relazioni quotidiane. Fu rivendicata un’irriducibile differenza e autonomia delle donne rispetto alla cultura maschile e patriarcale; negli Stati Uniti teoriche come Betty Friedan posero l’accento sull’identità e sulla demistificazione dei ruoli assegnati alle donne. L’identità femminile fu indagata nei suoi risvolti psicanalitici, mentre un nuovo filone di storiche statunitensi ed europee mise in discussione le categorie di una storiografia “neutra”, che in realtà, non riconoscendo l’alterità delle donne, operava una ricostruzione del passato (politico, letterario, artistico) tutta centrata sulla prospettiva e sulle categorie maschili. Il ‘900 segnò in definitiva per le donne la conquista di nuovi ruoli politici e sociali in aperta e irreversibile rottura rispetto al passato.

Nel 1963 la Friedan aveva pubblicato The Feminine Mistique, il manifesto del femminismo moderno. Nel volume si sosteneva che l’icona della femminilità nella cultura dominante, ad altro non serve se non ad escludere e subordinare le donne nella vita sociale e lavorativa. Nel ‘66 fondò, diventandone presidente, la National Organization for Women che aveva in programma “l’eguaglianza per tutte le donne in America e un rapporto perfettamente paritario tra i sessi nell’ambito della rivoluzione mondiale dei diritti umani”.

Donne al potere

Sirimavo Bandaranaike con il Primo Ministro sovietico Alexei Kosygin

Con la fine della seconda guerra mondiale, le donne si affermarono nella sfera pubblica. In tutta l’Europa occidentale ottennero l’estensione del suffragio universale, così come avvenne nei nuovi paesi dell’area socialista. Nei dieci anni successivi, il voto alle donne cominciò ad essere riconosciuto anche in America Latina. Gli unici paesi in cui, negli anni ‘60, alle donne furono negati i diritti politici erano alcuni stati islamici e la Svizzera. Per le donne si aprì anche la strada delle cariche pubbliche. Nel 1960 Sirimavo Bandaranaike, nello Sri Lanka, fu la prima donna a presiedere un governo: nel 1966 sarà seguita da Indira Gandhi, in India, e alla fine del decennio da Golda Meir, in Israele. Non sempre però l’accesso delle donne ai gradini più alti della carriera politica corrispose all’effettiva emancipazione femminile in quelle società: tuttavia il cambiamento fu irreversibile. Sia nel mondo occidentale sia in quello comunista, cresceva progressivamente la percentuale di donne che frequentavano gli studi universitari. L’istruzione universitaria permetteva l’accesso delle donne alle libere professioni e a ruoli di maggior prestigio sociale: tale processo interessava soprattutto l’area occidentale e socialista. Per motivi diversi - per spinta dall’interno nel primo caso, per motivazioni ideologiche nel secondo - in queste regioni del mondo l’emancipazione delle donne era favorita o comunque non ostacolata. Nel resto del mondo la situazione restava bloccata, soprattutto per le donne che appartenevano ai ceti sociali più bassi. L’emancipazione sociale divenne sinonimo di liberazione sessuale: numerosi comportamenti non ortodossi cominciarono ad essere praticati, pur con difficoltà e al prezzo di un possibile isolamento sociale. Per esempio in Gran Bretagna, aumentarono i single che dal 1960 al 1980 passarono dal 12% al 22% della popolazione mentre l’omosessualità fu depenalizzata. La pillola anticoncezionale, sperimentata su larga scala a Portorico nel 1954, fu commercializzata negli USA dal 1960 e in Italia diventò legale nel 1971.

Dalla tecnologia al quotidiano: il mondo della televisione

L'impronta lasciata sul suolo lunare

Nel 1960, in Gran Bretagna vi erano circa undici milioni di televisori, quattro milioni e mezzo in Germania, e più di due milioni in Italia, in URSS circa cinque milioni. L’introduzione dei primi apparati di videoregistrazione verso la metà degli anni Cinquanta, portò ad una rivoluzione dei programmi televisivi che, fino ad allora, erano per lo più trasmessi in diretta e seguivano un modello simile a quello della radiofonia. Nel 1954, la televisione americana lanciò il formato del telefilm a puntate, che divenne una caratteristica del nuovo medium, facilitando la programmazione, e garantendo generalmente buoni introiti commerciali dalle sponsorizzazioni. Divenuta quasi subito il principale mezzo d’intrattenimento, e la più importante industria pubblicitaria, negli anni ‘60 la televisione ascese anche a principale veicolo d’informazione.

Con la televisione, il medium universale, il mondo diventò davvero il “villaggio globale” descritto dal sociologo statunitense Marshall McLuhan. Nell’era dei satelliti, attraverso un tubo catodico, praticamente identico in ogni parte del pianeta, era possibile per chiunque aprire una finestra su quel che accadeva quotidianamente. La televisione inventò anche un nuovo linguaggio di comunicazione determinando un’unificazione culturale del pianeta. I grandi eventi erano vissuti contemporaneamente da tutti: il mondo era “in diretta”.

La stampa e il fumetto

Statua commemorativa di Andy Capp

Il periodo più fertile per il fumetto americano di costume, dopo i fasti del secondo dopoguerra, fu quello degli anni Sessanta che vide Schultz grande protagonista coi suoi personaggi bambini e adulti nello stesso tempo. Charlie Brown, Linus, Lucy, il cane Snoopy sono il ritratto del mondo di quegli anni. Le storie di questi fumetti, negli USA, non hanno nessun valore politico, ma sono soltanto avventurose o comiche. Bisognerà aspettare Feiffer perché la satira politica diventi graffiante. Nelle sue strip Feiffer denunciava il malcostume moderno e si scagliava contro la politica di aggressione al Vietnam (Johnson e Nixon venivano ridicolizzati dai suoi disegni), contro il consumismo esasperato e la speculazione delle multinazionali, e non rinunciava a rappresentare l’alienazione e lo smarrimento dell’uomo moderno. In questo periodo anche nel resto del mondo il fumetto si faceva più politico, più di denuncia, recuperando l’antica tradizione della satira politica. Così, in Italia si cominciavano a vedere le storie di Altan che avevano come protagonisti lo sfruttamento e l’alienazione operaia. Di tutt’altro tipo è il personaggio di Asterix, che nacque in Francia su idea di Goscinny e Uderzo, la cui chiave di lettura è almeno duplice, comica e satirica. Nel 1962 Goscinny creava un altro personaggio, il visir Iznogoud, che tuttavia non raggiunse la fama di Asterix. Nello stesso periodo, sempre in Francia, nacque un altro tipo di fumetto, quello erotico-avventuroso, che col personaggio di Barbarella riscosse grande successo in tutta Europa. Nelle strip inglesi si impose Andy Capp che rappresentava lo spirito social-umoristico della Gran Bretagna, non tralasciando le sue tendenze di difesa dell’istituto famigliare. Prendeva ferocemente in giro il maschilismo, ma non ancora in nome del femminismo o almeno della parità fra i sessi. Altri grandi disegnatori di fumetti si imposero in America Latina, specie in Argentina, dove nella satira primeggiano e sono noti nel mondo intero Mordillo e Quino. Nel 1964 Quino creò Mafalda, una ragazzina terribile che ha conquistato in un brevissimo tempo le simpatie di tutti i lettori del mondo. In Italia il fumetto imboccò due strade divergenti: una più popolare e l’altra più intellettuale. La prima si identifica con Tex Willer, ideato da Luigi Bonelli nel 1948. Tex è un uomo leale e coraggioso, una persona intelligente e, quando è il caso, anche spregiudicata, un personaggio western non a caso nato in Italia, dove sono stati realizzati decine di film sui cow-boys, gli spaghetti western. La seconda tendenza, quella più intellettuale e raffinata, è incarnata da Hugo Pratt con il suo famoso Corto Maltese (1967) e da Guido Crepax, con il suo romanzo per immagini, la serie di Valentina, con le sue bellissime donne, con i suoi dettagli choc, l’erotismo elegante. Negli anni Sessanta il fumetto raggiunse la sua maturità, diventando culturalmente importante sia per la qualità dei disegni che per i contenuti non più soltanto favolistici, ma sempre più legati alla realtà del nostro tempo.

Il pianeta “moda”

"Swinging London": nuovi emblemi culturali si affermano e la moda si trasforma in qualcosa di più personale, colorato e ribelle

La moda per le nuove generazioni cominciò ad assumere un interesse primario: nel ‘58 in America i giovani spendevano in media il 25% dei loro soldi in capi di abbigliamento, contro il 13% di sette anni prima. Mentre si imponevano le magliette a strisce e le giacche alla Beatles, nel ‘64 Mary Quant, proprietaria della boutique Bazar di Londra, lanciò su “Vogue” la sua nuova creazione: la minigonna. Nonostante la diffidenza delle grosse case di moda (Chanel su tutte), la minigonna in poche settimane fu venduta in tutto il mondo: anche grazie ad essa, il collant soppiantò definitivamente le calze a giarrettiera, essendo più pratico da indossare. Il successo della minigonna è stato attribuito al fatto che essa rappresentò una rottura totale degli schemi prettamente maschili fino ad allora in qualche modo condizionanti la moda femminile. Tagli à la garçonne, vestitini a campana, stivali lunghissimi resero la nuova donna molto diversa dal passato. Il trucco privilegiava gli occhi: mascara e ciglia finte ponevano l’attenzione sullo sguardo, la seduzione passava con disinvoltura dal corpo mostrato (tagli insoliti, trasparenze e nude-look liberavano ogni parte del corpo in maniera disinibita) allo sguardo misterioso ed intrigante. Dalle pagine di “Vogue”, la modella Twiggy proponeva il nuovo ideale di donna alla moda: la donna-grissino, fragile cerbiatta grintosa e determinata, disinvolta e misteriosa, creatura al di sopra delle differenze.

Intorno alla metà degli anni Sessanta, in America come in Europa, il modo di vestire assunse un significato che andava oltre la semplice emulazione dei personaggi dello spettacolo, acquistando una valenza di provocazione e differenziazione generazionale: i jeans, i capelli lunghi e le collane multicolore diventavano, per entrambi i sessi, l’emblema della protesta universitaria e della controcultura giovanile (hippies). Il mondo non rimase insensibile al nuovo look, e a partire dal ‘66 si assistette ad una grossa campagna di sensibilizzazione contro l’abbigliamento “immorale” dei giovani. Enormi cartelloni pubblicitari furono esposti in tutta l’America in cui si invitavano i ragazzi a tagliarsi i capelli per rendere più pulito il paese. In Italia crebbero a dismisura gli arresti per atti osceni di ragazze in topless. La sola Inghilterra sembrò assumere un atteggiamento più elastico e quasi umoristico nei confronti del nuovo look giovanile. Il valore sociale che assunse il modo di vestire negli anni ‘60 fu a poco a poco sostituito da una ricerca più individuale, meno ostentata e provocatoria.

La nazione della musica

Concerto dell'Isola di Wight, 1970

Nella musica degli anni Sessanta si registra con più forza il cambiamento dei tempi. Grazie alla sua riproduzione di massa, prima attraverso i dischi in vinile, poi con i nastri, diventò un prodotto commerciale diffuso in tutto il mondo, ed il rock era la sua lingua principale, internazionale e trasgressiva, per tutti i giovani.

E’ il 1960 quando a Liverpool i Beatles cominciarono la loro avventura: appena quattro anni più tardi conquistarono i primi cinque posti della hit parade americana con altrettanti pezzi. Nel 1962 si erano costituiti anche i Rolling Stones. Alternativa “brutta, sporca e cattiva” al quartetto di Liverpool, i Rolling Stones diventarono i più forti concorrenti dei Beatles. A differenza di questi, il cui rock-sound iniziale col tempo si sarebbe ammorbidito con linee melodiche più orecchiabili, i Rolling Stones posero l’accento su un’espressività musicale fortemente ritmica, dal suono sporco e dalle timbriche distorte, caratteri che diventarono i tratti distintivi della nuova musica.

La manipolazione sonora divenne campo di sperimentazione dei talenti che si andavano affermando a partire dagli anni ‘60. La musica rock, con la sua vitalità e creatività rivoluzionaria, interpretava in pieno la protesta giovanile di quegli anni, diventandone vessillo e linguaggio di rottura contro la vecchia generazione. Sotto il termine di rock, iniziarono a raggrupparsi tendenze musicali che davano vita a diversi sotto-generi (country rock, folk rock, hard rock) o a nuove espressioni stilistiche (rock melodico, rock sinfonico, rock elettronico).

In Inghilterra si formarono nel ‘64 gli Who, rivoluzionari per l’aggressività sonora e la spettacolarità delle loro performance, mentre nel ‘65 apparirono sulla scena i Pink Floyd, originali e raffinati ricercatori di dimensioni sonore di gusto psichedelico ed elettronico. Gruppi come i Cream e i Led Zeppelin dettero ulteriore sviluppo, intorno al ‘68, alle rielaborazioni sonore, consacrando al grande pubblico internazionale, il nuovo sound inglese post-beatles.

In America una nuova svolta al rock è stata data da Bob Dylan, le cui ballate contro la guerra e la violenza con melodie improvvisate d’atmosfera etnica inaugurarono fin dagli esordi, nel 1962, in modo originale il filone del folk-rock. Il suo anticonformismo, il suo stile di vita e i contenuti delle sue canzoni, contro la guerra e le violenze della società americana, lo trasformarono presto in uno dei rappresentanti più significativi dei giovani (americani e non) di quegli anni. Altre singolari personalità della scena rock statunitense della seconda metà degli anni ‘60 furono le cosiddette “tre J”: Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, “artisti maledetti” per eccellenza. Attraverso la dolorosa espressione allucinata della loro musica, furono eletti a paladini contro il sistema, il conformismo borghese e il perbenismo repressivo, incitando i giovani a uno di stile di vita autonomo e libero dagli schemi, libertà di cui la droga divenne il simbolo.

Tuttavia la grande popolarità di massa delle rockstar finì per attirarle nel circolo vizioso dei giri d’affari e di tutti quei valori ideologici che sottostavano a quelle leggi di mercato contro cui inizialmente si battevano.

A ritmo di ballo

Sala da ballo, Berlono

Negli anni ‘60 al rock & roll seguirono, più o meno sulla stessa linea, altri balli americani come il frug, il surf (i cui movimenti imitano lo sport nautico polinesiano del surfing) e soprattutto il twist. Lanciato nel 1961 dal cantante nero Chubby Checker di cui resta famosissimo il brano Let’s Twist Again, questo ballo era caratterizzato da una particolare torsione delle gambe e del bacino (twist significa appunto “torsione”), accompagnata dal movimento delle braccia. Ma come accade nella tradizione dei balli alla moda, il twist declinò in fretta per lasciare il posto al ritmo forte e al sound accentuato del beat e dello shake inglesi. Tutti questi balli, dal rock & roll, al twist allo shake avevano come denominatore comune lo “scuotimento” che non era solo un movimento rivoluzionario del corpo, ma rappresentava anche il riflesso della protesta giovanile nello svago e nell’intrattenimento. Verso la seconda metà degli anni ‘60 si diffuse un altro ballo di gruppo di origine americana, l’hully gully, fatto di movimenti sincronizzati di stile “primitivo”. Sulla scia di questi balli di gruppo, in Italia diventò subito di gran moda tutto un filone di canzoni ballabili, delle quali si assiste da tempo ad un infinito revival. Si devono infine aspettare gli inizi degli anni ‘70 perché si scateni il più grande fenomeno di ballo massificato, la disco-music, che trasformerà definitivamente le semplici balere in grandi discoteche multicolori.

Dallo Shea Stadium di New York all’URSS: i Beatles

Il "club dei 4 di Liverpool", sul terrazzo dell'albergo affacciato in Piazza Duomo, durante il loro tour italiano

Nulla rimase come prima nel mondo della musica dopo la stagione dei Beatles. La spinta innovativa della musica del quartetto inglese ha influenzato artisti e gruppi trasformando rapidamente l’intero panorama della musica leggera. Paul MacCartney, John Lennon, Ringo Starr e George Harrison espressero la straordinaria capacità di fondere elementi musicali differenti, dai modi del blues alla musica tradizionale scozzese, al rock, mentre i testi delle loro canzoni non parlavano solo d’amore ma di pacifismo, di religione, di droga. Il successo di critica, le vendite dei loro dischi e la partecipazione entusiastica di masse di giovani ai concerti, fecero dei Beatles uno dei fenomeni musicali e di costume più importanti della storia della musica. I Beatles incisero il primo disco nel ‘62, P. S. I love you, per la Emi Records: nel gennaio del 1963 uscì il secondo singolo Please Please me. In poche settimane il brano scalò le classifiche inglesi ed europee facendo esplodere la “beatlemania”. L’anno seguente l’album With the Beatles consacrò definitivamente al successo i quattro che, nell’esibizione televisiva all’Ed Sullivan Show, nel febbraio del 1964, catalizzarono settantatré milioni di spettatori. Nel ‘64 il quartetto fu impegnato in una lunga tournée in Europa, America e Australia e nella pubblicazione del nuovo LP A hard day’s night, che fece anche da colonna sonora al loro primo film-documentario. L’anno successivo i Beatles realizzarono il nuovo album Help! (che dette anche il nome all’omonimo film) occupando nuovamente il numero uno nelle classifiche dei dischi più venduti in Inghilterra e in America.

L’intensa attività spinse il gruppo a non suonare più dal vivo e a concentrare l’attività musicale in sala d’incisione. Il crescente distacco di Lennon e McCartney dalle sonorità puramente beat dei primi anni, unito alla scoperta di filoni narrativi differenti come il pop-psichedelico o la musica indiana, dimostrarono l’evoluzione del linguaggio musicale dei Beatles. Album come Revolver (1966) e soprattutto Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band del 1967 portarono il quartetto all’apice del successo mondiale, non privo però di eventi negativi: la morte del manager Brian Epstein, l’inaspettato insuccesso del film Magical mistery tour e un paio di singoli sotto tono. Dopo un anno di pausa e di riflessione con il guru Maharishi Mahesh Yogi in India, i Beatles incisero, verso la fine del 1968, Yellow submarine e, pochi mesi dopo, Abbey road. Ma il gruppo era ormai troppo distratto da progetti solistici e da interessi personali; così, quando nel ‘70 uscì Let it be (con 3.700.000 prenotazioni negli USA), i Beatles non esistevano già più. Lo scioglimento del gruppo fu annunciato alla stampa da McCartney l’11 aprile del 1970.

Fortemente innovativi sia nei testi sia nei ritmi marcarono una fase decisiva nella storia della musica leggera. Chiunque dopo di loro si sia cimentato con il rock è rimasto influenzato dalle loro canzoni. Ma i Beatles hanno anche segnato un nuovo modo di essere rockstar.

Il rock della Factory: The Velvet Undergroud

All'"Exploding Plastic Inevitable" di Andy Warhol, Nico e i Velvet Undergroud

Era il 1966 quando al DOM Theatre di New York esordì l’Exploding Plastic Inevitable show concepito dall’artista Andy Warhol. Lo spettacolo nasceva come esperienza totale, incrocio di linguaggi differenti, ipnotico ed iperrealista, fatto di luci ed immagini che si sovrapponevano, performance di poeti ed attori, al suono di un rock scuro, rabbioso e violento: la musica dei Velvet Underground. Il complesso era nato dalla collaborazione tra il cantante e chitarrista newyorchese Lou Reed ed il gallese John Cale, che suonava il basso e la viola ed aveva già collaborato con l’avanguardia musicale di New York. Warhol li aveva ascoltati nei club underground in cui erano soliti esibirsi ed era rimasto affascinato dall’energia elettrica e violenta della loro musica, che sovrapponeva alla semplicità del rock soluzioni d’avanguardia, rumoristiche ed improvvisate, e dai testi crudi delle loro liriche, dedicate al mondo disperato dei bassifondi di New York, popolato di drogati e teppisti, di prostitute e di omosessuali, lo stesso che Warhol senza pietà e moralismi documentava con la sua arte. Ai Velvet Underground si unì l’avvenente Nico, modella ed attrice tedesca, sex symbol della Factory di Warhol con il suo canto spettrale e brechtiano dagli effetti espressivi e stranianti. The Velvet Underground divennero il lato musicale nella produzione della Factory di Warhol. Ciò fu evidente già dalla copertina del loro primo disco, The Velvet Underground and Nico, del 1966, su cui compare una banana gialla disegnata da Warhol. Le canzoni del disco parlano di vita disperata di strada, di lunghe attese dello spacciatore, di perversioni sadomaso per esplodere nel delirio elettrico e rumoristico di Heroin, che gela l’ascoltatore per sette minuti. Introducendo nel rock concetti mutuati alle altre arti, The Velvet Underground allargarono i confini della rock song verso la ricerca e la sperimentazione, con un messaggio inquietante, in una rappresentazione iperrealista ed amplificata della realtà alienante della metropoli.

I raduni: Woodstock e Altamont

Cerimonia d'apertura di Swami Satchidananda del Festival di di Woodstock, 1969

Uno degli eventi simbolo degli anni Sessanta è stato senza dubbio il mega-concerto tenutosi a Woodstock. In un week-end di agosto segnato da momenti di caldo torrido e piogge torrenziali, circa 400.000 persone si radunarono nei campi di Woodstock per assistere ai concerti dei maggiori gruppi musicali e cantanti della scena rock, come Joan Baez, Jimi Hendrix, Santana e Richie Havens.

Fu una sorta di risposta della controcultura degli anni Sessanta all’elezione di Richard Nixon alla Casa Bianca da parte di quella maggioranza silenziosa di americani che, secondo una celebre definizione del presidente, non urlavano e non organizzavano manifestazioni. Ma si poté svolgere senza incidenti grazie anche alla tolleranza delle autorità di polizia che non applicarono le ordinanze contro il consumo di stupefacenti. Fu la massima espressione pubblica della controcultura degli anni Sessanta, che enfatizzava la socializzazione in contrapposizione al tradizionale individualismo della società statunitense. Come tale ne rappresentò il coronamento, ma ne segnò anche la fine. Gli organizzatori cercarono di effettuare una replica quattro mesi più tardi con un concerto dei Rolling Stones a Altamont in California, a cui assistettero 300.000 persone. La manifestazione fu funestata da tafferugli, dalle disfunzioni nelle cure a chi era andato in overdose, dal decesso di tre spettatori e soprattutto dal pestaggio a morte di un giovane afro-americano da parte degli Hell’s Angels, una gang di motociclisti che era stata assoldata per effettuare il servizio d’ordine al concerto. Dopo l’esplosione di esuberanza e spontaneismo a Woodstock, Altamont svelò gli aspetti più violenti della ribellione giovanile di quegli anni.

Le Olimpiadi del 1968: la politica nei Giochi

John Carlos e Tommie Smith alzano il pugno con il guanto nero per protestare contro le discriminazioni razziali

L’exploit dello sport come fenomeno di massa deve molto alla televisione. Grazie alle evoluzioni tecniche e ai satelliti era possibile seguire in diretta le più importanti competizioni sportive. Le Olimpiadi di Roma del 1960 fanno segnare un aumento enorme della vendita dei televisori. Da allora le aziende produttrici di apparecchi televisivi aspettavano le grandi manifestazioni sportive per lanciare sul mercato i nuovi modelli.

Con la Guerra Fredda l’antagonismo tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si era trasferito anche in campo sportivo e le Olimpiadi diventarono un’occasione di confronto agonistico particolarmente sentito dalle due rappresentative. Sul mondo dello sport, e soprattutto nel confronto olimpico, si affacciò così la nuova realtà di un mondo diviso in blocchi contrapposti, caricando di significati non solo agonistici le gare olimpiche. L’URSS superò gli USA alle Olimpiadi di Melbourne (1956); in quelle di Roma (1960), che videro l’affermazione di un atleta del Terzo Mondo, l’etiope Abebe Bikila, vincitore della maratona, e del giovane pugile Cassius Clay, l’URSS conquistò 103 medaglie contro le 71 degli Stati Uniti; infine a Tokio (1964) la differenza fu minore, ma sempre favorevole ai sovietici (96 medaglie contro le 90 americane). Solo nel corso delle Olimpiadi che si svolsero a Città del Messico, nel 1968, gli USA riuscirono a prevalere sui rivali. E proprio nello stadio di Città del Messico si assistette alla clamorosa protesta di due atleti americani, vincitori dei 200 metri, John Carlos e Tommie Smith. Essi alzarono il pugno guantato di nero (era il saluto degli aderenti al Black Power) e chinarono il capo per protestare contro le discriminazioni razziali, mentre risuonava nello stadio l’inno americano.

L’era di Pelé

Pelé dopo aver dribblato un difensore durante l'amichevole Malmö FF-Brasile (1-7) del maggio 1960. L'attaccante segnò due gol

Il calcio rappresenta probabilmente il fenomeno sportivo più popolare del Novecento. Con la parziale eccezione degli Stati Uniti, è praticato e seguito in tutti i continenti. Nel caso dell’America Latina, ma non solo, rappresenta addirittura una via di riscatto sociale. Ragazzi di origini umilissime (un nome per tutti: il brasiliano Pelé) raggiungono una notorietà e una ricchezza quasi impensabile in altre attività. E quando i grandi calciatori conducono le loro nazionali al traguardo più ambito, il campionato mondiale, sono celebrati al pari dei condottieri e degli eroi nazionali sudamericani.

I mondiali del 1958 in Svezia serbarono una sorpresa: il Brasile di Pelé, vincitore finale. Il Brasile, che adottava una nuova tattica di gioco chiamata il 4-2-4, fece il bis in Cile nel 1962. In Inghilterra, nel 1966, i padroni di casa conquistarono il titolo mondiale, con una bella e vigorosa partita di finale contro la Germania sconfitta per 4 a 2.

Nel 1968 si svolse il primo campionato europeo e fu l’Italia, in finale con la Iugoslavia, a vincere il titolo.

Personaggio di grande fascino e carisma, Pelé è unanimemente considerato il migliore calciatore di tutti i tempi. Nato in un piccolo paese del Brasile, nello stato di Minas Gerais, all’inizio lavorò come lustrascarpe, ma coltivava il sogno di giocare a calcio. Il padre, João Ramos do Nascimento era un calciatore professionista che giocava come centravanti nel Fluminense. Dopo aver giocato in alcune squadre dilettantistiche, Pelé debuttò nel Santos Futebol Club nel settembre 1956, entrando in sostituzione del centravanti titolare e segnando il primo gol della sua lunga carriera. Nella prima partita di campionato con il Santos segnò quattro reti. Nella stagione seguente giocò come titolare diventando capocannoniere del campionato dello stato di São Paulo con 32 gol. Convocato in nazionale il 7 luglio 1957, all’età di 16 anni, debutta contro l’Argentina e segna l’unico gol del Brasile, che è sconfitto per 2 a 1. Durante il campionato mondiale del 1958, svoltosi in Svezia, il mondo scoprì la “perla nera”; ad incredibili doti atletiche, la sua velocità straordinaria e il suo stacco di testa, Pelé univa una tecnica invidiabile, fatta di dribbling e di tiri infallibili che lasciarono tutti a bocca aperta. Fu fra i massimi interpreti del ruolo del regista, centrocampista che imposta l’azione, ma gioca in ogni parte del campo. In Europa, nel 1961, la stampa francese lo soprannominò “il re”. Giocò in quattro campionati del mondo (Svezia 1958, Cile 1962, Inghilterra 1966 e Messico 1970) segnando 12 gol in 14 partite e vincendo, unico calciatore, in ben tre edizioni (1958, 1962 e 1970). Nel corso della sua lunga carriera ha segnato 1281 gol in 1363 partite da professionista, un record ancora imbattuto. Nel 1959, con 126 reti, stabilì anche il record dei gol segnati nel campionato di São Paulo in una stagione. Il 21 novembre 1964 segnò otto reti nella partita contro il Botafogo di Rio de Janeiro, mentre cinque anni dopo, nel novembre ‘69, marcava, su rigore, il millesimo gol in carriera e dedicandolo “ai bambini poveri del Brasile ed alle persone anziane e sofferenti”. L’entusiasmo che ha suscitato tra i tifosi brasiliani è stato unico. Bastava che passeggiasse in campo perché la folla si scatenasse in batucadas dedicandogli canti di giubilo. Alla fine degli anni Sessanta, quando si recò in Nigeria per disputare alcuni incontri amichevoli con il Santos, si fermò la guerra civile; fu firmato un armistizio di 48 ore con il Biafra proprio per consentire ai tifosi di assistere alla partita. Il 18 luglio 1971 Pelé diede l’addio alla nazionale brasiliana davanti a un pubblico di 200.000 persone che riempirono il monumentale stadio Maracanã.

Una vita in lotta: da Cassius Clay a Muhammed Ali

Cassius Clay premiato con la medaglia d'oro ai Giochi Olimpici di Roma nel 1960

Nel 1962, un gigante nero, Sonny Liston, in due minuti schiantò Patterson al tappeto e conquistò il titolo. Solo Cassius Clay riuscirà a batterlo, il 25 febbraio 1964. Cassius Clay è stato un pugile la cui immagine ha assunto un’importanza precedentemente sconosciuta alla boxe, superiore perfino a quella di Joe Louis. Personaggio amato ed odiato, conquistata alle Olimpiadi romane del 1960 la medaglia d’oro per la categoria pesi massimi, passò al professionismo diventando il campione mondiale fra gli anni ‘60 e ‘70. La sua boxe era stilisticamente quasi perfetta: Clay, pur essendo un “peso massimo” danzava sul ring diventando un bersaglio quasi irraggiungibile per i suoi avversari. La televisione contribuì a creare un personaggio che era già tale: le sue focose interviste sui diritti della minoranza nera in America, i suoi proclami contro la guerra nel Vietnam e il suo rifiuto a fare il servizio militare, lo costrinsero ad abbandonare per alcuni anni l’attività sportiva. Cambiò religione e poi nome, rinunciando a quello di uno “schiavo” come sosteneva lui stesso, per acquisire una nuova libertà del tutto personale. Tornò Alì, e fu di nuovo campione del mondo.

Anche nelle altre categorie i migliori erano americani, come Jack la Motta, Ray Sugar Robinson, che vinse cinque volte il titolo mondiale dei pesi medi dopo averlo perso, e Griffith. C’è stato solo un breve intermezzo dell’italiano Nino Benvenuti che, battendo Griffith, si cinse della corona mondiale, ma fu presto battuto. Anche la nobile arte del pugilato si avviò, alla fine degli anni ‘60, verso una gestione imprenditoriale, sia per le sponsorizzazioni e la cessione dei diritti televisivi, sia per i compensi sempre più alti dei pugili. Le organizzazioni pugilistiche muovevano interessi legati a colossali guadagni, mentre i pugili diventavano sempre meno prestigiosi.

Arte, Cinema e Letteratura

La nascita dell’industria culturale

"La Carica dei 101" (1961) fu il primo film d'animazione Disney a usare la tecnica della xerografia, risparmiando così sull'inchiostrazione. Questa tecnica venne sostituita solo con l'avvento del digitale

Dopo la fine della seconda guerra mondiale la cultura visse nuove esaltanti stagioni: il neorealismo cinematografico, l’esistenzialismo, l’affermazione della sociologia e della psicanalisi, il teatro dell’assurdo, la rivoluzione musicale dei nuovi compositori e la nascita del rock and roll. La rottura con il passato avvenne però soltanto negli anni ‘60, caratterizzati - oltre che da questi movimenti appena elencati - dalla Nouvelle vague francese, la Pop art e la Beat generation americane.

La “seconda rivoluzione industriale” trasformò anche le forme e i tempi di produzione culturale. Nella nuova società di massa era possibile immettere sul mercato merci di tipo culturale prodotte in serie e sulla base di politiche imprenditoriali sostanzialmente non dissimili da quelle di ogni altro settore economico. Ormai distanti dall’idea romantica dell’artista come creatore isolato di opere uniche, nell’era della riproducibilità dell’arte le nuove tecnologie e i mezzi di comunicazione di massa potevano permettere a équipe di professionisti di prevedere i gusti del pubblico.

I prodotti cinematografici, i telefilm a puntate, gli albi di fumetti a scansione mensile erano, infatti, il risultato di politiche imprenditoriali basate su programmazioni e indagini di mercato volti alla commercializzazione di prodotti fruibili ed economicamente redditizi. Ma alla parcellizzazione del processo creativo non corrispondeva necessariamente una bassa qualità delle opere o una scomparsa dell’“autore”. L’esempio più chiaro è dato forse dai film e dai fumetti Disney: tutti firmati dal loro creatore (anche dopo la scomparsa di Walt Disney) e tutti fabbricati da un’impresa internazionale con migliaia di addetti per le diverse mansioni.

La novità di questi anni fu la dissoluzione dell’arte in un contesto in cui la singolarità della creazione individuale fu travolta dalla serialità della riproducibilità tecnica, dalla moltiplicazione replicata della rappresentazione, come dato costitutivo della realtà stessa. L’arte dell’avanguardia proiettata verso il futuro sfumò nell’arte della copia conforme, e la creazione di nome divenne programmaticamente un prodotto generato, commercializzato e utilizzato, secondo le logiche del consumo di massa.

L’abbandono della forma

Sam Francis, "Omaggio a Vincent Van Gogh"

Sviluppatosi tra la fine degli anni ‘40 e l’inizio degli anni ‘50, l’informale va considerato il punto di partenza per comprendere i movimenti artistici che si svilupparono nel corso del decennio successivo. L’arte degli anni Sessanta proponeva, infatti, in opposizione all’“anti-poetica” e all’azzeramento compiuto dall’informale, il ritorno all’oggetto. Se l’informale era nato come espressione di un clima di profonda sfiducia nei valori conoscitivi e razionali, seguito alla seconda guerra mondiale, le correnti artistiche che presero corpo dalla reazione a questo movimento, tra cui le principali sono il New Dada, il Nouveau réalisme e la Pop art, si caratterizzarono per una riappropriazione del reale, dell’oggetto. Le sperimentazioni degli informali modificarono profondamente il linguaggio artistico e resero possibile l’apertura verso nuove soluzioni formali.

La carica irrazionalistica dell’informale si esplicava nel superamento della forma e del contenuto, nel tentativo di andare oltre la problematica tra formalismo e contenutismo, l’uno privilegiando l’aspetto estetico dell’espressione artistica (astrattismo), l’altro quello del contenuto e dell’impegno sociale (realismo). La superficie del quadro diventa il campo d’azione dell’artista, un campo aperto a infinite possibilità di interagire con la materia effettuando scavi, solchi, forature, bruciature o creando parti aggettanti, creste o spessori. Arte del gesto e della violenza espressiva, l’informale ha dei forti legami con le poetiche del primo dopoguerra, in particolare con le esperienze di scrittura automatica del surrealismo. L’abbandono della forma, l’impulso individuale inconsapevole e lo studio delle possibilità espressive della materia costituiscono i caratteri principali di una tendenza artistica che ha come massimi rappresentanti i francesi Fautrier e Dubuffet, i tedeschi Wols e Hartung, gli italiani Burri, Scanalino, Capogrossi, Colla e Pomodoro, il giapponese Shiraga e lo spagnolo Tàpies.

Negli Stati Uniti, l’equivalente di ciò che in Francia fu battezzato con il termine di informel da Michel Tapiè nel 1951, è l’Action painting, così definita dal critico Harold Rosenberg nel 1949, che può essere considerata il punto d’arrivo della stagione dell’informale, dove il gesto del dipingere diventa più importante dell’oggetto che ne risulta. Per Jackson Pollock, Willem de Kooning e Robert Motherwell, gli artisti più significativi, il gesto del dipingere diveniva estensione sulla tela della propria esperienza.

Verso la metà degli anni Cinquanta si manifestò un’altra tendenza artistica strettamente legata all’espressionismo astratto: la Post Painterly Abstraction, così definita dal critico americano Clement Greenberg nel 1964, in occasione di una mostra al Country Museum di Los Angeles. Sam Francis, Morris Louis, Helen Frannkenthaler, Kenneth Noland, e Ellsworth Kelly tentarono un percorso autonomo rispetto ai grandi protagonisti dell’action painting in cui il carattere precipuo era il distacco da ogni emozione personale.

Le poetiche dell’oggetto

La fontana di Tinguely di fronte al Museo Tinguely di Basilea

Intorno al 1960 si verificò una svolta nella cultura europea e americana: iniziò l’era dell’oggetto. I movimenti artistici che hanno condotto alla “poetizzazione del banale” furono rispettivamente il New Dada, che si sviluppò negli Stati Uniti, e il Nouveau réalisme, che può essere considerato la versione europea. Il New dada, nato a New York, si configura, per l’immissione dell’oggetto nella pittura, come un momento di passaggio dall’Action painting alla Pop art. Il nome indicava la volontà di rifarsi al dadaismo esplicandosi nella volontà di critica dell’esistente e in un atteggiamento di ribellione iconoclastica. I suoi esponenti, di cui i principali sono Rauschenberg e Johns, utilizzavano, manipolandoli, rifiuti e oggetti di uso quotidiano per provocare una satira del modello consumistico in gran voga agli inizi degli anni ‘60.

Il 27 ottobre del 1960 il critico francese Pierre Restany, nello studio parigino di Yves Klein dichiarava costituito il gruppo del Nouveau réalisme. Tra i dodici artisti membri fondatori ci furono Arman, Klein, Daniel Spoerri, Jean Tinguély. In un secondo momento si aggregarono Niki de Saint Phalle, Christo, Rotella. Gli artisti coinvolti nel gruppo condividevano, secondo il pensiero del teorico Restany, una pratica alchemica che permetteva di trasformare in oro il piombo scuro della vita quotidiana.

Nel 1961 la mostra newyorchese New réalisme: Paris and New York mise in luce una convergenza internazionale di interessi ed evidenziò le differenze tra i due movimenti. Infatti, nel New dada americano l’oggetto era comunque recuperato attraverso un procedimento che coinvolgeva la pittura mentre nel Nouveau réalisme l’appropriazione dell’oggetto, non mediata dall’intervento della pittura, risentiva del valore dato dall’azione e dal comportamento dell’artista, secondo una modalità che risentiva della cultura francese legata al dadaismo e al surrealismo. Gli oggetti presi dalla realtà e appena manipolati, diventavano portatori di altri significati senza la necessità di comunicare e suscitare emozioni. César creò moderni feticci totemici ottenuti per mezzo della compressione degli oggetti in blocchi (famosi i rottami di automobili); Mimmo Rotella realizzò i suoi lavori con i manifesti strappati per le strade; Spoerri eseguì i suoi Tableaux incollando resti di cibi, piatti e bicchieri su tavole; Arman accumulava oggetti di recupero, rifiuti per esporli in contenitori trasparenti; Tinguély ironizzava sulle macchine industriali attraverso le sue macchine cinetiche inutili; Christo si appropriava degli oggetti impacchettandoli e negandoli così alla vista. L’azione diventa motivo centrale - come è soprattutto esemplificato dal lavoro più concettuale di Klein - ma contrario all’happening, l’azione nouveau-réaliste lascia sempre una traccia tangibile. Il confronto perdente con gli artisti americani nella mostra tenuta a New York - la critica e il mercato americano rimasero freddi nei confronti degli europei -, il differenziarsi delle poetiche di ognuno e la morte del personaggio più carismatico del gruppo, Klein, portarono alla dissoluzione del movimento nel 1963.

Arte e mass-media

"Merda d'artista", Piero Manzoni

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, l’America era la terra delle grandi speranze e delle infinite possibilità. A New York arrivavano frotte di giovani artisti e si formarono delle comunità intorno alla decima strada, nei cui sotterranei, aprirono studi e piccole gallerie-cooperative.

Gli studi e le gallerie si moltiplicarono, i nuovi ricchi cominciarono a collezionare arte contemporanea, e noti critici erano alla ricerca di talenti originali. La nuova generazione di artisti cercò di trovare un’alternativa al dominio assoluto dell’espressionismo astratto che era arrivato al rifiuto totale di ogni rapporto con la realtà e con il sociale. Nacque l’esigenza di un confronto con il nuovo volto di New York caratterizzato non solo dall’incremento dell’attività edilizia, con i suoi grattacieli di vetro, ma anche dagli ossessivi cartelloni pubblicitari e dai negozi che traboccavano di merce scintillante. Gli oggetti si trasformarono in merce di largo consumo, riprodotti in serie, venduti nei tecnologici supermercati. Gli artisti della Pop art fecero entrare questa cultura consumistica nell’arte, prelevando direttamente le loro immagini dai fumetti, dai cartelloni pubblicitari, dai mass-media.

Negli anni Sessanta, il definitivo irrompere della società del benessere consumista, con la sua ridondanza di messaggi mediatici, di cultura popolare, di icone della comunicazione di massa, sfondò definitivamente il diaframma tra arte d’avanguardia e universalità del pubblico, producendo un figurativismo sintonizzato con la nuova società delle tecniche pubblicitarie e del design, la Pop art, e un corrispondente meccanismo industriale dell’arte, perfettamente aderente ai moduli dell’industria dei consumi.

Non a caso, l’avvento della Pop art fu preceduto da un recupero del ready-made dadaista di Marcel Duchamp, utilizzato da artisti come Robert Rauschenberg, per contaminare il gesto espressionista dell’Action painting e dell’informale, con una realtà non raffigurata quanto piuttosto direttamente trasferita nell’opera. L’annuncio precoce del soccombere dell’arte di fronte all’invasione della ripetitività oggettuale dell’era tecnologica, lanciato dai dadaisti agli inizi del secolo, riaffiorava, dunque, dopo la lunga parentesi dell’impegno sociale e della fiducia avanguardistica nella modernità. La Pop art ne costituì una logica conseguenza, sancendo la resa senza condizioni della sacralità del gesto compositivo, sconfitta dall’evidente superiorità di mezzi della trasposizione in copia industriale. Il rapporto tra Pop art e società di massa è un rapporto ambiguo, che non può essere sciolto scorgendovi alternativamente un intento celebrativo o il sarcasmo. La Pop art fondava, infatti, la sua stessa esistenza sul permanere di tale ambiguità, su un rapporto con il pubblico basato sul non detto, sulla credulità messa alla prova, sulla riserva mentale. Cioè, appunto, sulla scomparsa della razionalità critica, sulla mancanza di un’alternativa possibile al partecipare.

La Pop art

Cap de Barcelona, Roy Lichtenstei

Il termine Pop Art, abbreviazione di “popular art”, fu coniato in Inghilterra per indicare l’universo dei mass-media e delle forme visive ad essi collegate: dal cartellone pubblicitario, alla televisione, ai fotoromanzi, ai fumetti, ai rotocalchi, alla musica leggera, alla confezione delle merci di consumo. Il vocabolo è stato poi utilizzato dal critico inglese Lawrence Alloway, per definire quelle manifestazioni di arte colta inglese che riconoscevano validità espressiva a questi mezzi di comunicazione. I primi esperimenti di commistione tra elementi di grafica pubblicitaria e design con l’arte figurativa furono tentati in Gran Bretagna dall’Independent Group, un’associazione di artisti, architetti e fotografi creata a Londra, nei primi anni Cinquanta. La Pop art nata, dunque, in Inghilterra verso la metà degli anni ‘50 e diffusasi negli Stati Unti intorno agli anni 1959-60, prendeva le mosse da una polemica intorno all’utilizzo delle immagini prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, che coinvolse artisti come Joe Tilson, Peter Blake, Richard Hamilton e Richard Smith. Rispetto alla Pop art americana, quella britannica mantenne un tono assai più critico e distaccato nei confronti dell’iconografia mediatica, e fu caratterizzata da stili più elaborati.

In America la Pop art mise radici nel 1961 e fu qui che attecchì in maniera più radicale e con successo, principalmente a causa dell’evoluzione della struttura economica e della tradizione realista della pittura della prima metà del Novecento. Attraverso la serie di mostre personali, nel 1961-1962, dei maggiori artisti Pop – Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, James Rosenquist – tenutesi a New York nelle più importanti e potenti gallerie (famosa quella di Leo Castelli), la Pop art si impose rapidamente all’attenzione generale. Nel 1963 mostre intitolate a questa corrente ebbero luogo nei musei di tutti gli Stati Uniti. Ma il successo internazionale fu decretato dalla Biennale di Venezia del 1964 dove esposero Rauschenberg, Johns, Dine e Oldenburg.

Si trattò di un’operazione sofisticata e colta, per certi versi ambigua, che non è interpretabile unilateralmente come critica ai valori della American way of life, né come omologazione ai valori di quella civiltà dei consumi. Non si trattò di una critica alla società quanto di una cinica e ironica presa d’atto dell’omologazione del reale, dell’impossibilità di un cambiamento e del tramonto di una condotta artistica romantica. Gli artisti della Pop art inserivano nel contesto dell’arte pura i soggetti dell’arte commerciale e popolare. Non “fabbricavano immagini popolari”, piuttosto facevano un commento artistico su alcuni fatti ed effetti della cultura dei mass media. Gli oggetti erano ricostruiti o raffigurati su grandi tele con una fedeltà soltanto apparente al modello, in realtà intervenivano delle differenze che esaltavano determinate caratteristiche a discapito di altre. I prodotti del consumo erano “filtrati” e posseduti in maniera mirata. Il proposito era di demistificare e mettere in luce tutta la banalità degli oggetti di consumo nella società del benessere, evidenziando la non-creatività della produzione massificata (“popolare” infatti, nel senso “di massa”). La caratteristica espressiva di questa nuova arte è l’interpretazione ironica e paradossale di immagini e oggetti utilizzati nella pubblicità, riproducendo in forme macroscopiche e deformanti i prodotti di consumo. A differenza della gestualità estemporanea o dell’emotività soggettiva che caratterizza l’arte informale (action painting e, più in generale, astrattismo), gli esponenti della Pop art riproducevano gli oggetti reali, deformandoli più nella dimensione (o nella riproduzione in serie dello stesso oggetto) che nella forma. Se nell’astrattismo informale la casualità era frutto dell’automatismo inconscio dell’artista, nella Pop art diventa indeterminatezza, mancanza di distinzione del fenomeno estetico da tutti gli altri fenomeni. Tra gli artisti Pop, uno dei più rappresentativi è sicuramente Roy Lichtenstein, che ingigantisce le immagini dei fumetti, servendosi del procedimento pittorico “puntinista” dei neo-impressionisti (come in Drowning Girl del ‘63) per riprodurre gli effetti di luce ed ombra del puntinato tipografico. Decisiva è poi l’opera di Andy Warhol, con le sue celebri serie ripetitive di immagini di personaggi famosi, come il conosciutissimo Marilyn Monroe del ‘64. Con Claes Oldenburg sono presi di mira gli enormi cartelloni pubblicitari che reclamizzano prodotti alimentari industrializzati e standardizzati come gli hamburger, gli hot-dogs o gli ice-cream, di cui l’artista fece giganteschi calchi di gesso (Tavolo con cibi). George Segal eseguì invece calchi di persone vive impegnate in gesti ed attività quotidiani, come in Spazio per la pubblicità del ‘66.

Anche in Italia la Pop art si è espressa con l’opera di Mario Schifano di cui si ricorda Tratto appenninico del ‘61, di Mario Ceroli, che riprende il principio dell’oggetto in serie in Venere del ‘65, ed infine con l’opera di Michelangelo Pistoletto (Self-Portrait with Soutzka del ‘67).

Andy Warhol

Andy Warhol (a sinistra) e Tennessee Williams

Il rappresentante più originale della Pop art, che incarna la New York degli anni 1960-1980, è stato Andy Warhol (Filadelfia, 1930 - New York, 1987). Intorno al 1960 ha inizio il percorso artistico che lo colloca tra gli esponenti più in vista della Pop art. Tutto il lavoro di Warhol si è basato sul potere dell’immagine nella società contemporanea. Egli riprodusse iperrealisticamente nelle sue opere, utilizzando perlopiù la tecnica della serigrafia, vignette fumettistiche, pagine di giornali, bottiglie di Coca-Cola, le famose lattine della minestra Campbell’s: tutte immagini ed oggetti diffusi dai mezzi di comunicazione di massa e di fruizione collettiva. La riproducibilità è una prerogativa della civiltà dei consumi, Andy Warhol la fece propria. Fotografie serigrafate di divi (Elvis Presley e Marilyn Monroe), o di capolavori d’arte (La Gioconda), o di personaggi simboli dell’America (Kennedy), o semplici fatti di cronaca, si presentavano ripetute su grandi tele con minime variazioni di colore o di dettagli nei confronti dell’originale. La moltiplicazione svuota l’immagine del suo significato: l’immagine di un incidente stradale ripetuta perde la carica di choc che forse poteva avere nella foto originale, e l’evento stesso diventa banale.

Warhol estese il suo campo d’azione gestendo in prima persona i media, affrontando il cinema, organizzando locali di ritrovo, spettacoli musicali, editando dischi, attraversando in tutti i modi la civiltà dei consumi e diventando lui stesso un divo di quella civiltà.

Dal 1963 Warhol si dedicò in particolare all’analisi dei miti della società contemporanea: i divi dello spettacolo e della politica (serigrafie riprese con i colori di Marlon Brando, Jacqueline Kennedy, Marilyn Monroe, Liz Taylor, Mao Tse-tung), i fatti di cronaca, come gli “incidenti stradali”, e giudiziari, la serie delle “sedie elettriche”. I soggetti, però, venivano spesso replicati modularmente a significare che la loro essenza non stava nel contenuto, nell’identità personale dei fatti e dei personaggi che i media propongono, ma nella serialità, nella dimensione commerciale, nell’apparenza. Sempre dal 1963, Warhol iniziò, in collaborazione con gli operatori del suo studio, la famosa factory, la produzione di film underground consistenti nella registrazione di scene di vita comune, quali il sonno, la droga, il sesso. Anche in questi lavori lo sguardo di Warhol si affermava come uno dei motivi fondamentali della Pop art: la riflessione sulla condizione e le contraddizioni dell’uomo contemporaneo, spettatore impotente e oggetto consumistico della società di massa.

Tra Pop e Nouveau réalisme: la situazione italiana

Mimmo Rotella nel suo studio

Nell’arte italiana Piero Manzoni si fece interprete, specialmente con i suoi Achromes, della sensibilità delineata nel Nouveau réalisme da Yves Klein.

Mimmo Rotella invece è stato uno dei protagonisti di quel settore dei nouveaux réalistes (Francois Dufrêne) che ha posto il manifesto pubblicitario al centro della sua ricerca. Le “affiches” pubblicitarie informative, soprattutto di film, che contribuiscono in maniera così forte al decoro urbano, sono staccate dal muro, lacerate e riportate sulla tela per essere manipolate.

In Italia il successo della Pop art americana avvenne nel 1964 alla Biennale di Venezia nel Padiglione americano dove esposero Rauschenberg, Johns, Dine, Oldenburg. La vena Pop si era sviluppata principalmente a Roma intorno a quella che il critico Maurizio Calvesi chiamò Scuola di Piazza del Popolo, rivendicando una condizione propriamente italiana. Rispetto alla Pop americana negli artisti romani la ridefinizione iconografica risultava meno oggettuale e più simbolica e legata alle esperienze figurative precedenti.

Nel 1961 Mario Schifano iniziò a produrre i suoi segnali, scritte pubblicitarie rivisitate in chiave pittorica con l’uso di colori industriali lasciati sgocciolare sulla carta o sulla tela. In seguito registrò l’influenza di Warhol nei “grandi particolari di propaganda” o nella serie di incidenti automobilistici. Mario Ceroli, a partire dal 1963, ha usato tavole di legno grezzo per ricavarvi profili di figure e di oggetti, attingendo a immagini quotidiane o a capolavori del Rinascimento. Tano Festa riproduce fotograficamente immagini artistiche (famosa quella di Adamo ed Eva del Giudizio Universale di Michelangelo) che poi monta e rielabora con smalti per provocare una rinnovata lettura. L’esponente più innovativo e rivoluzionario della Scuola di Piazza del Popolo è stato Pino Pascali che dal 1964 realizzò opere ludiche e ironiche, dalla serie delle Armi realizzate in materiali vari a grandezza naturale alla realizzazione di animali stilizzati (Dinosauro 1966) costruiti in tela sostenuta da strutture di legno. Tra gli artisti milanesi ricordiamo Valerio Adami ed Emilio Tadini.

Environment, happening e Optical art: momenti di espressività artistica

"Reading the news", happening di Marta Minujin, 1965

La scultura ambiente Merzbau di Schwitters e in Italia gli Ambienti spaziali (1949-50) di Fontana possono essere considerati i precedenti del concetto di “environment” (ambiente). Il termine, nato in America negli anni ‘60, è utilizzato per indicare un’installazione tridimensionale, ambientale, un’opera cioè con elementi e oggetti messi in scena in uno spazio definito, in cui lo spettatore può entrare, e che nel suo insieme costituisce l’opera d’arte. Negli USA i primi furono di Allan Kaprow, ambienti fluidi, carichi di stimoli plastici, luminosi, sonori, realizzati dall’artista a partire dal 1958. Ma si possono considerare environment anche alcune opere di Oldenburg, Kienholz, Dine e George Segal. Al 1964 risale la mostra “Environments by four new realists” alla Janis Gallery di New York.

Per “happening” (avvenimento in atto) si intende invece un manifestazione collettiva nella quale il procedimento è quasi più importante del risultato. Elementi connessi al teatro, alla danza, alla musica si fondono in una dimensione fluida che prevede la partecipazione attiva degli spettatori. L’happening nacque all’interno della scuola del musicista John Cage ma fu Kaprow, in un articolo del 1958, a usare per la prima volta questo termine per definire un lavoro artistico ambientale che prevedeva la partecipazione attiva del performer - di solito l’artista - e del pubblico. L’happening sedusse molti artisti della Pop art ma in seguito anche artisti concettuali e sostenitori della Body art.

Ancora prima di Kaprow, già dal 1955, il gruppo giapponese Gutai di Osaka si specializzò negli happening. Negli anni Sessanta sarà una forma d’arte diffusa tra moltissimi artisti europei, in particolare con l’attività di Fluxus, movimento internazionale formatosi nel 1961. Il termine fu coniato dall’artista multimediale americano George Maciunas per la prima volta in occasione di una sua performance-conferenza in una galleria newyorchese. Sull’esempio dei dadaisti gli artisti Fluxus volevano rompere con ogni aspetto legato alla forma, azzerare l’importanza dell’oggetto finale, e promuovere un’idea di arte totale in rapporto strettissimo con la vita. L’attività di Fluxus era collegata alle concezioni teorico-musicale di Cage e di altri musicisti sperimentali e dagli enviroments di Allan Kaprow. Musica, azione, arti plastiche e parole incominciarono ad avere rapporti tra loro: e Fluxus farà di questa interdisciplinarietà uno dei suoi caratteri fondamentali. L’intenzione era di liberare a pieno campo la creatività individuale da ogni forma di alienazione borghese: un intento condiviso dall’artista tedesco Beuys che si avvicinò al gruppo nel 1963, quando si tenne all’Accademia di Düsseldorf la seconda edizione del Festival Fluxus. Le più tipiche manifestazioni Fluxus erano i concerti-happening di antimusica che si moltiplicarono attraverso l’Europa, da Copenaghen a Nizza. Le azioni erano soprattutto documentate da riprese in video e in foto, dischi, partiture musicali e documenti cartacei. In Italia il principale esponente è Giuseppe Chiari.

Un’altra corrente artistica che caratterizzò gli anni ‘60, anche se sviluppatasi alla fine del decennio precedente, è l’arte programmata e cinetica, l’optical art. Riallacciandosi ad alcune intuizioni delle avanguardie storiche, specialmente del dadaismo, del futurismo e del costruttivismo, gli artisti che vi aderirono - Vasarely , Munari, Soto, Mari, Tinguely, Bury sono i principali - sperimentarono una gamma ricchissima di possibilità di movimento nell’opera d’arte, da quelle meccaniche a quelle luminose o elettromagnetiche, dando vita a strutture mobili e variabili, ma che obbediscono a un calcolo e a un programma rigorosi, di tipo quasi scientifico. Sono da ricordare, in particolare, il Gruppo T di Milano, il Gruppo N di Padova, il gruppo Zero di Duesseldorf e il gruppo parigino di Recherche d’Art Visuel. Una duplice preoccupazione muoveva gli artisti: da una parte l’accento posto più sull’individuazione di un metodo operativo rigidamente programmato che sul risultato estetico; dall’altra l’intento di coinvolgere lo spettatore, che era chiamato a completare con il suo intervento, o con la sua semplice presenza, l’opera d’arte. La prima grande mostra di optical art fu organizzata nel 1966 al Museum of Modern Art di New York.

Architettura e urbanistica

Il Sydney Opera House di Jørn Utzon

A partire dagli anni Cinquanta, l’ideologia dell’urbanistica modernista lasciò spazio all’affinamento di strumenti di pianificazione scientifica più attenti ai fattori territoriali, economici e sociali. La propensione all’edificazione del nuovo fu affiancata da un impegno crescente per l’inserimento degli interventi nel preesistente tessuto stilistico e urbano, e il gigantismo progettuale sfumò verso la dimensione policentrica e di quartiere, seguendo le indicazioni degli urbanisti anglosassoni e scandinavi. Ne furono un esempio le realizzazioni delle “new towns” inglesi e dei quartieri popolari “neorealisti” in Italia. Il connubio architettonico-urbanistico del modernismo, perciò, fu sostituito dalla multiformità degli interventi edilizi e dalla frantumazione degli stili. Il funzionalismo formalizzato dello stile internazionale fu abbandonato a favore di un utilitarismo progettuale più direttamente collegato alle preesistenze ambientali, secondo un progetto di reintegrazione tra edifici e territorio precisato dalla metà degli anni Sessanta.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che gli urbanisti del dopoguerra dovevano affrontare un problema nuovo: col diffondersi dell’automobile, le strade diventavano rapidamente insufficienti e inadeguate. Nel 1956 gli Smithson del Team X prepararono uno studio sulla viabilità londinese che prevedeva autostrade sopraelevate all’interno della città; queste verranno realizzate in tutto il mondo diventando rapidamente un nuovo punto di riferimento urbano.

A partire dagli anni Cinquanta architetti e ingegneri si misurarono con nuove soluzioni tese a dominare la scienza e la tecnica a fini espressivi: le potenzialità del cemento armato corroborarono il neoespressionismo, consentendo di prendere distanza dalla “banale” ortogonalità di pilastri e travi usati dall’International Style. Gusci sottili in cemento armato costituirono enormi e, allo stesso tempo, aeree coperture di grandi ambienti progettati da Saarinen. La soluzione strutturale giunse a caratterizzare, addirittura a identificarsi con l’edificio stesso: si pensi al Palazzo dell’Opera di Sidney progettato da J. Utzon nel 1956. Strutture laminari ad ombrello e vele paraboliche di leggera eleganza coprirono gli spazi progettati da F. Candela (ad esempio nel progetto per il padiglione dei Raggi Cosmici della città universitaria di Città del Messico, 1951) raggiungendo livelli di virtuosismo quasi neobarocco. In Italia Nervi, non giunse mai, anche nelle opere di massimo impegno ingegneristico, agli eccessi neoespressionisti di Saarinen o all’esuberante libertà di Candela. Le sue strutture furono improntate ad una maggior rigore, ad una compostezza e “misura” razionale che hanno fatto parlare di una sotterranea permanenza di residui classicistici (si pensi al Palazzo delle Esposizioni “Italia’61”; alla sala per le Udienze in Vaticano, 1966-71).

Il brutalismo

Museo della Pace a Hiroshima, Tange

Il bisogno di un linguaggio semplice ed autentico, di cui la corrente del brutalismo ne è una delle principali espressioni, si tradusse nel rinnovato interesse per forme e materiali locali. Il new brutalism nacque in Gran Bretagna negli anni Cinquanta, in reazione all’ondata di new humanis e di pittoresco naturalismo che pervase l’architettura inglese nel periodo della ricostruzione, e che si diffuse in tutta Europa, dall’Italia (neorealismo) ai paesi scandinavi (neoempirismo). Le sue posizioni furono discusse a partire dal 1954 in seno al Team X, un gruppo di giovani architetti fra cui A. e P. Smithson, A. van Eych, G. De Carlo, R. Erskine, che si proponeva una revisione critica dei principi dei maestri del Movimento Moderno e una verifica della loro attualità. Con l’aggressività delle loro proposte, sia in campo urbanistico che architettonico, finirono in realtà col segnare la fine del razionalismo, apportando, comunque, un reale rinnovamento nel linguaggio architettonico. In netto contrasto con le gentilezze manieristiche dell’International Style, declamarono la rude poesia dei materiali schietti (il termine brutalismo deriva da beton brut, ovvero calcestruzzo grezzo, lasciato a vista) e del nudo sistema costruttivo dell’edificio, in modo da svelare “onestamente” il funzionamento e l’essenza della struttura, senza sottoporla ad inutili processi di styling, di maquillage. Il primo edificio propriamente neobrutalista fu la scuola di Hunstanton di A. e P. Smithson (1949-54). In seguito, il movimento si arricchì di nuove complessità accostandosi alle ricerche artistiche della pittura informale di Pollock e all’art brut di Dubuffet. Le architetture più significative riferibili a questa tendenza si collocano attorno agli anni ‘60; fra loro si segnalano, in Inghilterra, alcune opere di Stirling (ad esempio la facoltà di ingegneria della Leicester University, 1959-63); In Italia l’Istituto Marchiondi di V. Viganò a Milano (1957-61); il complesso residenziale di Sorgane (Firenze, 1963) opera di L. Ricci; il palazzo di Via Piagentina di L. Savioli (Firenze, 1964); numerose opere di De Carlo (ad esempio il collegio universitario di Urbino, 1962-66). Il neobrutalismo ha avuto molto seguito anche in Giappone: principali esponenti furono Tange e K. Mayekawa.

Il cinema degli anni Sessanta

Marcello Mastroianni con Sofia Loren "Ieri, oggi, domani" (1963)

Verso la fine degli anni ‘50 il cinema sembra accusare una crisi, non soltanto produttiva, ma anche artistica. La causa va ricercata in parte nell’evolversi di nuovi interessi di spettacolo e di tempo libero, come la televisione e l’automobile. Contemporaneamente si affermò, in alcuni paesi europei e in aree del Terzo Mondo, un cinema “diverso” dalla tradizione (hollywoodiana, francese e anche italiana) e marcatamente caratterizzato, che sarà chiamato il “Nuovo cinema”.

A fianco di autori già affermatisi (Fellini, Antonioni, Bergman e Kurosawa) vennero alla ribalta in Europa autori di grande interesse come il cecoslovacco Milos Forman (Gli amori di una bionda), l’inglese Stanley Kubrick (Il Dottor Stranamore), l’ungherese Miklos Jancso (L’armata a cavallo), il polacco Roman Polanski (Il coltello nell’acqua), il russo Andrej Tarkoskij (L’infanzia di Ivan), il giapponese Oshima (Diario di un ladro di Shinjuku), il brasiliano Glauber Rocha (Il dio nero e il diavolo biondo), il belga André Delvaux, molti registi della Nouvelle vague francese, nonché cinematografie del tutto ignote, come quelle africana, argentina o indiana. Il Nuovo cinema (“le cinema de papà est mort”, sostenevano in Francia) è un termine che accomuna esperienze e autori diversi, cui difficilmente si può dare una definizione comune. Tuttavia si possono delineare certe affinità, come il rifiuto del plot e del successo a tutti i costi, una più marcata definizione psicologica dei personaggi, la frantumazione del linguaggio e della narrazione tradizionale, la ricerca di forme inedite di produzione che garantiscano una maggiore libertà agli autori sia sul piano della forma che dei contenuti, in molti casi coinvolti direttamente nella gestione produttiva e organizzativa. Su queste basi trovano comunione culturale autori che sono apparentemente molto diversi, come Godard e Rocha, Straub e Albaux, Bertolucci, Mekas e Anderson. Sempre negli anni sessanta in Europa, accanto alla Nouvelle Vague di Godard e Truffaut, si apriva la dissacrante stagione del Free cinema inglese, che puntava più sui contenuti piuttosto che sui nuovi linguaggi. La animarono giovani cineasti spesso provenienti dal documentarismo, fra i quali figurano Anderson (Io sono un campione. If), Reisz (Morgan, matto da legare), Richardson (Gioventù, amore e rabbia) e Schlesinger (Billy il bugiardo).

Anche in Italia la generazione dei maestri del Neorealismo venne affiancata da giovani esordienti che esprimevano una forte spinta alla rottura degli schemi tradizionali. Sono gli esordienti Pier Paolo Pasolini (Accattone; Il Vangelo secondo Matteo), Bernardo Bertolucci (Partner; Prima della rivoluzione), Marco Bellocchio (Pugni in tasca), Marco Ferreri (L’ape regina; Dillinger è morto) e altri giovani che rinnovarono poetiche e linguaggi del cinema italiano.

Durante gli anni Sessanta, infine, si affermarono nuovi generi di grande successo commerciale, come gli spaghetti western di Sergio Leone e l’inizio della saga di James Bond.

Il cinema americano e la crisi di Hollywood

Clark Gable, Marilyn Monroe in una scena del film "Gli spostati", diretto da J. Huston (1961)

Nonostante il successo degli ultimi kolossal hollywoodiani, quali Ben Hur di Wylliam Wyler del ‘59, Il Dottor Zivago, di David Lean del ‘65, l’industria cinematografica americana si avviò ad un periodo di crisi in cui si riflettevano sia la recessione economica internazionale che le forti tensioni interne come quelle legate alla guerra del Vietnam.

Dopo il 1960, con l’avvento dei film “on the road” fatti da produttori esterni al mondo di Hollywood, con l’Actor’s Studio e il costume che stava cambiando, anche lo star system hollywoodiano decadeva. I grandi attori come Kirk Douglas, John Wayne, Tyrone Power, Marlon Brando, Bette Davis si gestivano da soli, e tendevano ad essere produttori dei loro film.

Hollywood non era più l’unico centro in cui produrre film e fu da allora che aprì le sue porte ad una nuova generazione di autori formatisi a contatto con il cinema indipendente, il documentario e l’avanguardia. Con loro entrarono ad Hollywood le teorie della Nouvelle Vague francese, nuove tecniche narrative, e la voglia di confrontarsi con i modelli del cinema d’arte europeo. Ovunque la censura diventò più permissiva, consentendo una rappresentazione più autentica della realtà. Si pensi ad un film di protesta come Easy Rider, (con Peter Fonda, figlio di Henry) diretto nel’69 da Dennis Hopper, che narra il viaggio di due spacciatori di droga negli Stati Uniti, simbolo delle inquietudini dei giovani americani e delle loro aspirazioni sociali. Tra i film più importanti si ricordano quello di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer, sul tema dell’integrazione razziale, Quella sporca dozzina (1967) di Robert Aldrich e Sam Peckinpah con Mucchio selvaggio (1969).

L’Inghilterra tra Bond e “2001: Odissea nello spazio”

La scena del monolito in "2001: Odissea nello spazio"

In Gran Bretagna la nuova onda del cinema moderno prese le mosse dal documentarismo. Come già in Francia per i registi della Nouvelle vague, anche qui l’attenzione al reale e alla contemporaneità si rivelò esigenza portante, di pari passo con la già citata attenzione agli stili dei maestri del passato e ad una propensione alla sperimentazione tecnica.

In ambito prima teatrale poi cinematografico si sviluppava una tendenza di “giovani e arrabbiati”, la cui opera-simbolo fu il dramma di John Osborne Ricorda con rabbia, messo in scena da Tony Richardson e in seguito da lui trasposto per il cinema con il titolo I giovani arrabbiati - Look back in Anger, 1959. Questo ed altri film erano espressioni di sobrio realismo cinematografico, che vennero chiamati con il nome “kitchen sink”, ovvero il lavandino della cucina, nome evocativo di atmosfere popolari e di vite normali. Sab racconta i disagi di una vita monotona divisa tra lavoro in fabbrica e fidanzata, e non dà speranze di riscossa. I giovani e arrabbiati avranno in If di Lindsay Anderson, del 1969 un’espressione adeguata della loro protesta: una severa denuncia dell’educazione repressiva dei college inglesi, e delle devianze che ne scaturiscono.

Il cinema continuava a rappresentare la realtà, talvolta in modo aderente, tal altra facendone la parodia: le crisi politiche internazionali dei primi anni Sessanta vennero reinterpretate secondo quest’ultimo filone. Agente 007 era la risposta inglese alla supremazia tecnologica americana: in una delle più fortunate serie della storia mondiale del cinema, James Bond era una spia che ben incarnava le situazioni del suo tempo: esperto di qualsiasi marchingegno tecnologico, seduttore infallibile, frequentatore dei luoghi turistici più alla moda, simboleggiava in maniera spettacolare la guerra fredda degli anni ‘60. Di diverso spessore artistico erano le opere di Stanley Kubrick: un grande autore, poetico precursore di favole del futuro come 2001 Odissea nello spazio, film che rappresentava in modo magistrale l’avventura dell’uomo nelle profondità del cosmo. Qualche anno prima Kubrick aveva simboleggiato le paure del suo tempo, con il timore di una guerra totale, per giunta cominciata per errore, e aveva presentato un lucido atto di accusa contro il militarismo e la follia atomica, attraverso le armi dell’ironia e della satira, con il film Dottor Stranamore.

La Nouvelle vague francese

Una scena di "I quattrocento colpi" di Truffaut

La Nouvelle vague, in Francia, nacque in seno alla rivista di critica cinematografica “Cahiers du cinéma”, animata fra gli altri da André Basin, Jean-Luc Godard, François Truffaut. L’appellativo di Nouvelle vague venne usato per la prima volta dalla giornalista Françoise Giraud. Era il tentativo di fare cinema pensando a un progetto di sincronismo tra Lumière e Delluc, tra il cinema naturalistico e quello di idee. Una delle caratteristiche dei primi film è il loro basso costo. Se un film normale costava 200 milioni, gli autori della Nouvelle vague ne spendevano 50, perché usavano mezzi semplici, comparse gratuite, riprese rubate nelle strade. Anche gli attori, quasi attori popolari, non incidevano troppo sul budget. Louis Malle esordì con Ascensore per il patibolo (1957), interpretato da un’inquietante e affascinante Jeanne Moreau. Nello stesso anno Claude Chabrol girò Le beau Serge e poco dopo I cugini; il primo interessante evento critico è tuttavia il film di François Truffaut I quattrocento colpi (1959). In quest’opera fondamentale della cinematografia francese, Truffaut racconta la sua infanzia e lo fa in prima persona, una ricerca di un tempo lontano e forse perduto, un’autobiografia sincera e autentica. Dopo questa, un’altra opera di grande importanza è A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) di Jean-Luc Godard (1960). Questo film, interpretato da un giovane Belmondo, è interessante per il montaggio, molto spezzettato, che si fonde con l’azione contribuendo al ritmo anarchico del racconto. Oltre al rivoluzionario montaggio di Godard, la Nouvelle vague inventò il “piano sequenza”, cioè lunghe inquadrature che raccoglievano intere scene. Un anno prima, nel 1959, meno legato agli altri cineasti del gruppo, pur condividendone le scelte, Alain Resnais esordì con Hiroshima mon amour. Successivamente molti critici della rivista “Cahiers du cinéma” si trasformarono in registi, perdendo però parte della loro originalità iniziale. Così nel 1962 uscì fra gli altri Cleò dalle 5 alle 7 di Agnès Varda. Uno dei meriti principali della Nouvelle vague è stato quello di mettere in evidenza la distinzione tra l’autore e il regista “metteur en scene”.

Lo spaghetti western di Sergio Leone

La celeberrima scena del triello; tale scena venne girata nei pressi di Santo Domingo de Silos, dove ancora oggi è sopravvissuto qualcosa

Il western all’italiana è forse il genere italiano più conosciuto nel mondo, ed ha il suo inventore e propagatore nel regista Sergio Leone. Cresciuto alla scuola del cinema storico/mitologico, aveva presto maturato una forte propensione per l’avventura che lo avevano spinto verso la sperimentazione. Così nella prima metà degli anni Sessanta, Leone esordì con la cosiddetta ‘trilogia del dollaro’: Per un pugno di dollari, 1964, Per qualche dollaro in più, 1965, e Il buono, Il brutto e Il cattivo, 1966. Sono film epico-avventurosi che, girati nella valle di Almeira, in Spagna, ripropongono i temi e i personaggi dei film americani dell’epopea western, ma decisamente più realistici e meno edulcorati.

I film non sono più incentrati su trame sentimentali, sul mito della frontiera ma su eroi sporchi, spesso crudeli o impassibili, duri dal cuore duro che si affrontano in duelli all’ultimo sangue: Clint Eastwood, laconico e atarassico, vaga in un mondo ai confini con l’assurdo. La violenza di dialoghi e situazioni si accompagna ad uno stile filmico che si sofferma su orizzonti sconfinati e cristallizzati dal sole che si alternano a particolari di mani che sfiorano pistole o di occhi che aspettano di prendere la mira; ad un montaggio così formalmente significativo corrisponde però spesso un umorismo nero dei dialoghi sottolineato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Considerato da Leone alla stregua di uno sceneggiatore, Morricone risolve ed amplia i nodi tematici dei vari film, utilizzando tensione drammatica ed ironia, procedendo di pari passo con le risoluzioni del regista, che lo vorrà come collaboratore in tutti i suoi film.

Il nuovo cinema dell’Est

Una scena tratta da Il coltello nell'acqua di Roman Polanski

Un rinascimento in linea con lo spirito della Nouvelle vague francese si delineò anche nei paesi dell’Europa dell’Est. A differenza dell’Unione Sovietica questi stati erano più attenti a quanto avveniva nel resto d’Europa. Importavano un maggior numero di pellicole rispetto all’URSS, così che i registi dell’est fossero aggiornati sul lavoro dei loro colleghi occidentali, e disponevano inoltre di un sistema per finanziare il cinema più rapido ed efficace di quello sovietico ancora rigido, burocratico e censore. Sull’esempio di quanto era avvenuto nel 1955 in Polonia, in vari stati si diffuse il sistema delle “unità creative cinematografiche”, in cui un regista ed uno sceneggiatore lavoravano insieme ad un progetto controllati da un regista più anziano, in Jugoslavia, invece, era consentito fondare società indipendenti per la realizzazione di un film.

Nel circuito dei festival europei si impose così la nuova generazione dei cineasti dell’Europa dell’Est, talenti quali i polacchi Andrzej Wajda, Roman Polanski, Jerzy Skolimowski, i cecoslovacchi Jirí Menzel e Miloš Forman, gli ungheresi Miklós Jancsó, István Szabó, lo jugoslavo Dusan Makavejev. Le loro opere sono distinte da una forte individualità eppure accomunate da uno spirito che tende a mettere in discussione tutto ciò che viene accettato come dogma. Jancsó, ad esempio, diviene maestro di piani sequenza estenuanti per filmare con distacco e freddezza i fatti della storia d’Ungheria; Polanski sceglie il clima della suspense per il suo primo lungometraggio, Nóz W Wodzie, Il coltello nell’acqua, del 1962, per attaccare la classe dirigente; Makavejev usa trovate surreali ed umorismo popolare, mentre Forman combina ironia ed i modi del cinema verité.

Il successo internazionale ed i tristi fatti della rivolta di Praga allontanarono presto gli autori dai loro paesi d’origine, e come era già successo negli anni del nazismo, alcuni di loro trovarono lavoro e popolarità negli Stati Uniti. In particolare Roman Polanski e Miloš Forman hanno continuato con grande successo, con fedeltà ai modelli originali e padroneggiando i grandi mezzi messi a loro disposizione.

Tra politica e irrealtà: Pasolini, Antonioni, Fellini e i nuovi autori italiani

Primo piano di Pier Paolo Pasolini

Gli anni Sessanta in Italia si contraddistinsero per alcuni nuovi autori continuatori della tradizione dei grandi registri italiani.

Le modalità del fantastico in Pier Paolo Pasolini vivono di significati culturali e politici più pregnanti. Artista completo, intellettuale e pensatore, era il teorizzatore di un “cinema di poesia” che diventa necessariamente strumento di analisi politica e sociale. Mediante la “soggettiva libera indiretta”, ovvero lo sguardo della macchina da presa, ottica critica sul mondo e sguardo significante sulle cose, Pasolini si è fatto creatore di parabole politiche contemporanee, spesso dissacranti e sferranti duri attacchi alla moralità e all’ordine costituiti. Uccellacci e Uccellini, 1965, Teorema, 1968, Porcile, 1969, testimoniano uno stile che scaturisce da una diversità culturale, sessuale e politica e che funziona da contrappunto ad una società tesa verso l’omologazione.

Michelangelo Antonioni con L’avventura, 1960, inaugurò una tetralogia che esplorava con ottica modernista le voragini esistenziali della vita contemporanea. L’approccio estetico era un’intelligente identificazione di rappresentazione dell’inconscio con l’ambiente: il bianco e nero rarefatto, il paesaggio bellissimo ma desolato, la dispersione dell’azione, la banalità di situazioni e dialoghi, denunciavano e provocavano disagio, tecnicamente demarcato da inquadrature in campo largo e spesso ellittiche. Con Deserto Rosso, 1964, Antonioni si aprì alle possibilità espressive del colore e se ne servì formalmente per conferire senso alla messa in scena. Il mondo rappresentato si identificò così con la forma; geometria e colore diventarono protagonisti, specchi inesorabili della condizione psicologica dei personaggi, e veicoli di una riflessione sulla rappresentazione nell’arte contemporanea. Con Blow Up, 1966, la riflessione si addentra nei meandri della coscienza del mezzo; anche il cinema, come la fotografia, risulta una macchina che, più potente nel produrre e conoscere la realtà, ribadisce all’uomo la constatazione di una perdita di identità.

Negli stessi anni, uscì nella sale il film La dolce vita di Federico Fellini e lo scandalo fu enorme visto che la rappresentazione decadente di Roma veniva vista come un attacco destabilizzante ai valori sacri della società. Tutto ciò non bloccò il successo del film, che fu premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes e divenne lo specchio di un’epoca e consacrò il mito di Fellini, che ribadì il suo genio con 8 e mezzo (1963), dove si accentuava il tono autobiografico.

L’incremento industriale degli anni Sessanta in Italia favorì, in campo cinematografico, l’esordio di molti nuovi registi; Cinecittà produceva film a pieno regime e sia gli USA che altri paesi partecipavano a cooproduzioni italiane. Si formò in questo periodo una generazione di giovani autori che, partendo dalle risoluzioni stilistiche e dalle tematiche neorealiste, aggiornarono la tradizione verso analisi più marcatamente sociali e verso procedimenti narrativi meno lineari. Francesco Rosi, che era stato aiuto di Visconti in La terra trema, combinava in Salvatore Giuliano, 1961, l’inchiesta semi documentaria sulla morte del bandito e sequenze in flashback con grossi salti temporali. Così Gillo Pontecorvo, che con La battaglia di Algeri, 1966 ha fornito uno dei contributi più importanti a questa nuova tendenza che riuniva il cinéma vérité, mentre Ermanno Olmi ha realizzato con Il Posto, 1961 l’evoluzione della corrente più intima e quotidiana della tradizione neorealista. Marco Bellocchio con La Cina è vicina, 1967, portò sullo schermo la critica della nuova sinistra al comunismo ortodosso, mentre nel 1965, con il capolavoro I pugni in tasca, aveva raccontato la dissoluzione della famiglia borghese con i toni feroci e ed estremi della tragedia psicologica.

La letteratura dissidente: i narratori russi

Pasternak in un dipinto del 1910 del padre Leonid

Dopo la morte di Stalin e in seguito alle decisioni del XX Congresso, in Unione Sovietica si ebbe un periodo di relativa tolleranza; fu in questa fase di coesistenza pacifica a livello internazionale e di destalinizzazione nei paesi socialisti che uscì il libro di Ilia Ehremburg Il disgelo. Ma con la presa del potere da parte di Breznev il processo di liberalizzazione subì un arresto che provocò la nascita della letteratura del “dissenso”. Nel tentativo di ridurre al silenzio questa opposizione la censura governativa inviò nei gulag scrittori e scienziati dissidenti. Nel romanzo di Solzenicyn Una giornata di Ivan Denissovic (1962) viene raccontata l’esperienza dello scrittore nei gulag staliniani. Altri suoi romanzi sono Reparto C (1967) e Il primo cerchio (1969). Liberato dal gulag, Solzenicyn dovette abbandonare l’Unione Sovietica. Un caso simile al suo è quello di Evtuscenko, un altro grande poeta sovietico che fu costretto ad emigrare. Le sue poesie divennero popolari nel paesi occidentali, dove soggiornò durante l’esilio. Scrittori come Pasternak, il cui Dottor Zivago, ottenne una vasta popolarità prima all’estero e poi in patria, e Vladimir Nabokov, il cui romanzo Lolita è stato tradotto in tutto il mondo, si posero su un piano più commerciale. Nei paesi dell’Est, oltre la cortina di ferro, la produzione letteraria è come impaludata dall’egemonia ideologica: chi riusciva a scrivere un grande libro come Il ponte sulla Dvna di Ivo Andric era poi costretto a emigrare.

La letteratura latino americana

Gabriel García Márquez in una foto del 1984, mentre indossa un tipico copricapo colombiano

A favorire la scoperta, sia a livello di pubblico che di critica, della letteratura latino-americana contribuì il grande successo di Cent’anni di solitudine (1967), il romanzo più famoso di Gabriel Garcia Marquez. L’autore, nato in Colombia nel 1928, assorbì nella sua formazione molti elementi popolari e religiosi tipici del suo paese. Nel suo libro racconta un’umanità condannata alla solitudine, fino all’estinzione. Estinzione che parte dall’imperialismo distruttore delle tradizioni originali e dei miti indigeni. Lo stile è come quello delle cattedrali ispaniche del Sudamerica, “barocco e fantastico”. Un connubio in cui è riconoscibile la mano di Marquez, il più idoneo per rendere una realtà enfatizzata e misteriosa. Lo stile dell’argentino Jorge Luis Borges è invece di tutt’altra natura; poeta, autore di racconti, saggista, dimostra un interesse cosmopolita che riflette la sua profonda conoscenza della cultura europea. A differenza di Marquez e di altri scrittori latino-americani in cui sempre presente la realtà storica e umana della nazione in cui vivono. Definire il suo stile così mutevole e articolato è un’operazione complessa, ma si possono tuttavia riconoscere alcuni motivi che ricorrono nella sua opera, come il labirinto, che rappresenta la possibilità di varie alternative, tutte senza via d’uscita, o lo specchio, suggestione della irrealtà dell’immagine riflessa. Le opere di Borges sono sempre frutto di fantasia, una metafisica tutta personale, risultato di un lucido raziocinio; così nel famoso La biblioteca di Babele, dove per biblioteca si intende un universo, indefinito e forse infinito. Interessante in quegli anni anche la produzione dello scrittore brasiliano George Amado, che narra storie di ingiustizie, di donne, di sfruttamento dei lavoratori nelle piantagioni, ambientando i suoi racconti in una delle regioni più affascinanti del Brasile, Bahia: Jubialà, Gabriella, garofano e cannella, Teresa Batista stanca di Guerra, Dona Flor e i suoi due mariti.

Il “Gruppo ‘63”

Italo Calvino

Dalla fine degli anni 50, si assiste in Italia all’esaurimento della corrente neorealistica che aveva caratterizzato il dopo guerra. La definitiva trasformazione della società durante gli anni del boom economico aveva portato con se la disillusione di poter “comprendere la realtà” e quindi migliorarla attraverso i metodi scientifici dell’osservazione e dell’analisi. Da ciò il ritorno alle tematiche intimistiche e neo-crepuscolari del primo ‘900 e il rifiuto della storia come oggetto di ispirazione e rappresentazione. Le prime tendenze verso questa disillusione sono rappresentate dalle opere di Tomasi, Bassani e Cassola.

Il gruppo della neo avanguardia nacque ufficialmente nel 1963 a Palermo, dove si riunirono Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta, Balestrini che si organizzarono ufficialmente in corrente, con il nome di “Gruppo 63”, dal titolo di un’antologia di opere degli appartenenti al gruppo stesso. Nella ricerca della definizione di una nuova poetica, gli artisti, da una parte, si rifecero al rifiuto del forte ideologismo, spesso esasperato e dell’impegno storico e sociale della corrente neorealistica, dall’altra al rifiuto dell’intimismo e dell’auto introspettivismo di Bassani e Cassola. Si richiamavano invece, inevitabilmente, alla poetica e allo sperimentalismo delle avanguardie storiche, tanto che, pur nei diversi contesti socio-culturali, molti aspetti della concezione dell’arte e della natura, ricordano da vicino quelli dei modelli.

L’analisi, e quindi la contestazione, del gruppo si fondavano essenzialmente sugli strumenti della comunicazione: il linguaggio ormai strumento della moderna società di massa, della pubblicità, dell’industria editoriale, è logorato ed è incapace di farsi portatore di pensieri idee e significati autentici. Il poeta, che vede la sua condizione ormai del tutto investita dalla crisi, in un momento in cui le tecniche di scrittura poetica e di espressione artistica in generale, sono completamente mercificate e finalizzate alla comunicazione di massa, non trova altra soluzione che fare proprio di tutto ciò il centro della sua arte: ovvero descrivere direttamente il caos da cui la realtà è stata travolta. Di qui una produzione caratterizzata dalla mancanza di qualsiasi logica sintattica, dall’asemanticità dei morfemi, da parole in libertà. In definitiva, centro della sperimentazione diviene il “non-sense” della comunicazione, costruito con parole affiancate e disposte sulla pagina in modo del tutto casuale: elementi antichi della lingua, frammenti di lingue ormai morte affiancati ai più recenti neologismi e anglismi, provenienti dal mondo della comunicazione di massa.

Tuttavia non tutti gli artisti dell’epoca considerarono queste le uniche alternative alla comunicazione di massa. All’arte come rappresentazione del caos, si oppone decisamente Italo Calvino, con alcuni interventi memorabili: ne La sfida al labirinto del 1962, l’autore analizza gli sviluppi della letteratura delle avanguardie, sottolineando la necessità di non perdersi nel complicato labirinto della realtà in continuo movimento (ovvero il “mare dell’oggettività”, da titolo di un intervento edito anch’esso nel 1962). Il compito dell’artista è quello di cercare l’atteggiamento migliore per dipanare il caos da cui è circondato, per comprenderlo, tenendo pur presente che non sarà mai possibile scioglierlo: l’artista è comunque colui che deve portare avanti la continua sfida del logos contro il caos, della ragione contro l’irrazionalità., una sfida eterna e senza soluzione, alla quale non ci si dovrà mai arrendere come invece tendevano a fare gli autori della neoavanguardia.

Anche Andrea Zanzotto, uno dei maggiori poeti della generazione successiva a quella di Montale, pur partendo dalle analisi e dalle critiche delle avanguardie, si oppone all’accettazione della non-significazione. In particolare la sua ricerca si fonda sul recupero di un linguaggio autentico, che faccia ancora presa sulle cose, spaziando dalla comunicazione prelinguistica tipica del mondo dell’infanzia, a quella postlinguistica, tipica della “follia”, ovvero della sperimentazione analogica, senza per questo scartare le infinite manifestazioni di degradazione linguistica offerte dal mondo contemporaneo.

Da Londra a New York: le nuove rappresentazioni teatrali

1968 Performance del Living Theatre al Politecnico di Milano - Entusiasmo di uno studente che si spoglia per prender parte alla performance

Il Living nacque a New York nel ‘47 da due giovani artisti ebrei: Julian Beck, pittore espressionista, e Judith Malina, attrice e regista. Il teatro rappresentava per loro il mezzo per realizzare ideali artistici ed esistenziali in aperta polemica con la politica e la cultura convenzionali. La trasgressione nei confronti del modo di fare teatro si spingeva ad eliminare la figura del regista e ad affidare l’efficacia dell’azione scenica ai singoli attori. Il Living lavorava dapprima su testi della nuova drammaturgia americana ed europea, ma fu probabilmente l’incontro con il drammaturgo Kenneth Brown a determinarne le scelte stilistiche più radicali. Dell’autore il Living mette in scena nel ‘60 The Brig (La prigione), descrizione di una giornata in un carcere militare americano dove dominano l’imposizione e l’annullamento della personalità. Questo lavoro segnò il rifiuto del concetto stesso di teatro, effimera ed ingannevole illusione, mentre la ricerca si focalizza sulla fonte più autentica della comunicazione, il lavoro dell’attore, in grado di costruire da solo l’azione sulla scena con ogni mezzo espressivo a sua disposizione. La rappresentazione si basava su moduli di realismo feroce e minuzioso e la stessa preparazione dello spettacolo avveniva in modo che l’attore sentisse su se stesso tutta la crudeltà dell’azione. L’involucro estetico del teatro veniva abbattuto per farne emergere solo l’essenza che si traduceva in esperienza esistenziale. Facendo dell’evento scenico un momento “politico”, il Living concretizzava la sua missione ideologica di proporsi come modello di comunità fondata sull’uguaglianza dei suoi membri, sul lavoro, sulla reciproca solidarietà, realizzando spettacoli in grado di coinvolgere lo spettatore nella necessità di rifondare la struttura del sistema sociale. Nel ‘61 il Living, anche a causa dei dissensi incontrati in America, si trasferì in Europa dove realizzò gli spettacoli di maggiore impegno: Frankenstein del ‘65, Antigone del ‘67 e Paradise now del ‘68. In Frankenstein la creatura, raffigurata da un profilo disegnato con dei tubi a neon sulla scena, viene di volta in volta costruita con i corpi di persone simbolicamente braccate ed uccise tra il pubblico; in Antigone gli spettatori prendono parte attiva alla scena impersonando gli Argivi (nemici di Tebe), mentre gli attori sono i Tebani aggressori. In entrambi gli spettacoli tutti gli attori sono sempre in scena. Ma in Paradise now lo spettacolo si dissolve al punto che il pubblico, totalmente integrato nella scena, non ne capisce lo sviluppo se non quando vengono pronunciati degli slogan. Il Living si sciolse nel ‘70 per ricostituirsi in una formula ancor più radicale con la scelta della strada come luogo dell’evento scenico, dove i principi innovatori di improvvisazione e creazione collettiva continuano ancora ad animarlo.

Importante è l’esperienza del teatro tedesco degli anni Sessanta. In Germania, il dopoguerra, fu particolarmente angoscioso e difficile: un passato da ripudiare, una patria inesistente, rovine morali e materiali da eliminare, e a causa di questo la situazione artistica e letteraria aveva registrato un ritardo rispetto alle altre nazioni. La situazione sarebbe cambiata alla fine degli anni Cinquanta. Un importante esempio della nuova avanguardia rivoluzionaria tedesca era stato il teatro di Peter Weiss (Marat-Sade, 1964), fortemente impegnato in senso politico e sociale, e ispirato dall’esperienza brechtiana. Anche Gunter Grass, nato a Danzica nel 1927 e affermatosi nel 1959 col romanzo Il tamburo di latta era un autore assai significativo di questa tendenza generale, aspramente polemica con il capitalismo. Denunciava lo sfruttamento umano e l’aridità sempre maggiore dei sentimenti, faceva uso di uno stile post-espressionistico particolarmente efficace per descrivere il disfacimento della società contemporanea. Infine l’opera poetica di Hans Enzerslager rappresenta una radicale accusa del neocapitalismo opulento di Bonn, che cercava di comprendere con lucida coscienza civile la realtà negativa dell’ambiente in cui era costretto a vivere. Una rabbia analitica e spietata che l’autore non si limitava ad “urlare”, ma rappresenta lucidamente con uno stile di derivazione espressionista.

Scienza e Tecnologia

La competizione spaziale

La sonda Ranger 3 che nel 1962 avrebbe dovuto studiare il suolo lunare ma che mancò l'orbita di 36 mila chilometri

Con l’invenzione della bomba atomica si aprì, nella seconda metà del secolo, l’era nucleare, caratterizzata dalla corsa alla creazione di ordigni sempre più devastanti. Ma il secondo dopoguerra, per la comunità scientifica, significò anche la conquista dello spazio, la scoperta del DNA, la sconfitta della poliomielite, gli aerei a reazione, la televisione, i satelliti e il laser.

L’accelerazione del progresso tecnologico della seconda metà del secolo è stata particolarmente evidente nel campo della missilistica e dell’astronautica. Tali settori, indissolubilmente legati alle ricerche nel campo degli armamenti, hanno costituito un esempio tipico del modello di sviluppo tecnologico postbellico. Quest’ultimo è stato trainato principalmente dalla concentrazione di enormi investimenti pubblici, motivati da esigenze militari, in imprese tecnologiche di punta, che hanno sfruttato gli avanzamenti dell’intero sistema industriale e provocato, a loro volta, vasti effetti di ricaduta tecnologica sull’economia civile. Nel caso della tecnologia spaziale, questi effetti hanno coperto uno spettro vastissimo, compreso tra le trasmissioni televisive satellitari e l’introduzione di nuove diagnostiche mediche.

1961: Dagli Sputnik a Gagarin

Yuri Gagarin

Il 4 ottobre 1957, il primo satellite artificiale della storia, lo Sputnik, del peso di 83 chili, fu lanciato in orbita attorno alla terra dall’Unione Sovietica, seguito, il mese successivo, da un secondo satellite di mezza tonnellata con la cagnetta Laika a bordo. Il successo sovietico, che impressionò enormemente l’opinione pubblica e i governi occidentali, non significava soltanto una vittoria di prestigio dall’enorme valore propagandistico.

Ma l’Unione Sovietica di Kruscev ebbe il successo più clamoroso il 12 aprile 1961 lanciando nello spazio il primo essere umano. Già da qualche mese i sovietici si preparavano a questa storica impresa: toccò a un giovane pilota militare, Jurij Gagarin, salire sulla navicella spaziale Vostok I. La navicella, con l’uomo a bordo, venne lanciata dal cosmodromo di Tyuratam. Alla velocità di 27.400 km all’ora, entrò in orbita e girò intorno alla terra in un’ora e 48 minuti. Gagarin divenne l’uomo più famoso del mondo, e la sua impresa, prescindendo dal valore politico, entrò a far parte delle grandi conquiste dell’umanità.

Per gli americani il successo della Vostok I, fu un duro colpo, ma costituì anche un incitamento ad accelerare i tempi della ricerca spaziale. La risposta americana al volo di Gagarin si limitò, in quei primi anni, al lancio di qualche satellite Explorer. In seguito si intensificarono i lanci di sonde spaziali che esplorarono la Luna e compirono alcuni allunaggi meccanici. Sovietica fu la prima donna nello spazio, Valentina Tereskova; nel 1964 sarà ancora l’URSS a ottenere un grande successo con il lancio in orbita di un equipaggio di tre astronauti; in quell’occasione venne eseguita la prima passeggiata nello spazio.

La rincorsa americana: i progetti Mercury e Apollo

John Glenn durante la prima orbita con equipaggio umano del Programma Mercury, 26 febbraio 1962

La risposta americana all’impresa di Gagarin non si fece attendere, dando il via alla corsa allo spazio.

Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy lanciò l’ambizioso programma dello sbarco dell’uomo sulla Luna, entro la fine del decennio. Negli anni successivi, la corsa allo spazio delle due superpotenze continuò, impegnando somme enormi attraverso eventi seguiti in tutto il mondo tramite la televisione: lanci di missili, passeggiate spaziali, appuntamenti tra navicelle orbitanti. Il programma americano per lo sbarco sulla Luna continuò sotto la direzione del tedesco Werner Von Braun, inventore delle V-2 naziste e principale capo dei progetti missilistici americani, a Cape Canaveral in Florida.

Le missioni della serie Mercury iniziarono il 5 maggio 1961 con la messa in orbita dell’astronauta americano Alan Shepard. Le prime due spedizioni della successiva missione, la Gemini, furono effettuate con due capsule non abitate. Solo con la Gemini 3 l’uomo tornò a bordo e l’equipaggio della Gemini 4 effettuò anch’esso una “passeggiata spaziale”. Le missioni delle Gemini che seguirono, la Gemini 6 e 7, servirono a mettere a punto le tecniche per gli “incontri” in orbita tra due veicoli spaziali lanciati da terra in due momenti diversi. Un compito ancora più difficile fu affidato invece all’equipaggio della Gemini 11, che, viaggiando in formazione con un altro veicolo al quale era ancorata tramite un cavo, si produsse in un aggancio con un razzo appositamente parcheggiato in orbita in precedenza. Il grande passo verso la Luna stava per compiersi.

1969: “Un piccolo passo per l’uomo…”

Luglio 1969: Edwin Aldrin sulla luna

Il giorno 20 luglio 1969, in diretta televisiva mondiale, un uomo scese le scalette del modulo lunare Eagle e mise piede sulla Luna. Si allontanò di qualche passo dal modulo e piantò sul suolo lunare la bandiera americana. Si chiamava Neil Armstrong: fu il momento culminante del progetto che aveva portato l’uomo sulla Luna, un progetto fortemente voluto dal presidente Kennedy, la fine di una competizione dal sapore sportivo, politico e propagandistico.

Dopo aver preparato meticolosamente il “progetto Apollo”, il 16 luglio 1969, dalla base di Cape Canaveral, in Florida, era stato lanciato il missile che portava tre astronauti, Armstrong, Aldrin e Collins, sulla Luna. Il modulo lunare si staccò dall’astronave in orbita intorno alla Luna e si posò nel “Mare della Tranquillità”. Vi rimase 21 ore e Armstrong e Aldrin camminarono sulla Luna per due ore per raccogliere materiali.

Grazie agli strumenti di cui era dotato il modulo lunare, l’avventura venne seguita per televisione in tutto il mondo da milioni di spettatori. E’ stato senz’altro l’avvenimento più appassionante e quindi più seguito che si sia mai verificato, e l’immagine degli Stati Uniti ne uscì molto rafforzata.

Il 24 luglio l’Apollo 11 rientrò nell’atmosfera terrestre, ammarando nell’oceano Pacifico. In seguito altri allunaggi sono stati effettuati, con l’Apollo 12, sempre nel 1969, e poi con l’Apollo 13, e l’Apollo 14. Con i dati scientifici riportati grazie a quei viaggi si esaurì l’interesse per l’esplorazione lunare e l’attenzione venne spostata verso altri progetti, come la costruzione di stazioni spaziali utili per la ricerca nello spazio e future basi per viaggi molto più lunghi, o l’invio di sonde dirette su pianeti sempre più lontani e sconosciuti.

L’osservazione dello spazio

Osservatorio astronomico Lick di Mount Hamilton, California

L’era spaziale, inaugurata dai sovietici con il lancio di Gagarin in orbita intorno alla Terra, ha spinto l’uomo verso il cielo, lo ha spinto ad osservarlo, a studiarlo, ad avvicinarsi ad esso con strumenti che non sono più gli antichi cannocchiali di Galileo, né i grandi telescopi come quelli di Monte Palomar, in California, ma sofisticati calcolatori che hanno avvicinato il lavoro degli astronomi a quello dei matematici. E’ in questo modo, grazie a tali avveniristici calcolatori automatici, che si scoprono le enormi distanze cosmiche, l’età della nostra e di altre galassie e perfino la loro forma.

Oltre a questo tipo di astronomia matematica che veniva studiata in laboratori scientifici, furono costruite sonde spaziali lanciate nel cosmo per studiare e fotografare da vicino pianeti e satelliti, la loro conformazione orografica, la cosiddetta astrochimica. Si tratta di particolari robot guidati dalla terra che si posano sulla superficie dei pianeti cui sono diretti, programmati per trasmettere ogni sorta di informazioni e immagini. Sono i Voyager e i Pionier americani, i Vostik russi, che in questi primi lanci erano ancora molto sperimentali e quindi imprecisi, ma che sono riusciti tuttavia ad aprire un nuovo tipo di esplorazione astronomica permettendo all’uomo di scrutare il cielo da più vicino.

Inoltre, di pari passo alla conquista dello spazio, si è iniziato a fare strada la coscienza che l’uomo non è solo nello spazio. Tale ipotesi, ancora mai provata, scatenò nel corso degli anni Sessanta mode e tendenze più legate alla moderna società dei consumi (produzione di film, trasmissioni televisive, giocattoli) piuttosto che alla rigorosa ricerca astronomica di carattere scientifico.

Il mondo più piccolo: le comunicazioni via cavo e via satellite

Primo satellite televisivo Telstar, lanciato nel 1962

Nel 1956 venne completato il collegamento telefonico tra gli Stati Uniti e l’Europa con la posa di un cavo sottomarino transatlantico: i due continenti sono definitivamente in comunicazione. Negli anni seguenti altri cavi furono posati sui fondali marini e ben presto tutti i continenti risultarono collegati fra loro dalla rete telefonica internazionale.

L’introduzione della teleselezione rappresentò un ulteriore perfezionamento e snellimento delle comunicazioni telefoniche: non bisognava più passare attraverso un centralino che smistasse il traffico telefonico, ma bastava fare un “prefisso”, alcune cifre che preselezionano la località da chiamare. Finirono così le attese, spesso lunghe e noiose, per mettersi in comunicazione con paesi lontani.

Ma fu l’uso dei satelliti a risolvere il problema delle telecomunicazioni, a “rimpicciolire il mondo”. I satelliti sono strumenti collocati in orbita geostazionaria e funzionano da ripetitori per segnali radio televisivi e telefonici. Basta la loro descrizione per rendersi conto di quanto siano funzionali alla comunicazione: essi permettono di superare la curvatura del pianeta e quindi di ricevere impulsi da qualsiasi parte del globo. Nel 1960 gli Stati Uniti lanciarono il primo satellite meteorologico, il Tiros I, con lo scopo di trasmettere alla terra dati riguardanti i movimenti nuvolosi attorno al pianeta ed eventuali cicloni. Dopo i Tiros, gli USA mandarono in orbita i satelliti Echo, utilizzati per le telecomunicazioni, seguiti da altri satelliti meteorologici come il Nimbus e i Meteosat che costituirono un sensibile progresso nel campo delle previsioni meteorologiche. Preziosi furono i satelliti per la navigazione, che emettendo impulsi radio aiutavano a mantenere le rotte sia a navi che ad aerei.

Nel 1962, con il satellite americano Telestar, si rese possibile la trasmissione televisiva in tutta la terra: fu realizzato dagli americani dell’At&T e lanciato dalla NASA il 10 luglio. Il primo rudimentale collegamento avvenne il giorno successivo tra le stazioni di Goonhilly Downs, in Cornovaglia, e lo studio di ricezione dell’At&T nello Stato del Maine. “Non c’è alcun avvenimento importante”, così disse il corrispondente da Parigi, dopo qualche settimana, nella trasmissione che inaugurava la stazione di ricezione in Francia. Nacque così la Mondovisione, che permetteva di realizzare trasmissioni in diretta destinate all’intero pianeta: alcuni anni dopo, nel luglio del 1969, la trasmissione dello sbarco dell’uomo sulla luna fu considerata il primo grande evento dell’era del satellite. Nel 1965 fu messo in orbita sull’Atlantico il satellite Intelsat, utilizzato per le comunicazioni telefoniche. La scoperta delle fibre ottiche aprì nuove possibilità, mentre nel 1970 fu sistemato il primo modulo a rete per usare il laser nelle telecomunicazioni, perfezionando un sistema che ormai da anni è di carattere interplanetario. Nel 1972 altri satelliti di nuovo tipo erano utilizzati per il telerilevamento, ossia per compiere osservazioni a distanza della superficie terrestre, e venivano impiegati non solo per lo studio dei fenomeni naturali (maree, eruzioni), ma anche per la segnalazione di zone inquinate, oltre naturalmente ad altri impieghi di carattere militare e strategico.

L’evoluzione dell’aeronautica civile e militare

Il Concorde debutterà nel 1969, ma gli levati costi di manutenzione e l'incidente del luglio 2000 fecero cessare il servizio

L’aeronautica, sia civile che militare, ebbe un grande sviluppo durante gli anni Sessanta. Nel 1959 venne sperimentato in Inghilterra il Flying Bedstead, primo aereo a decollo verticale. Nello stesso periodo si costruirono anche i primi esemplari di elicotteri a reazione. Continuando la ricerca nella serie dei Rocket X, l’X19 raggiunse negli Stati Uniti, la velocità di 6.600 km all’ora.

Nel campo dell’aeronautica civile, l’industria inglese e quella francese, progettarono il Concorde, il primo aereo supersonico per passeggeri. Era il 1969, e il Concorde, che all’inizio sollevò qualche critica per gli alti costi sostenuti (anche perché poteva trasportare un centinaio di passeggeri rispetto ai circa trecento degli altri aviogetti allora in uso), venne adibito alla linea Londra-New York e successivamente anche a quella Parigi-New York. L’aereo riusciva a colmare la distanza in sole tre ore e mezza; fu un successo per l’industria aeronautica europea che si affacciava sui mercati internazionali, detenuti, fino ad allora, dalle sole industrie americane.

Gli apparecchi militari continuarono intanto a subire perfezionamenti nei laboratori segreti americani, ma bisognerà giungere alla guerra del Golfo per conoscere i più rilevanti progressi compiuti in questo campo.

I progressi della “tecnologia che uccide”

Un missile LGM-25C Titan II appena lanciato

In campo occidentale la velocità con la quale i sovietici si avvicinarono alla parità strategica stupì e spaventò tanto gli scienziati, quanto i militari e l’opinione pubblica: la prima esplosione della bomba all’idrogeno sovietica avvenne nemmeno un anno dopo quella americana. Tra gli scienziati sovietici che si annoverano tra i padri della bomba all’idrogeno vi era il giovane e, in futuro, dissidente, Andrej Sacharov. La convinzione che comunque la guerra, per essere vinta, dovesse essere combattuta soprattutto in Europa, determinò le condizioni perché le scelte delle due superpotenze sul piano strategico andassero con il tempo a differenziarsi, data la diversa collocazione geografica. Questo non impedì all’URSS di continuare la ricerca atomica e di sperimentare, nel 1961, l’ordigno termonucleare forse più potente in assoluto, circa 60 megatoni.

I progressi dell’aeronautica implicarono la fine della sostanziale invulnerabilità continentale degli Stati Uniti da un attacco nucleare: i razzi, che avevano portato in orbita i primi satelliti sovietici, con una gittata superiore ai 10.000 chilometri e un carico utile considerevole, potevano altrettanto bene trasportare una testata nucleare da un continente all’altro. Il cosiddetto “gap missilistico” rimproverato all’amministrazione Eisenhower, accusata di essere rimasta indietro rispetto ai progressi sovietici, fu, più che altro, una strategia elettorale del partito rivale, e un modo, delle industrie interessate, di ottenere il sostegno dell’opinione pubblica a un programma di enormi spese militari. Eisenhower aveva già avviato un programma missilistico che, in pochi anni, portò gli Stati Uniti in posizione di superiorità strategica, in termini di missili balistici intercontinentali (ICBM) e di missili lanciati da sottomarini nucleari (SLBM): nel 1962, contro i 35 ICBM sovietici, gli USA schieravano 287 ICBM e 112 SLBM, più un numero considerevole di missili a media gittata, basati in Gran Bretagna, Italia e Turchia, e una netta superiorità dell’arma aerea.

“Silicon chips”: il mondo rimpicciolisce

Niklaus Wirth

Con gli anni Sessanta continuano i progressi dell’informatica. In particolare sono costruiti i primi prototipi dei futuri computer da parte delle imprese americane Remington Rand e International Business Machines, meglio nota come IBM (che fra l’altro aveva progettato e costruito, sotto la direzione dell’università di Harvard, una macchina “sorella” dell’Eniac, chiamata proprio IBM). Si svilupparono durante il decennio i linguaggi di programmazione. Il più elementare, il Basic, fu perfezionato nel 1965, e fu opera dei due americani Kurtz e Kemeny. Nel ‘69, mentre a Washington si teneva la prima Conferenza internazionale sull’intelligenza artificiale, l’americano N. Wirth elaborò il linguaggio Pascal. Si aprì l’era della cibernetica (termine che deriva dal greco e significa “arte del pilota”), sviluppatasi come una branca autonoma della scienza a partire dagli studi svolti nel 1947 da Norbert Wiener. Il suo raggio di azione era, ed è, estesissimo e va dallo studio delle automazioni in grado di sostituire il lavoro dell’uomo, alla teoria dell’informazione, soprattutto elettronica. La cibernetica si sviluppò con alla base un’idea molto semplice: l’uomo può dotarsi attraverso la scienza e la tecnica di sistemi di controllo che gli consentono di condizionare a proprio piacimento eventi fisici, mutando, cioè, il rapporto con il mondo naturale.

Il laser

Theodore Maiman: nel 1960 produsse il primo raggio laser

Si combatteva ancora la seconda guerra mondiale quando la Marina degli Stati Uniti chiese a Charles Townes, professore alla Columbia University, di svolgere ricerche sulle onde magnetiche in modo da poter migliorare i radar utilizzati sulle imbarcazioni da guerra. Townes lavorò per dieci anni e nel 1954 riuscì ad amplificare le caratteristiche di alcuni fasci di onde di piccola frequenza, facendole interagire con un gas di ammoniaca. Il risultato ottenuto si chiamava maser (cioè Microwaves Amplification by Simulated Emission of Radiation) e nel 1964 varrà a Townes il premio Nobel per la scienza, insieme ai suoi colleghi sovietici Basov e Prokarov. Era il progenitore di quello che pochi anni dopo un altro docente della Columbia, G. Gould, chiamerà laser (che invece sta per Light Amplification by Simulated Emission of Radiation). Il primo dispositivo a impulsi in grado di produrre raggi laser nel campo del visibile venne costruito nel giugno 1960 da Maiman, un altro famoso fisico, nei laboratori Huyghens in California, utilizzando una sbarretta di rubino. Non fu compreso immediatamente il significato innovativo della sua scoperta: la “Phisycal Review Letters”, tra le più prestigiose nel mondo della fisica, rifiutò di pubblicare la notizia del lavoro di Maiman. Alla fine dello stesso anno un altro fisico, Javan, costruì un laser a gas a emissione continua. Il laser rivoluzionò il mondo della ricerca e della pratica scientifica per il gran numero di applicazioni cui poteva dar luogo. L’enorme potenza che riuscì a concentrare in una piccolissima porzione di spazio ne ha fatto uno strumento indispensabile ovunque fosse richiesta la massima precisione. Può essere utilizzato per le microsaldature, per l’incisione di precisione, per le nuove tecniche fotografiche. Ma anche in biologia e medicina il ricorso al laser si è fatto negli anni sempre più frequente. Si rivela, infatti, uno strumento di gran lunga più preciso del bisturi più affilato ed è utilizzato, fra l’altro, per gli interventi sull’occhio o sui tumori.

I batiscafi

Batiscafo "Trieste" che nel 1960 raggiunge i 10,911 m nella Fossa delle Marianne

Il batiscafo è stato uno strumento che ha permesso l’esplorazione delle grandi profondità oceaniche e lo studio della fauna abissale. È costituito da due parti fondamentali: uno scafo allungato sommergibile ed una sfera cava, abitacolo per i passeggeri e luogo di tutti gli strumenti di osservazione. E’ dotato, inoltre, di un’elica mossa da un motore elettrico, e di un timone per i piccoli spostamenti orizzontali. Le sue pareti sono spesse ed in acciaio.

Nel 1960 Auguste Piccard, con il batiscafo da lui progettato e denominato Trieste, ha potuto raggiungere, insieme al figlio Jacques, elevate profondità, arrivando a toccare 10,911 m nella fossa delle Marianne, il luogo più profondo degli oceani della Terra.

I batiscafi sono spesso dotati di apparecchi cinematografici e di potenti fari per l’illuminazione dell’ambiente, che può essere osservato direttamente attraverso gli oblò. La struttura del batiscafo consente inoltre di resistere alla pressione delle grandi profondità marine grazie ad un sistema di bilanciamento: durante l’immersione (il batiscafo viene calato in acqua da un’apposita nave appoggio, dopo essere stato caricato di zavorre metalliche trattenute da elettromagneti) nei serbatoi di benzina viene fatta entrare liberamente acqua di mare, per adeguare la pressione interna a quella esterna. Avendo la benzina un peso specifico inferiore a quello dell’acqua e non essendo le due sostanze miscibili, è sufficiente far defluire tutta l’acqua fuori dai serbatoi per ottenere la risalita del batiscafo verso la superficie.

La scienza nella vita: il progresso medico-scientifico

Maurice Frederik Wilkins, premio Nobel nel 1962 per la medicina per i suoi studi sull'acido nucleico

Negli ultimi cinquant’anni, la medicina scientifica ha compiuto un progresso enorme fondato sull’introduzione di nuove tecnologie diagnostiche e terapeutiche, sull’affinamento della chimica applicata e sull’accumulo di nuove conoscenze sul funzionamento del corpo umano.

Tuttavia, le scoperte scientifiche e tecnologiche costituirono solo un aspetto della rivoluzione medica del dopoguerra, che ha potuto verificarsi soprattutto grazie alla crescita del benessere economico e all’adozione di estese politiche pubbliche di assistenza sanitaria.

Il perfezionamento di vaccini ha permesso di debellare malattie prima endemiche, l’introduzione di una classe di farmaci interamente nuovi, come gli antibiotici, e i progressi continui delle tecniche chirurgiche hanno enormemente ampliato le percentuali di guarigione e i campi d’intervento della medicina nel dopoguerra. Tra i vaccini, la cui preparazione fu preceduta dalla coltivazione in vitro dei virus ottenuta alla fine degli anni Quaranta, quello contro la poliomielite, introdotto in due versioni tra 1955 e 1957, fu, senz’altro, il più importante: entro il 1970, circa mezzo miliardo di persone erano state vaccinate, e la poliomielite si avviò a scomparire. Tuttavia, proprio l’introduzione del primo vaccino antipolio nel 1955, che aveva provocato duecento casi di malattia, di cui undici mortali per utilizzo di preparati imperfetti, dimostrò che l’interesse delle case farmaceutiche favoriva speculazioni pericolose. Ciò fu confermato dall’enorme diffusione dei farmaci tranquillanti, introdotti senza attenzione per gli effetti collaterali, e nel caso estremo del talidomide, un farmaco usato in gravidanza, che provocò la nascita di molti neonati spaventosamente malformati. Durante il decennio si applicò per la prima volta il laser in chirurgia e furono realizzati denti artificiali in resina sintetica.

I nuovi vaccini

Robert Gallo, scopritore del virus dell'HIV e Albert Sabin, scopritore del vaccino antipolio

Alla fine degli anni ‘40 Albert Sabin, un medico polacco con cittadinanza americana, riuscì, dopo lunghe ricerche, a scoprire un vaccino, con virus vivi ma attenuati. Era la scoperta dell’arma che avrebbe sconfitto la poliomielite. Nel 1952 un altro medico, J. E. Salk, realizzò a Pittsburg un vaccino con virus uccisi. Anche se i risultati del vaccino Salk non furono sempre ottimali, si cominciò a impiegarlo a livello sperimentale contro la poliomielite, soprattutto nell’esercito americano. Tuttavia Sabin, per ottenere il riconoscimento definitivo della sua scoperta fu costretto a emigrare. Nell’Unione Sovietica, il suo vaccino antipolio venne immediatamente prodotto e adottato. Così, a partire dagli anni 1961-62, nei Paesi dell’Est non si sono più verificati nuovi casi di poliomielite. E’ la vittoria totale sul virus e anche gli Stati Uniti si convinsero dell’utilità del vaccino di Sabin.

Sconfitta la polio, restavano ancora da combattere tutte le altre malattie virali. Così, fin dagli anni ‘60, cominciarono a comparire i primi farmaci antivirali, il principale dei quali e il più noto è l’antiferone. L’antiferon è una sostanza scoperta da un giovane virologo inglese, A. Isaacs, e dal suo assistente J. Lindenmann al National Institute for Medical Research di Londra. Si trattava di una scoperta rivoluzionaria, una sostanza capace di ostacolare lo sviluppo dei virus. L’entusiasmo suscitato da questo successo fu tuttavia presto ridimensionato. Quella che sembrava una vicina vittoria su tutti i virus e forse anche sul cancro provocò, invece, con il passare degli anni, qualche delusione poiché si videro i limiti terapeutici dell’interferone. Questa sostanza ha comunque mostrato di essere attiva non soltanto contro numerose infezioni virali (come nell’epatite B), ma anche nel trattamento di alcune forme tumorali e nella sclerosi multipla. Col tempo si sono trovati numerosi tipi di interferoni e la ricerca è ancora in atto, perché si tratta di una medicina che è sicuramente tra le più importanti del secolo XX.

Il trapianto di cuore

Christiaan Barnard, il chirurgo che effettuò il primo trapianto di cuore nel 1967

Grande fu la eco che seguì al primo trapianto di cuore alla fine degli anni Sessanta, anche se la vera svolta nella terapia cardiaca si era verificata con l’invenzione del pacemaker nel 1960.

Gli anni ‘50 erano stati gli anni della nascita della cardiochirurgia: si era iniziata a studiare la possibilità di sostituire un cuore malato con un altro cuore sano. Shumway, dell’università di Stanford, sperimentò il trapianto cardiaco su animali. Ma si dovette attendere il 3 dicembre 1967 perché avvenisse il primo trapianto cardiaco sull’uomo. Il chirurgo era Christiaan Barnard e l’operazione fu effettuata nell’ospedale Grote Scluzz di Città del Capo, in Sudafrica. Barnard prelevò il cuore di una giovane ragazza deceduta, Denise Darvall, e lo trasferì nella cavità toracica di Louis Washansky, affetto da grave insufficienza cardiaca. L’intervento venne effettuato con le nuove tecniche chirurgiche che permisero la circolazione extracorporea. Dopo lunghi minuti di ansia, il cuore di Denise riprese a battere nel petto di Washansky. Una grande conquista nel campo cardiaco fu così compiuta; venne aperta la strada allo studio di nuovi interventi e trapianti.

Infatti al trapianto di cuore seguirono quelli di molti altri organi: la cornea, i reni, il fegato, il midollo osseo, il polmone. Nuovi procedimenti hanno ridotto il rischio del rigetto da parte dei pazienti. In generale, la possibilità di intervenire sul corpo umano è stata resa più ampia dall’evoluzione delle tecniche chirurgiche, da una sempre più avanzata ricerca in campo fisiologico, dall’introduzione di nuovi metodi di diagnostica, la scintigrafia, e di nuovi strumenti come la Tomografia Assiale Computerizzata o la Risonanza Magnetica Nucleare.

Il Pensiero

Lo storicismo

Il termine deriva dal greco historia che significa descrizione o resoconto. A questo termine, oggigiorno, diamo due significati: la storia, intesa come narrazione e interpretazione degli avvenimenti e delle vicende umane con le loro conseguenze, e in questo senso si può usare il termine più specifico di storiografia, oppure la storia intesa come gli eventi stessi, e quindi si può intendere che “ogni uomo ha la sua storia”. L’oggetto che qui trattiamo è la storia nel primo significato.

Nel mondo antico, accanto alla storiografia, esisteva anche la concezione di vedere la storia come una totalità, e si nutriva l’intenzione di poter identificare, all’interno degli avvenimenti, delle leggi generali che regolavano le vicende storiche. Con l’avvento del Cristianesimo, la concezione della storia cambiò direzione: il tempo della religione era un tempo ciclico, dove la Provvidenza divina si sostituiva alle leggi generali degli antichi. Le ultime teorie di questo tipo sono state elaborate da Karl Marx e Auguste Comte. In seguito la riflessione sulla storia ha abbandonato la pretesa di poter conoscere le leggi universali e si è spostata su temi riguardanti la metodologia della storia e la natura della regolarità che operano in essa, ovvero quale rapporto esista, se c’è, fra leggi della storia e leggi naturali. Questa prospettiva nacque alla fine dell’Ottocento grazie alle riflessioni di John Stuart Mill e Wilhelm Dilthey. Durante tutto il Novecento lo storicismo ha dato vita a varie tematiche; all’interno della filosofia analitica trovò dei sostenitori quali Thomas Khun e Paul Feyerabend, oppure degli oppositori, Karl Popper e Otto Neurath. Centrale nel corso degli anni fu il dibattito sulla differenza tra storia e scienze umane: oggi si riconosce che lo scopo principale della prima consiste nell’individuare i tratti caratterizzanti ed individualizzanti del periodo preso in considerazione, mentre le scienze umane, o sociali, tendono alla identificazione di tipologie generalizzanti al fine di poter studiare i fenomeni sociali e umani in maniera astratta.

La crisi dei grandi sistemi filosofici. La critica allo storicismo

La caratteristica principale della filosofia del secondo Novecento fu l’elaborazione di nuove interpretazioni dell’esistente, sulla base di una ragione critica che dubitava della sua stessa capacità di spiegare sia il cammino degli eventi storici che la natura dell’esperienza umana.

I grandi sistemi filosofici sviluppati dalla dialettica idealista e marxista, le riflessioni sull’esperienza soggettiva dell’uomo e sul divino, e la visione della natura del sapere scientifico si frammentarono in più direzioni, intrecciandosi con le scienze umane e la moltiplicazione delle conoscenze tecniche e fisiche con la pretesa di poter costruire l’unica base plausibile per edificare una moderna sintesi del sapere umano, fondata su un nuovo materialismo biologico.

Popper, Lévi-Strauss, e lo strutturalismo si proposero come correnti di critica nei confronti dello storicismo. Lo strutturalismo nacque all’interno della linguistica e, grazie a Lévi-Strauss, venne introdotto nell’ambito delle scienze umane. L’anti-storicismo di Lévi-Strauss si propose di rinunciare alla determinazione di gerarchie a priori tra la storiografia e le altre forme di conoscenza, affermando che sia l’una che le altre seguono modelli di ricerca diversi tra loro. Anche Popper polemizzò con la tesi secondo cui potessero esistere, nella storia, leggi in grado di stabilire il processo storico e capaci di poter prevedere l’andamento storico, senza tenere conto degli individui e della loro volontà. Lo storicismo nascondeva delle vere e proprie difficoltà epistemologiche, secondo Popper, che non erano in grado di stabilire dei criteri generali validi per potere prevedere l’andamento degli eventi.

L’esistenzialismo

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale videro una ripresa del pensiero esistenzialista, cioè di quell’indirizzo filosofico che ha come tema specifico l’esistenza come modo di essere caratteristico dell’uomo, tanto sotto il profilo strettamente filosofico quanto in ambito letterario e sociologico.

Come i massacri della grande guerra ispirarono le opere di teologi e filosofi come Karl Barth e Martin Heidegger, il nuovo conflitto fece riprendere il dibattito su i temi esistenzialisti della relatività dell’esperienza umana e della tragedia del vivere, sviluppati da pensatori come Hans George Gadamer e Jean-Paul Sartre, o scrittori come Albert Camus. Tuttavia, il nazismo dava alla tragedia del male un nome e un carattere politico, e lo sterminio sistematico sottolineava l’impossibilità di dare spiegazioni adeguate a questa tragicità di fronte alla ragione e all’etica. Gadamer e Sartre, allontanandosi dalle conclusioni più estreme di Heidegger, elaborarono un esistenzialismo meno tragicamente assoluto. Gadamer stemperò, grazie alla sua filosofia, l’insanabile contrapposizione heideggeriana tra essere e storia: il rapporto tra uomo e mondo circostante non era più un’inconciliabile contrapposizione di due poli distinti e irriducibili ma fu ricondotto alla possibilità di formulare un discorso sul mondo. Quanto a Sartre, senza rinnegare il senso del tragico e dell’angoscia, centrali nelle sue opere precedenti, nel dopoguerra e negli anni successivi egli raggiunse una visione etica dell’agire umano, riflessa nella sua militanza politica nella sinistra comunista.

La filosofia analitica: Ludwig Wittgenstein

Questo termine indica un indirizzo della filosofia del Novecento comprendente un grande numero di pensatori. Nonostante la varietà delle tesi gli analisti sono accomunati da un simile modo di concepire la filosofia cioè come un’indagine di tipo scientifico che è caratterizzata da un’impostazione rigorosa e oggettiva dei problemi filosofici. Gli esponenti principali di questo atteggiamento furono Wittgenstein, Russell, Carnap.

Molto importanti furono le ricerche condotte da Wittgenstein sul linguaggio, le sue teorie influenzarono notevolmente gran parte della filosofia del Novecento. La filosofia di Wittgenstein conobbe due fasi principali: una giovanile, rappresentata dal testo Tractatus logico philosophicus, dove studiò le proposizioni del linguaggio arrivando a identificare il linguaggio con il pensiero poiché le proposizioni, dotate di senso, sono delle raffigurazioni dei fatti. L’altra, più matura, è rappresentata dal testo Osservazioni filosofiche, dove il filosofo ritratta la posizione precedente, accusandosi di essere stato troppo filosofico, poiché riconosce l’impossibilità di formulare una teoria del linguaggio. Esso è, secondo il filosofo, un insieme di espressioni disciplinate da regole che cambiano di volta in volta, i cosiddetti “giochi linguistici”, è dunque impossibile formulare una teoria del linguaggio come un tutto ma si può, prosegue Wittgenstein, descrivere fedelmente gli usi effettivi del linguaggio comune senza le rigide strutture della logica o della filosofia. Wittgenstein fu un autore conosciuto soprattutto dopo la sua morte, e lasciò un’enorme quantità di appunti sulle sue ricerche che furono pubblicate postume.

Lo strutturalismo

Sviluppatosi in Francia nell’ambito delle scienze umane, della linguistica e dell’etno-antropologia, il pensiero strutturalista divenne il fondamento di un movimento intellettuale più vasto che, negli anni Sessanta, costituì la reazione più significativa alle elaborazioni della filosofia esistenzialista. In realtà, nella sua dimensione più vasta di corrente filosofica, lo strutturalismo non presentò uno sviluppo lineare. Pur mutuando, inizialmente, dallo strutturalismo in senso proprio, la dimensione “scientifica” anti umanistica e anti storicistica, i principali esponenti del movimento filosofico, Louis Althusser, Michel Foucault, Jacques Lacan e (in misura più limitata) Claude Lévi-Strauss abbracciarono nel tempo posizioni più sfumate e, talvolta, contraddittorie.

Dell’esistenzialismo, la prospettiva strutturalista rigettava tanto l’antitesi tra uomo e realtà circostante, quanto la sua sintesi postbellica centrata sull’azione. Per gli strutturalisti, con accenti diversi, l’uomo possedeva solo un’oggettività storicizzata, che ne impediva una postulazione come soggetto a sé. All’estremo, come nel Foucault di Le parole e le cose (1966), l’uomo era solo “un’invenzione recente” delle scienze. Quanto all’azione, essa si assoggettava all’esistenza di strutture archetipiche mentali di origini psichiche o biologiche (come nelle opere tarde dell’antropologo Lévi-Strauss) o si negava nell’inesistenza della coscienza razionale. Ma se l’ex dirigente comunista Althusser giunse alla riproposizione di un marxismo colorato di scientismo (mitigato, peraltro, nelle opere più tarde) l’attenzione dello psicanalista Lacan all’alterità dell’inconscio e quella dell’accademico Foucault alla follia, all’irrazionale e al deviante, finirono, comunque, per sollevare nuovamente il problema dell’irriducibilità heideggeriana tra singolo e storia (Lacan), o della contrapposizione tra libertà e potere, tra individui e repressione (Foucault). Non a caso, proprio quest’ultimo, fu intimamente vicino alla contestazione degli anni Settanta.

Claude Levi - Strauss

Claude Levi-Strauss

Dimostrò la fecondità del sistema strutturalista analizzando i sistemi di parentela, e altri fenomeni, da lui considerati simbolici. Scopo della sua ricerca fu di trasformare le scienze umane in vere e proprie scienze, ma la realizzazione di questo scopo ha comportato l’inserimento del soggetto in schemi rigidi, e sono proprio questi ultimi che ci fanno apparire l’essere in maniera deformata. Esistono infatti, per l’antropologo, strutture, sociali, linguistiche o mitologiche, autonome dalla volontà umana.

In un’opera intitolata Mitologica, che ha preso corpo nella pubblicazione di successivi volumi, dal 1964 al 1972, l’antropologo francese confrontando un’innumerevole quantità di miti amerindi, riuscì a rintracciare le “unità elementari di significato” definite con il termine di “mitemi”, in evidente omologia con i fonemi della linguistica, che si ritrovano organizzati nei vari miti: essi sono una struttura, un gruppo algebrico che determina le varie combinazioni possibili dei propri elementi. Tuttavia, il concetto di struttura fa perdere l’unico fattore esplicativo dei fenomeni culturali, cioè fa perdere la dimensione storica di tali fenomeni. Lévi-Strauss era convinto che questo fosse solo un problema fittizio, l’uomo non è il padrone della propria storia, non agisce ma è agito da forze strutturanti inconsce.

In altri termini c’è il problema della difficoltà di studiare altri esseri umani come oggetto di indagine e non come soggetti conoscitivi. L’essere umano inteso come soggetto che dà forma e significato a se stesso e al mondo, è dissolto nella struttura dell’inconscio che genera il sistema socio-culturale.

La nuova razionalità critica: la Scuola di Francoforte

Il nucleo di intellettuali riuniti nella cosiddetta Scuola di Francoforte fornì, nel dopoguerra, un’interpretazione più articolata del pensiero dialettico di derivazione marxista. Il gruppo, costituitosi in Germania negli anni Venti, fu costretto a trasferirsi negli Stati Uniti a causa della repressione nazista: molti degli esponenti erano di origine ebrea. Alcuni di loro rientrati in Europa negli anni ‘50 formarono una generazione di studiosi dei fenomeni politici e sociali, che produsse alcune delle analisi più significative sulla società contemporanea. Il pensiero della Scuola di Francoforte scaturì da un materialismo storico attento alle tematiche provenienti dalla psicoanalisi, dalle scienze sociali, dalla storia dell’arte e dalla cultura in genere. Esso produsse sintesi diverse ma tutte con un unico scopo: la volontà di elaborare un’interpretazione complessiva della realtà. L’elemento centrale del pensiero di Max Horkheimer, Theodor Adorno e Herbert Marcuse, forse i maggiori esponenti del gruppo originario, fu l’affinamento di una razionalità critica opposta alla ragione strumentale, presa a fondamento del capitalismo contemporaneo. In Horkheimer tale ricerca sfociò in una teoria critica di stampo propriamente dialettico. In Adorno essa produsse una critica serrata al positivismo, funzionale al capitalismo tecnologico, e delle degenerazioni dello stesso razionalismo. In Marcuse, infine, la razionalità critica si accompagnò ad una forte attenzione per il pensiero psicoanalitico, sciogliendosi in una tensione verso l’utopia come liberazione dalle società capitalistiche moderne.

A differenza di altre correnti del pensiero filosofico del dopoguerra, la Scuola di Francoforte rappresentò l’ultimo tentativo di sviluppare l’eredità dei grandi sistemi filosofici di derivazione idealista, cercando di elaborare una nuova sintesi che offrisse un’alternativa all’irriducibile dicotomia tra uomo e storia, propria dell’esistenzialismo, e una risposta al fallimento della prospettiva marxista del mutamento sociale, adeguandone l’analisi alle nuove strutture della società di massa. Accolta l’istanza di voler liberare l’uomo dai condizionamenti dell’autorità, riconosciuta come qualità pedagogicamente attiva in tutta la società tardo capitalistica, la proposta è quella di una anti-pedagogia radicale, del rifiuto della pedagogia, in particolare quella borghese, perché riconosciuta inevitabilmente come fabbrica di autorità, conservazione, repressione.

Herbert Marcuse e Theodor Adorno

La critica della società e dell’evoluzione totalitaria del pensiero marxista è preponderante all’interno della riflessione di Marcuse in cui si uniscono l’iniziale influenza di Heidegger e soprattutto quelle dell’hegelismo, del marxismo e della psicoanalisi freudiana. Marcuse usò molti parametri di derivazione marxista in connessione con il corpus teorico freudiano e con le riflessioni socio-filosofiche della Scuola di Francoforte. Egli fu convinto che il concetto di razionalità, con il quale si può distinguere il vero dal falso senza essere condizionati da scelte di valore, abbia origine esso stesso da un giudizio di valore che fa fede alla ragione come criterio di verità. Ne L’Uomo a una dimensione descrisse come è possibile che, marxismo e psicoanalisi, consentano l’identificazione di ragione e felicità, attraverso lo smascheramento della repressione degli istinti. La cultura era per Marcuse l’espressione, tramite la letteratura, l’arte, la scienza, dei fini umani in tensione dialettica contro i condizionamenti della struttura economica, della tecnologia. Egli criticò aspramente la società industriale in cui la personalità dell’individuo era schiacciata dalla repressione dell’organizzazione sociale, solo in apparenza, tollerante. Le tesi di Marcuse furono, nella seconda metà degli anni ‘60, al centro dei movimenti di protesta, soprattutto quelli studenteschi, negli Stati Uniti e in Europa.

Adorno nei Minima moralia, una raccolta di aforismi, concentrò la sua analisi sul comportamento dell’individuo nella società borghese e le sue contraddizioni, credendo che la filosofia dovesse assolvere una funzione critica. La ragione, nonostante la sua funzione liberante era stata invece sempre più soffocata dal totalitarismo delle società borghesi. Il pensiero di Adorno si caratterizzò per un sempre maggiore pessimismo. Egli vide nella società moderna la “reificazione” dell’uomo (cioè il suo essere ridotto a cosa) non solo come risultato dell’economia capitalistica, ma come conseguenza di una crisi generale della storia e dell’umanità, a cui si può contrapporre soltanto il pensiero critico, unica forma di resistenza contro l’esistente e l’immediato.

Le nuove teologie

Il “silenzio di Dio” di fronte alla tragedia dell’uomo moderno culminata con la Shoah, la secolarizzazione del mondo e l’affermarsi di un esistenzialismo cristiano, portarono alla nascita di nuove teologie che, in ambito protestante, fondarono il rapporto tra l’uomo e la divinità sulla irriducibilità della finitezza umana di fronte a Dio e sulla possibilità di coniugare fede e sapere scientifico. Nel mondo cattolico, il neotomismo elaborato da Jacques Maritain tra le due guerre, cedette il passo alla svolta antropologica di Karl Rahner, maturata dall’elaborazione del pensiero neo-agostiniano di Romano Giuliani e le suggestioni kantiane e esistenzialiste. Rahner poneva nella tensione verso Dio l’essenza della condizione umana scorgendo, nelle società secolarizzate, l’esistenza di un cristianesimo “anonimo” cioè non professato, ma intensamente vissuto, che favorì l’apertura verso la società trovando, nella breve stagione del pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II (1962-1965), la sua piena concretezza. La svolta significativa al pensiero cristiano della seconda metà del secolo ha visto lo sviluppo delle teologie della secolarizzazione, maturate dalla riflessione del pastore Dietrich Bonhoeffer, impiccato nel 1945 in un lager nazista.

Sostenendo la necessità di costruire una teologia capace di confrontarsi con il sapere sia filosofico che scientifico, Bonhoeffer teorizzò il cristianesimo “adulto” fondato su scelte consapevoli e non su superstizioni, un cristianesimo vissuto nell’intensità dell’agire etico più che sull’osservanza di dogmi. Questa dimensione etica e secolarizzata del cristianesimo fu ripresa da teologi, protestanti e cattolici, che ne svilupparono il contenuto politico, facendo vedere nel cristianesimo una promessa di emancipazione sociale e umana, fondata su una “teologia della speranza” cioè l’evangelizzazione collegata però all’impegno civile contro le ingiustizie sociali secondo il pensiero dei teologi cattolici della “liberazione”, prevalentemente attivi in America Latina. Soprattutto Gustavo Gutierrez e i fratelli Boff, teorizzando l’impegno attivo della Chiesa nella liberazione degli uomini dalla sofferenza e dall’ingiustizia, hanno formulato una teoria teologica che si articola in tre momenti: vedere, giudicare, agire. Nella parte analitica, per comprendere la realtà dello sfruttamento, tutti questi teologi dichiarano l’utilità e l’importanza del pensiero marxista.

L’Islam

L’Islam, che ha visto un momento di grande espansione dal dopoguerra, è caratterizzato da due diverse tendenze. Se da una parte esso rappresenta il più importante tratto distintivo del mondo arabo, all’interno del quale spesso vengono generati episodi di nazionalismo religioso, dall’altra i musulmani credono nel proselitismo, cioè nella diffusione delle dottrine di Maometto in tutto il mondo. A partire dagli anni ‘50, l’Islam è protagonista nelle guerre anti-coloniali del Terzo mondo, e anche dei paesi non arabi tra cui: il Pakistan, nato dalla scissione tra islamici e indù dopo l’indipendenza dell’India; le Filippine, i musulmani partecipano alla guerriglia filo-socialista; e l’Indonesia. L’Islam si diffuse anche in aree del tutto nuove come l’Africa Nera e gli Stati Uniti, dove il movimento dei “Musulmani neri”, del quale faceva parte Malcom X, fece molti proseliti presso la popolazione di colore, a partire dagli anni ‘60. A questa espansione però fecero eco delle forti contraddizioni e divisioni intestine, spesso dovute al legame tra religione e politica: i conflitti religiosi, sfociati in una vera e propria guerra civile tra Sciiti e Sunniti, in Libano, ne sono un esempio. Inoltre, a partire dagli anni ‘60 in molti paesi islamici non arabi (Iran, Pakistan, Afganistan) nacquero dei movimenti fondamentalisti che imposero l’interpretazione letterale del Corano come base della legislazione degli stati, dando così origine nel decennio seguente al fenomeno del terrorismo in quei paesi arabi più esposti all’influenza occidentale come l’Egitto e l’Algeria.

L’etica

A partire dagli anni ‘60 si sviluppò un altro importante movimento, influenzato dall’ermeneutica (tecnica dell’interpretazione), dalle teorie della Scuola di Francoforte e da altri intellettuali provenienti da altre discipline umanistiche (per esempio dall’etologia e dalla sociologia), che prese il nome di “filosofia pratica”. Tale sistema respinse l’impostazione analitica e segnò un ritorno delle teorie direttamente interessate alla definizione delle norme e dei valori in base ai quali agire: si suddivise in due correnti principali, ispirate a due grandi correnti filosofiche tradizionali, quella aristotelica e quella kantiana. Il modello di razionalità propugnato da questi autori (Gadamer, Habermas, Arendt) fu più articolato e meno rigido, tale da evitare di ridurre l’intera discussione filosofica ad un unico schema di riferimento. Non esisteva dunque una teoria etica perfetta, valida cioè, in tutte le occasioni e per tutti gli uomini. Era necessario, per i filosofi morali, riconoscere che bisognava articolare le teorie etiche tenendo conto dei criteri di valutazione diversi e analizzare le varie posizioni scomponendole, di volta in volta, in più elementi. Questo ha originato il fenomeno che nell’etica si chiama “il dilemma della morale” cioè quando, anche in un solo individuo, due ordini di principio e di valore diverso vengono a trovarsi in conflitto. Il relativismo derivante da questa impossibilità di trovare una soluzione certa fu una posizione assai frequente e comune condivisa da molti pensatori.

Hans Georg Gadamer

Negli ultimi decenni col nome di “filosofia pratica” si intendeva un ritorno alla “etica normativa” cioè alle concezioni che indicano regole e principi dell’agire applicati ai problemi legati al carattere della decisione razionale e delle argomentazioni in tutti gli ambiti dell’attività umana: politica, diritto, ecc. Il passaggio successivo fu l’applicazione di questo dibattito alla riflessione sulle scienze umane e sulla loro fondazione teorica. Gadamer riprese queste tematiche rifacendosi alla suddivisione aristotelica della conoscenza nei due ambiti: il teorico e il pratico. La virtù che presiede l’attività pratica, secondo Gadamer, non è la sapienza ma la prudenza, frutto dell’educazione, dell’abitudine e della capacità acquisita di applicare il proprio sapere a compiti particolari: cioè di agire razionalmente per un fine. Il recupero di Gadamer dell’etica aristotelica esclude che i problemi etici siamo passibili di una soluzione esatta, e li demanda alla attività del singolo e alla sua capacità di applicare alla situazione reale ciò che ha appreso.

In Verità e Metodo si pone il problema della verità non in una forma astratta ma nella possibilità che ha l’uomo di fare realmente esperienza. Gadamer riteneva che fosse l’arte, intesa come fondamento del nostro passato, ad aprire le porte al dialogo tra presente e passato. Mezzo di questo dialogo è, naturalmente, il linguaggio che apre all’uomo la possibilità di fare esperienza del mondo.

La psicologia di Piaget

Nelle riflessioni della psicologia cognitiva, interessate a riconoscere e orientare le basi e gli schemi del comportamento degli esseri umani, assumono in questi anni un valore centrale le teorie sull’attività ludica dei bambini. Riprendendo riflessioni già avviate all’inizio del secolo, relative alla dimensione sociale della formazione delle personalità umane, si valuta il gioco come un momento essenziale dell’elaborazione della conoscenza. La riflessione assume carattere interdisciplinare, interessando filosofi, psicologi e antropologi e legandosi alle nuove scoperte della psicanalisi. Il tema toccato sia da Freud che da Jung, approda in Baudowin alla rappresentazione del gioco sia come proiezione dell’immaginario soggettivo, che come strumento in grado di agire sulla mente del bambino, ovvero sulla sua rappresentazione del mondo. La riflessione più ampia e importante spetta, tuttavia, a Piaget, che insistendo sull’origine sociale delle forme del ragionamento, divide i processi cognitivi in fasi, collegandoli ai momenti fondamentali dello sviluppo psicofisico. Alla fase iniziale, che lo studioso qualifica come transduttiva (vale a dire basata su associazioni azzardate tra elementi), seguirebbe uno sviluppo più complesso nel periodo adolescenziale. Qui si colloca la formazione delle capacità di astrazione, riferibili sia alle forme deduttive che induttive della conoscenza.

Comportamentismo e cognitivismo

Il comportamentismo fu una corrente che limitava il campo di indagine a quanto è oggettivamente osservabile, cioè al comportamento manifesto dell’organismo animale o umano, che dominò quasi incontrastato la psicologia sperimentale, dai primi anni del Novecento (ufficialmente nacque nel 1913 con un articolo di Watson) fino agli anni ‘60. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni ‘60 si affacciò all’interno di questa corrente filosofica una nuova teoria che prendeva in considerazione non soltanto la mente, che ritrovava così la sua importanza, ma anche la convergenza di altre discipline. Il cognitivismo non nacque con un vero e proprio oggetto di indagine compiuto ma fu anticipato da semplici manifesti inaugurali recitanti i nuovi vademecum della scienza: quando Neisser, nel 1967, ne coniò la definizione questo tipo di indagine aveva alle spalle un decennio di esperimenti e di lavoro teorico. Si può definire la prospettiva cognitivista come un invaso in cui confluiscono i contributi della stessa psicologia, della linguistica, della neuropsicologia e la neurofisiologia. Fu riaffermato il principio delle basi biologiche dei processi psichici, dove è determinato l’oggetto di indagine, cioè le strutture e le funzioni del sistema nervoso. L’elemento biologico presuppone anche il riaffermarsi del principio di sviluppo: la maturazione nervosa determina quella psichica. La relazione uomo-ambiente viene reinterpretata secondo l’idea per cui le informazioni che provengono dall’ambiente sono sottoposte ad una rielaborazione in base a criteri di conoscenza e d’azione propri dell’organismo conoscente, questo aprì la strada alla prima grande categoria cognitiva: il mentalismo, cioè il concetto di modello mentale che guida ogni azione a seconda delle rappresentazioni interne del mondo esterno. L’informazione non soltanto è uno stimolo ma viene dunque rielaborata, e questo introduce il concetto di simulazione: il processo che avviene nella mente è soggetto ad essere tradotto, l’uomo si relaziona e agisce con l’ambiente.