Il lungo periodo di crescita vissuto dai paesi industrializzati successivamente alla seconda guerra mondiale ebbe un brusco arresto all’inizio degli anni Settanta. A segnare il passaggio dalla cosiddetta “età dell’oro” alla “crisi mondiale” fu lo “shock petrolifero” del 1973. Esso ebbe origine quando, il 16 ottobre, l’OPEC, l’associazione dei paesi esportatori di petrolio, in contemporanea con la guerra che vedeva l’Egitto e la Siria contrapposti a Israele, decise di attuare l’embargo nei confronti delle nazioni filoisraeliane (Stati Uniti, Paesi Bassi, Portogallo, Sudafrica e Rodesia). A questa decisione ne seguì un’altra, due mesi dopo, che comportò conseguenze ancora più pesanti: l’aumento del prezzo del petrolio che, nel giro di pochi mesi, giunse a quadruplicarsi (da 3,60 a 11,65 dollari per barile). Le gravi ripercussioni economiche della crisi petrolifera si fecero sentire soprattutto in Europa e in Giappone che, al contrario di Stati Uniti e Unione Sovietica, erano privi di ingenti risorse di petrolio. Tutti i paesi industrializzati si trovarono coinvolti dagli effetti provocati dallo “shock petrolifero”. La produzione industriale, a partire dall’anno successivo, subì una brusca battuta d’arresto che venne pienamente recuperata solo all’inizio del decennio seguente. Alla recessione produttiva si intrecciò una forte ondata inflazionistica, con livelli superiori al 10% annuo e, in alcuni paesi, come l’Italia, al 20%. Molteplici furono le conseguenze della “stagflazione”, come fu chiamata l’inedita compresenza di stagnazione e inflazione: l’aumento della disoccupazione, la riduzione della ricchezza collettiva, il riemergere della conflittualità sociale e l’instabilità politica furono solo le principali.
Un secondo “shock petrolifero” si verificò nel 1979-80 quando, in seguito alla rivoluzione in Iran, si arrivò a decuplicare il prezzo del greggio rispetto al 1973.
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Il terrorismo è una forma di lotta militare e politica che ha accompagnato tutta la storia del Ventesimo secolo. Già praticato nell’800 da alcuni ambienti dell’estremismo irredentista, anarchico o nazionalista, nel ‘900 è divenuto un metodo di lotta attuato su scala sempre più massiccia.
In Italia, con la strage di Piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969) si aprì una fase detta della strategia della tensione, con stragi realizzate da gruppi di estrema destra che potevano contare sull’appoggio di ambienti internazionali con l’intento di imporre una svolta autoritaria al paese. Ma fu soprattutto negli anni Settanta che in tutti i continenti comparvero formazioni politiche che fecero del terrorismo uno strumento di lotta contro il sistema politico internazionale. L’irrisolta questione mediorientale generò forze come l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, capeggiata da Yasser Arafat) dalle cui file vennero organizzate azioni clamorose: basti ricordare i dirottamenti di aerei o la strage alle Olimpiadi di Monaco nel 1972. Negli stessi anni nacque il “terrorismo rosso”, particolarmente attivo in Italia (Brigate Rosse), Germania (Rote Armee Fraktion) e, in misura minore, Francia (Action Directe). In Europa furono attivi anche gruppi che si facevano portavoce dei sentimenti autonomistici o nazionali di alcune regioni, come l’ETA basca (Euzkadi Ta Azkatasuna), l’IRA nordirlandese (Irish Republican Army) o le varie correnti del FLNC (Fronte di Liberazione Nazionale Corso) che usarono la violenza come sola ed esclusiva arma politica. Il decennio vide anche la continuazione dei colpi di stato che portarono al potere dittature militari come in Cile, nel 1972, e in Argentina, nel 1976.
Il conflitto arabo-israeliano, incentrato sulla “questione palestinese”, è stato, nel corso di tutto il dopoguerra, tra i principali fattori di instabilità in Medio Oriente. Il 6 ottobre del 1973 una nuova guerra, la quarta, si aggiunse a quelle dei decenni precedenti.
Nel giorno della festività ebraica dello Yom Kippur, l’Egitto e la Siria attaccarono Israele, nel tentativo di riconquistare il Sinai. In concomitanza con l’inizio della guerra, l’OPEC, l’Associazione dei paesi esportatori di petrolio, decise di attuare l’embargo (ossia il blocco delle esportazioni) nei confronti delle nazioni filoisraeliane e, due mesi dopo, aumentò il prezzo del petrolio fino a quadruplicarlo. La guerra dello Yom Kippur si concluse rapidamente con la vittoria di Israele e non comportò nessun cambiamento dei confini dei paesi belligeranti. Sul piano politico le conseguenze furono di primissima importanza: l’attacco a sorpresa di Siria ed Egitto e soprattutto il blocco petrolifero, che dette alla crisi una dimensione globale, indussero gli Stati Uniti a mutare atteggiamento e a ridurre l’intransigenza nei confronti degli stati arabi. In particolare l’Egitto, guidato da Sadat, assunse un indirizzo filoccidentale in politica estera, giungendo nel 1978 a stipulare, grazie alla mediazione del presidente statunitense Carter, un trattato di pace con il primo ministro israeliano Begin (accordi di Camp David). Tuttavia, la svolta dell’Egitto non venne seguita dagli altri paesi arabi, i quali unanimemente condannarono il tradimento egiziano.
L’“oro nero” era, ed è, il perno dell’economia mondiale. Automobili, navi, camion, aerei, macchinari industriali, tutto si muove grazie al petrolio: la produzione mondiale del greggio ha il suo cuore nel Medio Oriente. Tra il 1969 e il 1973 il prezzo del petrolio e di altre materie prime subì aumenti notevoli, fino al 150%. Ciò fu principalmente causato dalla forte inflazione abbattutasi sugli USA e sul dollaro, fino a quel momento utilizzato come standard sugli scambi internazionali. Nel 1971 però il governo di Washington sospese la convertibilità in oro del dollaro, ponendo virtualmente fine agli accordi di Bretton Woods del 1944 e aprendo una fase di crisi economica internazionale. Già dal 1960 i paesi produttori di petrolio, soprattutto arabi, si erano riuniti nell’OPEC per cercare di fissare prezzi comuni di vendita del greggio. Nel 1973, in seguito alla guerra del Kippur fra arabi e israeliani, i paesi dell’OPEC deliberarono un aumento del prezzo del petrolio del 400%. A risentire di questa crisi furono soprattutto i paesi industriali privi di risorse petrolifere proprie, come l’Europa e il Giappone. In minor misura ne risentirono gli Stati Uniti, che possedevano vasti giacimenti anche se largamente insufficienti a coprire il fabbisogno interno. Nel breve termine la crisi petrolifera ebbe effetti sociali assai deleteri. Diminuirono gli investimenti e l’occupazione; in questo modo si contraeva la domanda interna (quindi anche quella di petrolio) e si induceva l’OPEC a ridimensionare l’aumento del prezzo. La lunga stagione di crescita ininterrotta delle economie sviluppate subì così una brusca battuta di arresto. Nel biennio 1973-75, la produzione industriale scese del 10%, il commercio internazionale dei prodotti finiti, motore della crescita postbellica, del 13% circa. Nel lungo periodo, la crescita delle economie occidentali continuò, ma a ritmi ridotti e con un andamento ciclico segnato da recessioni come quelle verificatesi agli inizi e alla fine degli anni Ottanta.
Gli anni Settanta furono uno spartiacque fondamentale nell’esperienza delle società sviluppate: instabilità sociale e disoccupazione di massa, persino fasce di estesa povertà, mali che non si erano praticamente più verificati dopo il 1945, fecero nuovamente la loro comparsa. Per la prima volta dalla fine della guerra, i redditi reali della maggioranza degli occupati iniziarono a scendere inaugurando una tendenza che si sarebbe rivelata stabile negli anni successivi. Le politiche nazionali di sostegno alla crescita economica e all’occupazione, praticate con successo nei decenni precedenti, cessarono di avere gli effetti voluti, e gli assunti teorici del keynesismo furono contraddetti dalla coesistenza di alti tassi d’inflazione e disoccupazione, una situazione anomala per la quale fu coniata un nuovo termine, la “stagflazione”. Negli anni Settanta, negli Stati Uniti la disoccupazione si attestò intorno al 7%, mentre il tasso di inflazione raggiunse il 12% annuo. In Europa la disoccupazione di lunga durata, che negli anni Sessanta si aggirava attorno all’1,5%, crebbe al 4,2%, e negli anni Novanta avrebbe superato l’11%: l’età dell’oro era finita.
Il movimento palestinese, fra la fine degli anni ‘50 e l’inizio del successivo decennio, costituì varie organizzazioni a fini militari e politici, fra le quali emersero Al-Fatha e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Nel 1967 un nuovo massiccio esodo di popolazione araba (conseguente all’occupazione israeliana dell’intera penisola del Sinai fino a Suez, di Gaza, delle alture del Golan e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est), riaccese la guerriglia palestinese. In questo contesto emerse la figura di Yasser Arafat, che assunse la guida dell’OLP e rivendicò l’autonoma libertà d’iniziativa dei combattenti palestinesi rispetto alle politiche degli altri stati arabi. Questo atteggiamento fu avvertito come una minaccia alla propria sovranità e stabilità dagli stati ospiti, al punto da causare veri e propri scontri, il più clamoroso dei quali è quello che scoppiò nel maggio 1970 con l’esercito regolare del re di Giordania Hussein. In settembre, dopo un confronto sanguinoso, i guerriglieri furono costretti a cedere (a tale episodio si richiama il movimento terroristico Settembre nero) e dovettero spostare le proprie basi operative in Siria e soprattutto in Libano.
Per opporsi alla linea di Arafat nacquero altri movimenti terroristici. Nel ‘71 fu fondato Settembre nero, un gruppo radicale che si proponeva di battere Israele non in campo aperto ma con azioni terroristiche anche fuori dal proprio territorio. Cominciò così la stagione del terrorismo arabo. Sostenuto e imitato anche da altri stati (come la Libia di Gheddafi), Settembre nero organizzò in tutto il mondo attentati contro Israele. Le tecniche erano le più disparate: dalle bombe, agli omicidi, dai dirottamenti aerei ai sabotaggi, alla spedizione di pacchi-bomba.
Gli sviluppi e gli effetti della questione palestinese non rimasero limitati all’interno dei confini israeliani, ma pesarono fortemente sull’insieme dei rapporti tra gli stati mediorientali, incidendo in maniera particolare su alcuni di essi. E’ quanto avvenne in Libano, un paese in cui convivevano da molti secoli una comunità islamica, una cristiano-maronita e una drusa. A partire dal 1967, dopo la guerra arabo-israeliana, iniziarono ad affluire nel paese numerosi profughi palestinesi, che fecero aumentare il peso dei musulmani e provocarono la rottura del fragile compromesso che fino a quel momento aveva garantito la convivenza delle diverse comunità. Nel 1975, con il massacro a Beirut (la capitale libanese) di alcuni palestinesi per opera di un nucleo armato maronita, ebbe inizio la guerra civile. Sin dal primo momento apparve chiaro come alla base dello scoppio del conflitto non vi fosse solo la tensione tra le diverse comunità libanesi, ma le contraddizioni dell’intera area. Lo testimonia l’intervento diretto della Siria, che nel 1976 entrò militarmente in Libano e in giugno occupò Beirut, mentre le milizie cristiane che l’appoggiarono, assediarono i campi profughi palestinesi giungendo, ad agosto, a compiere il massacro di civili nel campo di Tel al-Zaatar. Nel 1978 Israele bombardò i campi profughi palestinesi vicini alla capitale, e nel giugno del 1982 intervenne nel conflitto in maniera diretta con le sue truppe che entrarono nella parte meridionale del paese.
Solidità economico-finanziaria, potenza militare e identificazione come il paese campione dei valori democratici, concorsero all’egemonia statunitense dopo il 1945. Gli anni Settanta ridimensionarono tutti questi elementi di potenza. L’intervento americano nella guerra del Vietnam si concluse con una sconfitta militare e politica, e offuscò l’immagine tradizionale di Washington quale difensore della democrazia nel mondo per l’appoggio al regime di Saigon, e per le brutalità commesse dalle forze armate americane. La guerra del Vietnam mise anche in crisi la strategia del contenimento perché dimostrò che l’impegno militare globale era diventato finanziariamente insostenibile. L’inflazione, derivante dai costi del conflitto, rese meno competitivi i prodotti americani sul mercato internazionale di fronte alla crescente concorrenza del Giappone e dell’Europa. Nel 1971 la bilancia commerciale statunitense andò in passivo per la prima volta in tutto il secolo. In agosto il presidente Nixon abolì la convertibilità aurea del dollaro per rilanciare le esportazioni attraverso la svalutazione e adottò tariffe doganali protezionistiche. Si sgretolò così quel sistema edificato a Bretton Woods per garantire l’egemonia americana sui mercati, e gli stessi Stati Uniti dimostrarono di aver perduto la fiducia nella propria capacità di dominare l’economia in condizioni di liberismo. Pesante fu il contraccolpo psicologico per gli Stati Uniti e tutta la sua popolazione derivante dallo scandalo Watergate che coinvolse lo stesso Nixon. Il senso di vulnerabilità si acuì due anni dopo con la crisi prodotta dall’aumento del prezzo del petrolio, e culminò con la rivoluzione iraniana del 1979. Con la caduta dello Scià, Washington perse un fedele alleato in un’area cruciale per il confronto con l’URSS e acquistò un nuovo temibile avversario: il fondamentalismo islamico. Il fallimento dei tentativi diplomatici e militari del presidente James Earl Carter di liberare i cittadini statunitensi presi in ostaggio nell’ambasciata di Teheran, evidenziò il dilagare dell’impotenza americana.
L’inizio degli anni ‘70 fu un momento particolarmente difficile per gli Stati Uniti, a causa dell’emergere delle grosse difficoltà legate all’indebolirsi del loro ruolo di leader mondiale e all’assottigliarsi del primato economico. In concomitanza con lo shock petrolifero (ottobre 1973) e con l’inizio della recessione, ai problemi economici si aggiunse l’apertura di una profonda crisi politico-istituzionale, legata al più grande scandalo della storia americana. Il vicepresidente Spiro Agnew, finito sotto processo per evasione fiscale, frode e corruzione, venne condannato e il 10 ottobre fu costretto a dare le dimissioni. Al suo posto il presidente Nixon nominò Gerald Ford.
Nel frattempo, dal giugno del 1972 era in corso un’altra inchiesta, ancor più rilevante della prima, che vedeva coinvolti alcuni collaboratori del presidente, sorpresi a spiare tra le carte nell’ufficio di un esponente del Partito democratico. Nella notte del 17 giugno 1972, infatti, in piena campagna elettorale per la presidenza, cinque scassinatori vennero sorpresi nella sede del comitato nazionale del Partito democratico nel complesso edilizio del Watergate. Alla fine di marzo del 1973 uno degli arrestati rivelò che l’effrazione era stata compiuta per ordine dell’ex ministro della giustizia John Mitchel, che era a capo del comitato per la rielezione di Nixon alla Casa Bianca.
Nixon negò ogni coinvolgimento nella vicenda. In effetti non è mai stato dimostrato che avesse deciso l’operazione o che ne fosse stato preventivamente informato. Però il presidente si adoperò per far insabbiare le indagini e nascondere l’esistenza di un gruppo di suoi collaboratori incaricato di screditare i suoi avversari politici con mezzi illegali. Dalle successive indagini, condotte sia da un comitato d’inchiesta del Senato sia dal procuratore speciale Archibald Cox, emerse che tutte le conversazioni tenute nell’ufficio del presidente venivano registrate. Nixon si appellò ai privilegi della sua carica per non consegnare i nastri e fece destituire Cox. Quando finalmente acconsentì alle richieste degli inquirenti risultò che i nastri consegnati non erano completi ed erano stati manipolati. Il 24 luglio 1974, a conclusione di un estenuante braccio di ferro giudiziario, la Corte Suprema sentenziò che Nixon dovesse consegnare i restanti nastri con le prove del suo ruolo nell’insabbiamento. Pochi giorni dopo, il comitato giudiziario della Camera avviò la messa in stato d’accusa del presidente per ostruzione della giustizia e abuso di potere. Prima che il Senato potesse destituirlo, Nixon rassegnò le dimissioni il 9 agosto.
La guerra del Vietnam, concepita inizialmente come una guerra “locale”, ebbe profonde ripercussioni non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in America Latina. Negli Stati Uniti il conflitto fu oggetto di un acceso dibattito politico e giornalistico. Nel paese nacque un eccezionale movimento di opposizione di massa, che crebbe progressivamente con il crescere dell’impegno delle forze americane in Vietnam. In seguito alla controffensiva vietnamita del 1968, l’opposizione pacifista travolse la presidenza democratica di Johnson, facendo emergere la crisi di credibilità della dirigenza americana e aumentando la frattura tra il governo e il paese. Per la prima volta nella storia dell’umanità i moderni mezzi di comunicazione di massa giocarono un ruolo fondamentale: quella del Vietnam è la prima guerra seguita e vista attraverso la televisione. Mentre Nixon procedette con calcolata lentezza al ritiro delle truppe americane dal martoriato paese per dar tempo al governo di Saigon di organizzare un esercito, la svolta della guerra si ebbe solamente sulla base dell’accordo tra URSS, Cina e Stati Uniti, con i vertici di Mao e Nixon a Pechino (febbraio 1972) e di Nixon, Breznev, Kossighin a Mosca (maggio 1972). La pace, stipulata a Parigi il 27 gennaio 1973, pose fine alla partecipazione diretta degli USA, che ritirarono tutte le truppe nei mesi seguenti. Restò aperta la questione della riunificazione del paese, per la quale il trattato di pace dettava il principio di autodeterminazione del popolo vietnamita e la previsione di un consiglio nazionale di riconciliazione. Il persistere di un’alta tensione in Indocina, dovuta anche all’estendersi del conflitto a Cambogia e Laos, condusse ad un precipitare degli eventi nei primi mesi del 1975, con l’avanzata militare del Fronte nazionale di libertà e dell’esercito nordvietnamita, e la resa incondizionata del governo di Saigon il 30 aprile dello stesso anno.
In Cambogia il conflitto, strisciante sino al 1970, subì in quell’anno una repentina accelerazione a causa del colpo di stato del generale Lon Nol, il quale, con il sostegno statunitense, rimosse dal trono il re Norodom Sihanouk e avviò un’intensa campagna militare contro le formazioni comuniste khmer e le truppe nordvietnamite che avevano insediato alcune loro basi logistiche nel nord del paese. Tuttavia, nonostante il sostegno di Washington, l’esercito cambogiano non riuscì ad avere la meglio sulle forze khmer, che anzi nel gennaio 1975 entrarono a Phnom Penh e costrinsero Lon Nol alla fuga. Il nuovo governo, sostenuto da Pechino e guidato da Pol Pot, isolò immediatamente il paese dal resto del mondo iniziando una sistematica campagna di eliminazione di tutti coloro che erano sospettati di essere reazionari. L’obiettivo era quello di riportare la Cambogia a un presunto “stato originario”, in cui le radici rurali non fossero “contaminate” dalla modernità. Fu perciò attuato lo sgombero forzato delle città, trasferendo gli abitanti nelle campagne e sottoponendoli a un periodo di lavori forzati; vennero aboliti il denaro, distrutti i monasteri buddisti e le biblioteche; iniziato lo sterminio dei ceti professionali e commerciali, considerati irrecuperabili. Furono così uccisi, unitamente agli oppositori, gli insegnanti, i commercianti, gli impiegati dell’amministrazione nel precedente regime. Nel corso dei quattro anni del regime di Pol Pot, un quarto della popolazione cambogiana fu sterminato (probabilmente un milione e mezzo di persone). Il massacro avvenne nella sostanziale indifferenza dei paesi occidentali e con il complice disinteresse della Cina, alleata dei khmer in funzione antisovietica. Nel dicembre 1977 le truppe del Vietnam, filosovietico, invasero la Cambogia con il pretesto dei ripetuti sconfinamenti nel proprio e in altri territori da parte dei khmer. Dopo quattordici mesi l’esercito vietnamita sconfisse quello cambogiano, insediando un governo filosovietico al posto di quello di Pol Pot. La popolazione cambogiana, ormai stremata, non si oppose all’invasione vietnamita.
Negli anni Settanta in URSS proseguì l’era brezneviana che esprimeva la tendenza più conservatrice del partito, sia in politica interna che in politica estera. Dentro i confini, la politica condotta dal premier conduceva ad un forte immobilismo e ad una dura repressione del dissenso politico. La netta chiusura verso l’esterno dell’URSS, avviata da Breznev, si ammorbidì relativamente nei primi anni Settanta con la riapertura di relazioni economiche e militari con i paesi dell’Europa occidentale. La firma del Salt I, (acronimo per Strategic arms limitation talks) l’accordo di non proliferazione delle armi nucleari strategiche, venne firmato nel 1972, in seguito ad una visita a Mosca del presidente degli USA Nixon. L’Atto di Helsinki, nel 1975, sancì invece una serie di accordi per la cooperazione e la sicurezza in Europa. Nel 1977, pur mantenendo la carica di segretario generale, Breznev venne eletto presidente del Presidium del Soviet supremo.
Il clima internazionale fu di nuovo deteriorato dalla decisione dell’URSS di dispiegare nuovi missili nell’Europa orientale (gli Ss-20) e da quella di invadere l’Afghanistan nel 1979. Mentre era in corso la procedura per la ratifica del trattato SALT II, l’URSS invase l’Afghanistan, uno dei paesi più arretrati del continente asiatico, che costituiva un importante tassello della politica estera sovietica; si trovava infatti in una posizione cruciale per il controllo dell’area del Golfo Persico. Approfittando di una situazione di instabilità, nel 1978 l’URSS aveva imposto un regime militare a lei favorevole, che si era scontrato sin dall’inizio con la resistenza dei guerriglieri, i mujahiddin, dell’Alleanza islamica per la liberazione dell’Afghanistan. I successi della resistenza, appoggiata dagli stati islamici della regione, indussero i sovietici a intervenire direttamente. Il 7 dicembre 1979 truppe dell’URSS iniziarono ad entrare nel territorio afgano. Poche settimane dopo il presidente Amin, fautore di una linea dura nei confronti della guerriglia, venne deposto e poi giustiziato e sostituito da Babrak Karmal, un esponente della fazione comunista sconfitta nel ‘78 da Amin, il quale dette vita a un governo di unità nazionale in linea con le tradizioni islamiche. Nonostante un’immediata risoluzione dell’ONU che condannava l’intervento sovietico, il conflitto non si placò; nei mesi successivi subì anzi un inasprimento.
Gli anni ‘70 furono un periodo di attenuazione della tensione tra USA e URSS. Questo periodo ebbe tra i suoi protagonisti il Consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato americano Henry Alfred Kissinger. Le spese per la corsa agli armamenti strategici e l’intervento diretto nelle zone “calde” del globo stavano danneggiando l’economia statunitense, contribuendo, infatti, ad alimentare la recessione, la crescita dell’inflazione e l’aumento del deficit nella bilancia dei pagamenti. Kissinger ritenne più opportuno coinvolgere l’URSS stessa in questa operazione attraverso una strategia di concessioni reciproche che mirasse all’accettazione delle rispettive sfere di influenza e al tacito impegno a non estenderle. In questo mutato clima, sancito dalla visita del presidente statunitense Nixon a Mosca (1972), maturarono il trattato tedesco-sovietico sull’inviolabilità delle frontiere europee (1970), riconoscimento statunitense della Germania orientale (1972), il ritiro americano dal Vietnam (1973) e la Conferenza di Helsinki sulla tutela dei diritti umani nell’Europa dell’est e sulle misure per evitare un conflitto accidentale tra NATO e Patto di Varsavia (1975). La politica americana trovò, infatti, una corrispondenza nell’atteggiamento dell’URSS sia per il deteriorarsi delle sue relazioni con la Cina, sia per le difficoltà della propria economia a competere con gli Stati Uniti nel riarmo. Anche per questo furono avviati negoziati diretti, finalizzati alla limitazione degli armamenti strategici. In questa direzione, nel 1972 venne conseguito un primo importante risultato: il 16 maggio il presidente statunitense Nixon e il segretario generale del Partito comunista sovietico Breznev firmarono a Mosca l’accordo Salt I (negoziato per la limitazione delle armi strategiche), con cui si impegnavano a non armarsi con missili anti-missile. Subito dopo il raggiungimento di questo primo accordo si aprì la seconda fase dei negoziati che portò, il 18 giugno 1979, alla firma a Vienna del Salt II, con cui venivano limitati i vettori di armi strategiche. Il trattato non divenne però esecutivo, poiché mancò la ratifica del senato americano. Carter ne sospese la procedura, rispondendo in questo modo all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Inoltre, pose l’embargo alle esportazioni cerealicole nell’URSS e promosse un boicottaggio internazionale dei Giochi Olimpici che si sarebbero svolti a Mosca nel 1980.
Nel 1976, alla morte di Mao Tse-tung, si assistette in Cina ad un processo definito “demaoizzazione”, in qualche modo simile a quello che avvenne in Unione Sovietica dopo il 1956. Protagonista di questa fase politica fu un anziano membro del gruppo dirigente comunista, Deng Xiao Ping, che, per le sue posizioni moderate, era stato messo in disparte negli anni della “rivoluzione culturale” e che subentrò a Hua Kuo Feng.
Le più importanti riforme furono attuate nel campo economico: venne, infatti, avviata una progressiva decollettivizzazione delle fabbriche e si concessero aperture all’economia di mercato. In primo luogo furono introdotte differenziazioni salariali e incentivi per i lavoratori. In secondo luogo venne data maggiore importanza ai criteri di efficienza e si incoraggiò l’importazione della tecnologia occidentale. Anche nel campo dell’agricoltura furono fatti sostanziali passi avanti in questo senso: si permise ai contadini di coltivare in proprio i piccoli poderi e di vendere i prodotti agricoli sul mercato libero. Tutta questa serie di provvedimenti incoraggiò l’economia cinese, che si consolidò nel corso degli anni ‘80 senza gli squilibri settoriali caratterizzanti l’economia sovietica. La graduale apertura all’economia di mercato fu vista con favore dai paesi occidentali, che valutarono positivamente l’apertura alle importazioni di un mercato potenzialmente illimitato come quello cinese.
Alla liberalizzazione nel campo economico, non corrispose, però, un processo di democratizzazione della sfera politica. Il regime rimase chiuso a qualunque influsso esterno e l’arroccamento del Partito comunista si fece sempre più forte. La struttura burocratica non subì alcuna trasformazione, anzi tese a trasformarsi in una casta, ed ogni manifestazione di dissenso veniva perseguita e punita severamente.
In politica estera fu attuata la piena normalizzazione dei rapporti con gli USA ed i paesi occidentali (anche se si mantenne alta la tensione con Taiwan, alleata degli USA), una forte ostilità nei confronti dell’URSS, e soprattutto, l’intervento militare punitivo contro il Vietnam, reo di aver esteso la sua egemonia diretta sul Laos e di aver invaso la Cambogia (febbraio 1979); il sanguinario regime cambogiano di Pol Pot era infatti alleato con la Cina. La Cina inflisse gravi perdite ai vietnamiti, ma non li indusse a ritirarsi dalla Cambogia. Dopo decenni in cui il mondo (e l’Indocina in particolare) aveva visto movimenti di guerriglia comunisti combattere contro occupanti stranieri o governi filoccidentali, lo scontro tra Cina e Vietnam apparve come un rovesciamento della situazione, con una guerra combattuta tra due stati comunisti.
Difficile definire con esattezza il concetto di “tigri asiatiche”. Esso fu elaborato, dopo il 1970, per definire le società di quattro stati dell’Asia orientale, due dei quali (Taiwan e Corea del Sud) avevano le caratteristiche di paesi e società organiche, gli altri due (Singapore e Hong Kong) erano aree urbane rese entità statali per ragioni storiche. Queste quattro “tigri” conobbero, a partire dalla metà degli anni ‘60, un grande sviluppo economico fondato su un’industrializzazione rapida, sostenuta dall’intervento statale, dai bassi salari e da un’economia - ovunque privata e capitalistica - fondata sulle esportazioni, che gradualmente assunsero un sempre maggiore contenuto tecnologico. Quest’esperienza mise in moto forme di emulazione in altri paesi, soprattutto dell’Asia sud-orientale (Thailandia, Malesia, Indonesia), che - a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 - misero anch’essi in pratica una politica economica di rapida industrializzazione. A differenza di quanto avvenuto nel caso delle prime quattro “tigri”, questi paesi attuarono un modello di sviluppo molto più fragile, fondato su prestiti esteri, sulla presenza di imprese straniere e su gravi forme di destabilizzazione sociale. In particolare in Indonesia questa politica fu accompagnata da episodi di corruzione e da drammatiche rotture dell’equilibrio sociale, con massicce migrazioni interne e l’abbandono forzato della terra della popolazione.
Nel corso del secondo dopoguerra l’Iran era considerato dalle potenze occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti, uno stato “affidabile”, in quanto interessato a contenere sia una possibile espansione sovietica, sia l’estremismo nazionalistico arabo. L’Iran, infatti, a differenza degli altri paesi della regione, non apparteneva al mondo arabo, distinguendosi sul piano etnico, linguistico e religioso: la maggioranza della sua popolazione era di religione musulmana sciita anziché musulmana sunnita. Ad aumentare l’importanza che esso ricopriva per la politica occidentale contribuiva senza dubbio la sua ricchezza di giacimenti petroliferi e, soprattutto, il fatto che il paese si trovasse collocato in una posizione strategica per il controllo delle rotte petrolifere.
Dal 1953 l’Iran era governato dallo scià (imperatore) Reza Pahlavi, promotore di una politica di modernizzazione tendente a fare del paese una grande potenza militare dell’area mediorientale. Il tentativo di trasformazione non ottenne però gli effetti sperati e non contribuì affatto a migliorare le condizioni di vita della popolazione. Il fallimento della modernizzazione, unitamente al ricorso massiccio a una politica autoritaria e repressiva per il controllo del malcontento, suscitò una crescente opposizione da parte sia dei gruppi di sinistra che del clero islamico tradizionalista. Fu proprio quest’ultimo ad assumere, nel 1978, la leadership di un vasto movimento di protesta. Polizia e esercito furono mobilitati contro gli oppositori e provocarono centinaia di morti nel tentativo fallimentare di impedire dimostrazioni contro il governo di Reza Pahlavi. In pochi mesi il regime dello scià venne messo in ginocchio: nel gennaio del 1979 Pahlavi, abbandonato ormai anche dagli Stati Uniti, fu costretto a lasciare il paese.
Cacciato lo scià, assunse la guida dell’Iran l’ayatollah Khomeini massima autorità religiosa e principale esponente dell’opposizione. Il 1° aprile, dopo essere tornato in patria dall’esilio di Parigi, Khomeini proclamò l’istituzione della Repubblica islamica, approvata mediante dei referendum plebiscitari. Così fu istituito un sistema politico che intendeva applicare le norme morali, religiose e penali previste dal Corano, e in cui lo stato assumeva caratteri teocratici, fondendo l’autorità religiosa con quella politica. Furono ripristinate leggi e consuetudini dimenticate nel corso dell’urbanizzazione e della modernizzazione, mentre l’istituzione di una numerosa milizia di “guardiani della rivoluzione” consentiva un controllo capillare sull’intera società.
Quello che si costituì era quindi un regime fortemente autoritario, certamente più del precedente, in cui il rispetto integrale delle norme del Corano diventava il fondamento di un atteggiamento violentemente antioccidentale e, in particolare, antiamericano. Ne rappresentò l’esempio più eclatante la crisi degli ostaggi apertasi nel novembre del 1979, quando un gruppo di studenti sequestrò il personale dell’ambasciata statunitense della capitale iraniana, Teheran. Agendo con l’appoggio delle autorità, i sequestratori liberarono i cinquantadue ostaggi solo dopo quindici mesi (gennaio 1981), in seguito al raggiungimento di un accordo tra i due stati.
All’indomani dell’acquisizione dell’indipendenza politica, molti paesi del Terzo Mondo chiesero consistenti prestiti agli stati industrializzati e alle banche internazionali, reperendo così i capitali necessari per avviare lo sviluppo economico. Dopo l’aumento del prezzo del petrolio promosso dalle nazioni esportatrici nel 1973, a causa dello shock petrolifero, l’indebitamento assunse dimensioni enormi. I paesi industrializzati si trovarono costretti a versare una quota di dollari notevolmente superiore ai membri dell’OPEC, in quanto il prezzo del petrolio si era nel frattempo quadruplicato. Quelli reinvestirono i nuovi capitali, i cosiddetti “petrodollari”, nelle principali banche occidentali che, a loro volta, concessero ampi prestiti ai paesi del Terzo Mondo, ritenendoli più sicuri dei privati. La possibilità di accedere a crediti facilitati, vista la grande disponibilità di dollari, e la necessità per molti paesi di farlo, perché danneggiati dal rincaro del prezzo del petrolio, spinsero gran parte del Terzo Mondo a indebitarsi oltre misura.
L’indebitamento operava come un freno per lo sviluppo, in quanto, sottoponendo i paesi al pagamento di alti interessi, assorbì le risorse necessarie e le trasferì alle grandi banche occidentali o alle istituzioni sovranazionali (FMI e Banca mondiale). I produttori di materie prime furono fortemente penalizzati dalle innovazioni tecnologiche, in grado di ridurre il fabbisogno nei paesi industrializzati; questi, infine, ridussero gli aiuti erogati. In un contesto caratterizzato dall’accentuata concorrenza del mercato mondiale, molti paesi africani, latino-americani e asiatici furono esclusi dal circuito degli scambi e degli investimenti internazionali e si trovarono al tempo stesso completamente privi dei mezzi necessari per avviare autonomamente lo sviluppo. Se, quindi, da un lato le risorse a disposizione divenivano scarse, dall’altro la popolazione, al contrario di quanto accadeva nei paesi industrializzati, continuava ad aumentare a ritmi molto elevati. Una parte consistente della popolazione mondiale era di conseguenza impossibilitata a soddisfare i propri bisogni primari. L’assenza di cibo, acqua e assistenza sanitaria costrinsero centinaia di milioni di persone a uno stato di assoluta povertà, senza possibilità di affrancamento da questa condizione. Stime ufficiali calcolavano che ogni anno fossero circa ottanta milioni i morti per fame.
La decisione di costituire in India uno stato separato dei musulmani (Pakistan) fu accettata giuridicamente e politicamente, ma mai legittimata moralmente dai nazionalisti indiani, schierati per un’India unita e non confessionale. Dopo l’indipendenza, il cui raggiungimento fu contraddistinto dallo spostamento di milioni di profughi con decine di migliaia di vittime, divenne motivo di tensione tra i due paesi il Kashmir, abitato da musulmani e passato all’India per meccanismi giuridici validi ma non per volontà popolare. Il Kashmir era una questione di principio per i governanti indiani, quale prova del carattere multiconfessionale del paese e delle garanzie prestate alla minoranza musulmana che, sparsa in quasi tutte le regioni, rappresentava il 12% degli indiani. Per il Kashmir India e Pakistan combatterono negli anni successivi all’indipendenza e poi di nuovo nel 1965, ma motivi confessionali e interferenze pakistane crearono nella regione un continuo stato di tensione. Nel 1971 India e Pakistan si fronteggiarono in una guerra dopo che un movimento insurrezionale, scoppiato nel Bengala orientale, diede scacco al potere centrale pakistano e provocò 10 milioni di profughi: l’intervento indiano, appoggiato dall’URSS, portò alla nascita del Bangladesh e a un nuovo accordo di pace indo-pakistano.
Il Centro America fu teatro, negli anni Settanta, di alcune gravi crisi.
Il Nicaragua viveva dal 1933 sotto la dittatura del clan famigliare dei Somoza: alleati con l’oligarchia interna, essi erano a capo di un regime corrotto e autoritario. Le condizioni economiche del paese, già difficilissime, furono aggravate dal disastroso terremoto del 1972. L’opposizione era organizzata in due fronti: i radicali, che si richiamavano all’eroe nazionale Sandino, formavano il Frente sandinista de liberación nacional, mentre i moderati, guidati da Pedro Chamorro, avevano fondato l’Unión democrática de liberación. La crisi del paese si aggravò con l’assassinio di Chamorro (1978). Intanto le due maggiori forze d’opposizione erano pervenute ad un accordo e la lotta contro il regime era sempre più radicata sia nelle città sia fra i contadini. In seguito ad una potente offensiva della guerriglia, Somoza fu costretto a fuggire dal paese (1979). I sandinisti, guidati da Daniel Ortega Saavedra, assunsero il potere, attuando un’estesa riforma agraria e sottoponendo l’economia al controllo statale. Furono soprattutto gli USA a contrastare l’esperimento sandinista, promuovendo il boicottaggio economico del Nicaragua e, soprattutto, appoggiando la guerriglia dei “contras”, movimenti armati di destra oppositori del regime.
Il Salvador conobbe, a partire dal 1962, una Repubblica presidenziale, caratterizzata dall’egemonia politica del moderato PCN (Partito di Conciliazione Nazionale). Essendo uno degli stati economicamente più solidi della regione centroamericana, grazie alla sua posizione sull’Oceano Pacifico, visse nell’ultimo ventennio un periodo di continua instabilità, caratterizzato dall’alternarsi di colpi di stato, governi autoritari e da una situazione di autentica guerra civile. Nel 1972 fu eletto presidente della Repubblica il conservatore Molina, mai riconosciuto dall’opposizione politica comunista, democristiana e nazional-rivoluzionaria (che denunciò brogli alle elezioni e continue violazioni dei diritti umani da parte delle forze di polizia). Nel 1977 fu eletto il generale Humberto Romero, che iniziò una campagna di repressione delle opposizioni politiche, utilizzando anche corpi speciali, i famigerati “squadroni della morte”. Nel paese iniziò a diffondersi la guerriglia di opposizione al governo, organizzata da gruppi di orientamento marxista che mantennero rapporti con l’opposizione legale, capeggiata da Duarte. Nel 1979, in un contesto ormai di vera e propria guerra civile, un gruppo di militari si impadronì del potere con un colpo di stato, provocando un duro inasprimento della guerra civile, in un clima di tensione causato anche dal fallimento della riforma agraria avviata negli anni precedenti. Nel 1980 il vescovo Oscar Romero, impegnato nella difesa dei diritti umani nel paese e malvisto dai diversi gruppi di potere affaristico-militari, venne assassinato da esponenti militari mentre celebrava la messa nella cattedrale; l’episodio ebbe grandi ripercussioni in campo internazionale. Alla fine del 1980 Duarte venne chiamato a presiedere la giunta militare.
Il Sud America ha conosciuto nell’ultimo venticinquennio del Novecento una storia tormentata.
In Argentina, nel 1973, il candidato peronista Hector Campora vinse le elezioni presidenziali e aprì la strada al ritorno in patria dell’anziano Perón. Questi e la sua seconda moglie Maria Estela Martinez (Isabelita) vennero eletti alla fine dello stesso anno presidente e vicepresidente della Repubblica. Alla morte di Perón nel 1974 fu la moglie ad assumere la presidenza, concentrandosi principalmente sulla repressione della guerriglia dell’Erp e dei Montoneros e accentuando, con la chiusura per tre mesi del Parlamento nel 1976 e la destituzione di vari ministri, il carattere autoritario del suo potere.
Nel marzo 1976 un colpo di stato rovesciò la Perón, instaurando una dittatura militare capeggiata prima dal generale Videla, poi da Nola, infine, dall’11 dicembre 1976, dal generale Galtieri. L’episodio di questa fase della storia argentina che più colpì l’opinione pubblica internazionale fu la vicenda dei desaparecidos, i circa trentamila oppositori politici del regime sequestrati, torturati e fatti letteralmente sparire tra il 1976 e il 1979 dalle forze di polizia. Questa vicenda ha provocato la diffusione di un movimento di opposizione al regime, capeggiato dalle cosiddette “madri di plaza de majo”, familiari appunto degli scomparsi.
Dal 1964 al 1985, il Brasile è governato per circa un ventennio da una dittatura di tipo militare, particolarmente dura nella repressione dell’opposizione fino alla metà degli anni settanta, in coincidenza con lo sviluppo nel paese di movimenti guerriglieri di impostazione maoista e guevarista. A governare il Brasile furono il generale Geisel, dal 1974 al 1979, e il generale Figueiredo, dal 1979 al 1985, il quale rese legali tutti i partiti di opposizione tranne quello comunista. L’esperienza della dittatura, contemporanea all’affermazione di regimi analoghi in tutta l’area dell’America centro meridionale, coincise con una delle fasi economicamente più travagliate nel corso della storia del paese.
Dal 1968 al 1975, in seguito alla rivoluzione del 3 ottobre 1968, il Perù venne retto da un governo militare di sinistra con a capo Alverado, il quale impostò una politica di nazionalizzazione economica, soprattutto nei settori del petrolio e delle banche, fortemente contrastata dagli USA. Nel 1975 Alverado fu destituito a favore del generale Morales Bernandez, di tendenze conservatrici. Nel 1980 fu eletto presidente il generale Terry, ma la sua riforma liberale e soprattutto la sua presidenza non riuscirono ad arginare la guerriglia di Sendero Luminoso, un’organizzazione maoista attiva dalla fine degli anni sessanta e molto forte in diverse regioni del paese.
Nel 1970 le elezioni presidenziali furono vinte dal leader socialista Salvador Allende, promotore di una coalizione di Unidad Popular (comunisti, socialisti, radicali). Allende era stato sconfitto alle presidenziali del ‘52, del ‘58 e del ‘64, ma l’opposizione a Frei lo aveva reso noto e popolare consentendogli di essere eletto presidente. Con Allende cominciò un nuovo corso. Si accelerò il processo di nazionalizzazione di miniere e banche e si varò una coraggiosa riforma agraria. Quello di Allende era il primo caso di sistema socialista democraticamente eletto; infatti si parlava di “socialismo nella libertà” o di “socialismo in salsa cilena”, per marcare le differenze con il modello sovietico. La nazionalizzazione delle miniere di rame si rivelò però fatale per Allende. Il Partito democristiano si spostò a destra fino a incontrare le posizioni dell’estrema destra che promuoveva boicottaggi e serrate nelle fabbriche; gli Stati Uniti rallentarono il flusso di crediti e merci verso il paese e l’inflazione crebbe. Nonostante tutto ciò, nel marzo 1973 le sinistre vinsero nuovamente le elezioni politiche. Allende cercò l’accordo con i democristiani e con gli esponenti più aperti dell’esercito. Ma l’11 settembre gli uomini del generale Augusto Pinochet, sostenuto finanziariamente dalle multinazionali, e politicamente dal governo statunitense e dalla CIA, bombardarono il palazzo del governo di Santiago del Cile, instaurando una feroce dittatura. Ci furono oltre 20.000 morti fra cui lo stesso Allende e numerosi suoi ministri; lo stadio di Santiago venne trasformato in un’enorme prigione e luogo di torture, mentre migliaia di democratici cileni presero la via dell’esilio per salvarsi la vita. Vennero restaurati i privilegi delle multinazionali e dei latifondisti. Immediatamente riconosciuto dagli Stati Uniti, il regime governò con il consenso del Partito democristiano e delle gerarchie ecclesiastiche.
Negli anni Settanta la repubblica sudafricana svolse un ruolo attivo, a favore delle potenze coloniali, nelle guerre di liberazione in Africa. Sostenne il Portogallo contro i movimenti neri di ispirazione socialista in Angola e Mozambico (così come nel 1965 aveva offerto i suoi aiuti ai rodesiani bianchi contro la politica di decolonizzazione degli inglesi). Ma i tentativi di un “colonialismo interno” non riuscirono e, nel 1975, il Sudafrica fu costretto a ritirare dall’Angola un suo commando militare. Nello Zimbabwe e in Namibia cercò di sfruttare le rivalità tra i movimenti di liberazione nera in modo da assicurarsi, in caso di sconfitta dei bianchi, che a prendere il potere ci fossero leader e gruppi rappresentanti della maggioranza nera non eccessivamente ostili. Ma non riuscì ad evitare l’isolamento. Il Portogallo riconobbe l’indipendenza dell’Angola, lasciando il potere ai rivoluzionari filosocialisti del Movimento angolano per l’indipendenza.
La situazione di tensione provocata dall’apartheid portò, inevitabilmente, allo scontro. Il 17 giugno del 1976 nel ghetto nero di Soweto, alla periferia di Johannesburg, scoppiò una rivolta di giovani contro la segregazione razziale nelle scuole. I disordini continuarono per cinque giorni e furono violentemente repressi dalla polizia. Persero la vita 176 persone, oltre mille rimasero ferite. La lotta riprese ad agosto, anche in forma organizzata: i sindacati dei neri dichiararono lo sciopero generale.
L’opinione pubblica mondiale intanto si mobilitò e fece pressioni anche verso le istituzioni internazionali. Nel 1977 l’ONU sanzionò il governo sudafricano con un embargo, che tuttavia non sortì gli effetti voluti.
Dopo la fondazione avvenuta a Roma nel 1957, la CEE (Comunità Economica Europea), visse il primo quindicennio di attività all’insegna della massima gradualità, senza che il processo d’integrazione subisse forti accelerazioni. Con gli anni ‘70 si aprì invece un periodo caratterizzato da alcuni momenti di particolare importanza, in cui si approfondirono i legami che univano i diversi paesi tra loro, e si allargarono i confini coinvolgendo nuovi protagonisti. All’inizio del decennio la Comunità era ancora composta esclusivamente dagli stessi paesi che avevano partecipato alla sua fondazione: Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Nel gennaio del 1972 si compì il primo ampliamento, con l’adesione di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, che avevano dato precedentemente vita all’Efta, un accordo di libero scambio. La Norvegia, anch’essa entrata nella Comunità, se ne staccò dopo pochi mesi, in seguito al risultato negativo di un referendum popolare (settembre 1972).
Parallelamente, alcuni importanti accordi hanno fatto compiere passi in avanti tanto sotto l’aspetto istituzionale quanto sotto quello monetario. Fin dalla fondazione, nel 1957, le istituzioni e i poteri della Comunità europea sono stati al centro di un dibattito di grande rilievo. Il trattato di Roma, con cui essa fu istituita, prevedeva un sistema piuttosto articolato: i due organi principali dovevano essere la Commissione, dotata d’indipendenza formale dai governi e con il compito di proporre i piani d’intervento e di disporne l’attuazione, e il Consiglio, che era composto dai rappresentanti dei governi dei paesi membri e cui spettavano le decisioni finali in merito alle proposte della Commissione stessa. Furono inoltre istituiti la Corte di giustizia, con il compito di dirimere le controversie che si determinano tra i singoli stati, e l’Assemblea parlamentare, composta dai membri dei parlamenti nazionali e dotata di funzioni di scarso rilievo.
Questo assetto suscitò sin dai primi momenti aspre polemiche. Nel corso degli anni settanta furono presentate diverse proposte di riforma che portarono alla costituzione di un Parlamento europeo effettivamente sovranazionale, eletto a suffragio universale e quindi indipendente dai parlamenti nazionali. Si trattava di un importante passo avanti, che si concretizzò il 10 giugno 1979 con le prime elezioni europee (da allora si vota ogni quattro anni). Da più parti però questa riforma fu giudicata insufficiente, in quanto il Parlamento disponeva di poteri molto limitati e le decisioni continuavano ad essere prese effettivamente dai singoli governi nazionali. Si parlò a questo proposito di “deficit democratico” della Comunità: d’altronde i governi dei diversi paesi erano restii a cedere porzioni significative della propria sovranità.
Sostanziali furono i progressi compiuti in campo monetario, sollecitati dalle vicende dell’economia internazionale. La fine del sistema monetario di Bretton Woods (1971) e la conseguente crisi del dollaro come moneta di riserva e strumento per gli scambi internazionali, posero alla Comunità nuovi problemi. L’instabilità dei cambi tra le valute determinata da questa situazione, infatti, minacciava di rendere più incerte le relazioni commerciali tra gli stessi paesi membri della Comunità, e tra questi e il resto del mondo. La soluzione fu individuata nel marzo 1972, e consistette in un più stretto coordinamento delle politiche economiche degli stati e in una riduzione dei margini di fluttuazione nella parità tra le monete (“serpente monetario”). Già alcuni mesi dopo, tuttavia, l’indebolimento di molte valute e, più in generale, le difficoltà dell’economia internazionale, impedirono la completa attuazione del progetto. Nel 1979 fu varato il “Sistema Monetario Europeo” (SME), consistente in uno stretto rapporto di cambio tra le valute comunitarie, in meccanismi d’intervento comuni, nell’istituzione di un fondo per gli interventi a sostegno delle monete più deboli e nella definizione di un’unità di conto europea, l’Ecu, embrione di una futura moneta unica.
All’inizio degli anni Settanta nella penisola iberica erano al potere regimi di carattere autoritario. La politica anticomunista del blocco occidentale fece sì che questi paesi fossero a pieno titolo membri del blocco stesso.
In Spagna era al potere Francisco Franco. La dittatura del “caudillo” è durata ininterrotta dal 1939, dalla fine della guerra civile che Franco aveva vinto. Il regime clerical-autoritario a partire dagli anni Sessanta era entrato sempre più in contraddizione con il grande sviluppo economico che conobbe il paese e che determinò forti spinte alla modernizzazione. Allo stesso tempo, parti importanti della società si distaccarono dal regime e forti minoranze si mobilitarono per il ritorno alla democrazia. Nonostante che anche settori importanti della Chiesa e della borghesia (tradizionali punti di forza del franchismo) chiedessero riforme, il regime, con tutti i suoi caratteri più repressivi, resse fino alla morte del dittatore. Alla morte di Franco, nel 1975, gli successe il re Juan Carlos di Borbone, da tempo designato come successore, che aveva separato le sorti del paese da quelle della dittatura facendosi promotore di un graduale e incruento passaggio alla democrazia. Nel giro di un anno e mezzo, il nuovo re avviò una graduale liberalizzazione: attenuò la censura sulla stampa, sciolse il Partito unico franchista, legalizzò i partiti democratici e di sinistra e i sindacati liberi e concesse una consistente autonomia alla Catalogna e ai paesi baschi, i cui movimenti indipendentisti avevano costituito una delle principali opposizioni al franchismo. L’indipendentismo catalano si sarebbe placato, mentre quello basco, si sarebbe organizzato attraverso l’organizzazione dell’ETA (Euzkadi ta Azkatasuna, “Paese basco e libertà”), una forza separatista che adottò il metodo delle azioni armate e terroristiche.
La dittatura portoghese venne instaurata nel 1933 da Antonio de Oliveira Salazar. L’“Estado Novo” costituiva il tentativo di dare vita ad un regime totalitario fondato su una peculiare visione del corporativismo cattolico, sul partito unico e su istituti di stampo più chiaramente fascista. Come per la Spagna, la scelta della neutralità nella seconda guerra mondiale aveva garantito la sopravvivenza del regime di Salazar. Il 25 aprile 1974 un gruppo di militari depose il primo ministro Marcelo Caetano, successore di Antonio Oliveira Salazar. Alla base del golpe c’era il crescente malcontento dell’esercito e, in particolare, dei giovani ufficiali, a causa delle sconfitte riportate nell’azione di repressione militare attuata nei confronti dei movimenti indipendentisti di Guinea, Angola e Mozambico, in una guerra finalizzata a difendere fino all’ultimo i possedimenti coloniali. Appoggiati dalla mobilitazione popolare e dal partito comunista, gli ufficiali portoghesi affondarono il regime con un’insurrezione incruenta passata alla storia come la “rivoluzione dei garofani”. Furono smantellate le vecchie istituzioni e legalizzati i partiti, ma subito esplosero le tensioni sociali accumulate nei lunghi anni di dittatura. Tentativi di colpo di stato in chiave moderata e agitazioni sociali si alternarono, mentre si fronteggiavano i sostenitori di riforme radicali (comunisti e maggioranza dei militari) e i fautori di una transizione più moderata (socialisti, minoranza dei militari e altri partiti). Le elezioni per l’Assemblea costituente (aprile 1975) dettero la maggioranza ai socialisti capeggiati da Mário Soares che, rafforzati dalle elezioni parlamentari del 1976, si posero alla guida del paese.
Nel 1974 cadde la dittatura dei colonnelli greci, al potere dal 1967. A porre fine al regime fu il disastroso tentativo di annettere Cipro, che vide la Grecia subire la maggiore potenza militare della Turchia. Travolti dalla sconfitta, i militari lasciarono la guida del paese ai partiti democratici e un referendum popolare segnò la fine della monarchia, pesantemente compromessa con la dittatura.
Fu nell’isola di Cipro, dove conviveva una maggioranza di popolazione greca con una minoranza turca, che esplose il conflitto. Dopo un colpo di stato organizzato dalla dittatura greca ai danni dell’arcivescovo Makarios III, capo della chiesa ortodossa cipriota e autorità locale, nel 1974 la Turchia invase l’isola. La crisi provocò la caduta dei colonnelli greci, ma aprì una crisi non ancora risolta. Cipro venne divisa in una zona settentrionale controllata da Ankara (Repubblica turca di Cipro del Nord, non riconosciuta dall’ONU) e in una zona meridionale controllata dagli eredi politici di Makarios (morto nel 1977), che mirano a riunificare l’isola.
I cattolici dell’Irlanda del Nord (Ulster), oggetto di una secolare discriminazione dei diritti politici e sociali, dettero vita, dal 1967, ad un movimento di protesta pacifica. In seguito alla repressione da parte degli unionisti (protestanti), radicalmente contrari ad ogni richiesta di parificazione, le autorità britanniche decisero di intervenire per sottrarre la tutela dell’ordine pubblico al governo locale, ma non seppero trovare alcuna soluzione politica. Questo intervento ebbe invece la conseguenza di risvegliare nei cattolici aspirazioni indipendentiste: furono riorganizzati sia il partito del Sinn Fein, sia l’esercito dell’IRA (Irish Republican Army), che iniziò nel 1971 una campagna terroristica. Il governo britannico assunse un più deciso atteggiamento repressivo, mentre si assisteva alla pronta risposta militare delle forze unioniste. Nel 1972 14 nazionalisti disarmati furono uccisi dai soldati inglesi (Bloody Sunday): migliaia di cattolici risposero distruggendo l’ambasciata britannica a Dublino. La tregua del 1975 fra Londra e i repubblicani provocò la reazione dei corpi paramilitari unionisti, che condusse a decine di vittime civili. Saltata la tregua nel 1976, il governo inglese decise la contrapposizione frontale con l’IRA, linea rafforzata con l’avvento al potere di Margaret Thatcher.
L’Italia degli anni Settanta è caratterizzata dalla “strategia della tensione”, risultato di vari fattori che raggiunsero l’apice proprio nel corso di questo decennio e nei primi anni del successivo. Il manifestarsi di azioni di carattere terroristico attuate da settori dell’ultra sinistra coincise con il tentativo di ambienti dell’estrema destra, in contatto con settori deviati delle istituzioni e con la probabile collaborazione della CIA, di condizionare il corso politico italiano in chiave conservatrice. Dopo le forti tensioni scaturite dal movimento del 1968 e dall’“autunno caldo” del 1969, le diffuse paure tra gli italiani, timorosi del disordine sociale, furono alimentate da stragi e attentati terroristici di varia matrice, quindi da ricorrenti depistaggi delle indagini avviate dalla magistratura. Tra l’interminabile elenco dei numerosi e drammatici episodi che segnarono quegli anni, ne vanno ricordati alcuni particolarmente rilevanti: il 12 dicembre 1969 l’esplosione di una bomba nella Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano che causò 17 morti e 90 feriti; altri tre ordigni provocarono 13 feriti a Roma; il 28 maggio 1974 un attentato causò 8 morti e 90 feriti in piazza della Loggia a Brescia; il 4 agosto 1974, 12 morti e 45 feriti furono il bilancio della strage del treno Italicus; il 2 agosto 1980, un attentato alla stazione di Bologna provocò 85 morti e centinaia di feriti. Negli stessi anni, dopo una terribile escalation di violenze (rapimenti, attentati a luoghi ed a persone, “punizioni esemplari”), le azioni del terrorismo “rosso” culminarono nel rapimento dello statista democristiano Aldo Moro (1978), che fu l’episodio più clamoroso e gravido di conseguenze di quella fase politica. Malgrado la drammaticità del momento, la democrazia italiana riuscì a non cedere ai ricatti terroristici e alle tentazioni eversive; ma le conseguenze politiche e sociali furono molto profonde.
All’inizio degli anni Settanta, l’Inghilterra si trovava alle prese con la difficile riconversione della propria collocazione nel quadro dei rapporti internazionali, a seguito dell’esaurimento della fase successiva alla perdita dell’impero coloniale. Ridotta al rango di potenza minore, l’Inghilterra viveva anche una condizione di debolezza strutturale, caratterizzata da un apparato industriale obsoleto e privo di una sufficiente capacità d’innovazione. A questi fattori si sommarono, nell’autunno del 1973, gli effetti dello shock petrolifero, che produssero una gravissima recessione. Si aprì per il paese uno dei momenti più travagliati di questo secolo. Le elezioni del marzo 1974 segnarono il ritorno alla guida del paese dei laburisti e del loro leader Harold Wilson, fortemente critici della scelta, fatta nel 1972, di entrare nella Comunità Europea. Su questo tema fu indetto, nel giugno dell’anno successivo, un referendum che vide prevalere a larga maggioranza gli elettori favorevoli alla permanenza nella CEE. Con il 1976 la situazione migliora: in tutta Europa alla crisi energetica subentrava una lenta ripresa. Alle elezioni del 1979 vinsero i conservatori guidati da Margaret Thatcher, il cui programma costituiva una riproposta dei dettami del liberismo economico (“neoliberismo”). Il nuovo governo intendeva offrire una soluzione al disagio dei ceti medi, schiacciati da un lato dall’aumento delle tasse e, dall’altro, dall’alta inflazione che minava i suoi risparmi. Il primo obiettivo della Thatcher fu quello di combattere i sindacati, o meglio, la forza che questi avevano di condizionare l’operato del governo, indipendentemente dai partiti che lo componevano. La “lady di ferro” (così venne soprannominata la Thatcher in virtù del suo decisionismo) con altrettanto impegno perseguì la riduzione della spesa pubblica e la privatizzazione di molti servizi sociali.
L’uso del nucleare si è sviluppato in relazione alle necessità belliche nel corso della seconda guerra mondiale. Dopo il 1945 l’utilizzazione di questo tipo di energia, fondata sulla fissione nucleare, è stata introdotta anche in ambito civile. Di fronte al pericolo dell’esaurimento, in un futuro non lontanissimo, di altre risorse energetiche (come il petrolio) è sembrato che l’atomo potesse sostituirsi ad esse. E’ solo a partire dagli anni ‘70 che consistenti minoranze di ambientalisti e di scienziati hanno cominciato a denunciare i rischi connessi all’atomo. L’incidente nella centrale nucleare americana di Three Miles Island, e quelli che hanno visto coinvolti le petroliere e le piattaforme petrolifere in mare aperto (con la loro triste spettacolarità televisiva, emblematica dei nostri tempi) ha allarmato l’opinione pubblica mondiale che da allora è divenuta molto più sensibile verso questi temi.
Con la crisi petrolifera, la questione energetica divenne uno dei temi più discussi e la realizzazione di impianti nucleari si configurò come l’opzione scelta da quasi tutti i paesi industrializzati per reperire grandi quantità di energia a basso prezzo. Alla metà degli anni Settanta l’ambientalismo, sino ad allora fermo alla semplice difesa e conservazione della natura, compì un profondo processo di maturazione. Nacque proprio in quegli anni la cosiddetta “ecologia politica”; ossia quell’approccio ai problemi ambientali, incentrato sul concetto di “limite” dello sviluppo, che investe gli orientamenti e le scelte generali delle società e dei sistemi politici, e che poneva in discussione il ritmo di sviluppo industriale e l’enorme produzione di beni a cui l’umanità si era abituata.
Uno dei principali esponenti di questo nuovo ambientalismo fu l’inglese Eduard Goldsmith, che può essere considerato il padre dei “verdi” europei. Per sua iniziativa videro la luce, nel 1976, Ecoropa, una rete di servizi per gli organismi ecologisti europei, e nel 1977 l’Ecology Party, che partecipò alle elezioni politiche in Gran Bretagna. Fu questa la prima esperienza di organizzazione politica ambientalista. Ad essa si ispireranno tutte quelle successive, a partire dai Grunen tedeschi, che tennero il loro più importante congresso programmatico a Offenbach nel 1979. Il panorama delle associazioni ambientaliste è assai variegato. Fra le più conosciute, anche per l’accorto uso dei mass media, vi è senza dubbio Greenpeace, nota per le spettacolari iniziative di denuncia, come l’azione contro le navi cariche di plutonio, destinato al Giappone, in partenza dal porto francese di Cherbourg.
Il primo partito “verde” del mondo, il Values Party, nacque nel 1972 in Nuova Zelanda, seguito da analoghe organizzazioni in Europa (anche orientale) e nel Terzo Mondo (soprattutto in Brasile). In esse confluirono intellettuali e scienziati, associazioni di difesa della natura, frange dei movimenti della contestazione degli anni Sessanta, dando vita a una nuova generazione di partiti “leggeri”, aperti, partecipativi, che oltre alla tutela dell’ambiente e delle specie minacciate, perseguivano l’eguaglianza, soprattutto per le minoranze etniche, il disarmo, la democrazia diretta, la trasparenza e il controllo pubblico sugli obiettivi e sui connotati etici della ricerca scientifica, rifiutando la priorità del profitto, la supremazia del mercato e la separazione dello stato.
Agli albori dell’era nucleare, le conoscenze sulle conseguenze della radioattività, soprattutto gli effetti a lungo termine, erano relativamente limitate. Durante gli anni Cinquanta, decine di migliaia di militari statunitensi furono esposti a massicce dosi di radiazioni nel corso di esercitazioni ed esperimenti, riportando spesso danni irreparabili. Allo stesso modo, quando si prospettò la possibile utilizzazione dell’energia nucleare in campo civile, essa fu propagandata come una forma di energia pulita, che avrebbe evitato l’inquinamento prodotto dall’impiego di carbone e petrolio. In realtà, come si è saputo solo negli ultimi anni, già nel 1958 si verificò in URSS un incidente nucleare che portò alla contaminazione di una vasta zona a Celjabinsk. A partire dagli anni Settanta, la diffidenza dell’opinione pubblica occidentale verso le centrali nucleari crebbe considerevolmente, in parallelo alla nascita dei primi movimenti ecologisti. L’opposizione fu rafforzata dal primo serio incidente del quale si ebbe pubblica notizia in Occidente, quello verificatosi, nel 1979, alla centrale di Three Miles Island, in Pennsylvania. Un errore umano provocò una fuoriuscita limitata di radioattività che causò danni al personale della centrale ma, perlomeno ufficialmente, non creò problemi nell’area circostante. La popolazione fu, comunque, evacuata, suscitando forte allarme.
Ad aggravare il drammatico gap economico che separa i paesi più poveri del mondo dall’occidente industrializzato, la cui causa principale è senza dubbio il passato sfruttamento coloniale, hanno certamente contribuito anche i catastrofici fenomeni climatici e ambientali che distruggono le loro misere risorse alimentari. Molti paesi del Terzo Mondo, infatti, si trovano nella fascia intertropicale, caratterizzata tra l’altro da suoli lateritici estremamente fragili e poveri, dove la lotta contro le avverse condizioni geofisiche è una costante emergenza. Emblematiche in tal senso sono le gravi siccità che colpirono nel 1971-73 il Bangladesh e nel 1973-75 il Sahel, l’Etiopia e la Somalia. In particolare, la carestia ha causato nella regione etiopica del Wollo ben 400.000 vittime e ha provocato la rivolta militare che detronizzò l’imperatore Hailé Selassié. D’altro canto, è bene anche sottolineare che i danni provocati dalle inondazioni, o dai prolungati periodi di siccità, si sono moltiplicati in queste aree a causa delle irresponsabili politiche agricole iniziate dalle amministrazioni coloniali e proseguite dai governi nazionali. Questi non si curano né dei mezzi per controllare l’acqua e il suolo, e per edificare opere di canalizzazione e dighe di contenimento per il riassetto idrogeologico, né dell’agricoltura, se non nella misura in cui essa può contribuire a rifornire le casse statali, privilegiando i settori destinati all’esportazione (cacao, 70% della produzione mondiale ripartito tra Ghana, Costa d’Avorio e Uganda; arachidi, quasi esclusivamente prodotte in Senegal e Sudan; olio di palma e derivati, rispettivamente il 33 e il 50% della produzione mondiale in Africa; cotone, principalmente in Egitto).
Alla metà degli anni Settanta si assistette fra i giovani al declino del modello hippy e al trionfo di una nuova forma di contestazione che nacque nel 1976 in una boutique del centro di Londra di proprietà di Malcolm McLaren: il punk (un termine che nello slang londinese vuole dire “teppista”). Al contrario degli hippy, che avevano contestato la cultura e i modelli della società dei consumi proponendo l’ideale di un mondo liberato dalla violenza, senza più competizione economica, senza barriere razziali, discriminazioni di sesso e confini nazionali, i punk volevano testimoniare esclusivamente il loro totale disprezzo per la realtà che li circondava, senza prospettare alcuna alternativa. I “figli dei fiori” individuavano fiduciosamente nell’amore la forza in grado di operare una radicale trasformazione; per questo molti di loro, rompendo definitivamente con l’universo degli adulti, erano andati a vivere a stretto contatto con la terra e con i propri coetanei nelle “comuni”. I giovani della working class londinese, invece, che non percepivano alcuna possibilità di inserimento sociale a causa di una disoccupazione sempre più diffusa, iniziarono a vestirsi con t-shirt che sembravano essere state squarciate con il coltello e giubbotti e pantaloni di pelle.
La solarità hippy trapassava in un cupo pessimismo e lo slogan pacifista “fate l’amore, non fate la guerra” lasciava il passo all’inno di battaglia “no future”, l’urlo ribelle di una generazione che voleva soprattutto “ricambiare” il rifiuto di cui si sentiva oggetto, e che per questo voleva mostrarsi brutta, sporca e cattiva. Presero così piede le spille da balia al posto degli orecchini, i lucchetti tenuti al collo da una catena, i capelli alternativamente tagliati cortissimi e tinti di viola e blu, oppure rasati ai lati e raccolti al centro in una cresta alla “ultimo dei mohicani”.
La moda esplose definitivamente dopo che, il primo dicembre 1976, Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, un gruppo di quattro teen-ager reclutati da McLaren per suonare nel suo negozio, che eseguono un genere musicale rozzo e violento, irritato dalle maldestre prese in giro di Bill Grundy, conduttore del programma TV “Today” della BBC del quale il gruppo era ospite, sommerse quest’ultimo, in diretta, con una valanga di insulti. La stagione d’oro, tuttavia, fu di breve durata: pur restando un importante punto di riferimento per molti giovani, il punk già alla fine degli anni ‘70 lasciò il campo a nuove mode, che la maggior parte degli adolescenti avvertiva come meno inquietanti.
Il reggae non è stato solamente un genere musicale. Era l’espressione del “rastafarismo”, ossia di un’ideologia diffusa fra i figli degli emigrati di colore provenienti dai Caraibi, che si erano riversati negli anni Cinquanta e Sessanta nella madrepatria coloniale, la Gran Bretagna. Si trattava di un’ideologia che si ispirava all’ex imperatore dell’Etiopia Hailé Selassié, chiamato appunto Ras-Tafari, e a Marcus Garvey, il leader nazionalista nero nato in Giamaica, che nel primo Novecento aveva promosso negli Stati Uniti il movimento per il ritorno dei neri in Africa. Il rastafarismo identificava proprio nell’Etiopia la terra promessa dove tornare un giorno. A caratterizzare i “rasta” è un’acconciatura fatta di lunghe ciocche di capelli intrecciati in omaggio allo stile delle tribù dell’Africa orientale, e il berretto di lana denominato “tam”, di colore rosso, verde e oro, i colori dell’Etiopia. Ma accanto a questi segni esteriori che lo fanno individuare immediatamente, il “rasta” possiede una serie di principi morali: tra questi, lo studio della sofferenza umana, rigide norme dietetiche e il ruolo centrale attribuito alla marijuana, considerata l’“erba saggia”.
A scandire i ritmi delle giornate del rastafari è appunto il reggae, nato dalla fusione della musica folk giamaicana con il rhythm and blues americano. Dal 1974 il reggae divenne sinonimo di Bob Marley, dopo che il musicista nativo di Kingston incise il disco Catch a fire, diventando famoso in tutto il globo.
La diffusione del consumo di sostanze stupefacenti è uno dei fenomeni che ha caratterizzato le società industrializzate negli ultimi decenni del Novecento.
Fu a partire dalla fine degli anni Sessanta, dopo la guerra del Vietnam, che il consumo degli oppiacei e della cocaina acquistò una vera e propria dimensione di massa, in primo luogo tra gli adolescenti americani. Il commercio illegale delle droghe è talmente vasto, redditizio e difficilmente quantificabile, data la sua clandestinità, da rappresentare (secondo stime attendibili) uno dei più importanti mercati mondiali, quasi interamente gestito dalla criminalità organizzata che ne trae enormi profitti, riuscendo persino a condizionare l’offerta e quindi, in una certa misura, i consumi. Negli Stati Uniti attraverso la beat generation, le droghe cominciarono a farsi strada al di fuori dei ghetti e dei circoli chiusi dei musicisti jazz, per diventare poi una parte fondamentale della controcultura degli anni Sessanta. Per gli hippy e i loro seguaci gli allucinogeni come l’LSD o la mescalina erano il ponte verso stati alterati di coscienza che permettevano di entrare in comunicazione con parti ed energie nascoste di sé e del mondo circostante. Timothy Leary e Richard Alpert, due chimici e sperimentatori attivi dell’LSD all’università di Harvard divennero i maggiori profeti delle nuove droghe, diffondendo il loro messaggio di liberazione chimica delle energie mentali ai giovani americani della controcultura, e richiamando l’interesse di lucidi intellettuali di vecchia cultura europea come Ernst Jünger e osservatori attenti della realtà contemporanea come Aldous Huxley, attratti dalle nuove frontiere dell’esplorazione di sé. Affiancati da altri esponenti del movimento, Leary e Alpert divennero i guru di comunità alternative fondate sull’amore universale, sullo spiritualismo hippy e sul consumo di allucinogeni, mentre il movimento psichedelico divenne un elemento centrale della musica di massa e dell’arte figurativa sperimentale.
La “cultura della droga” restò un fenomeno minoritario, ma l’uso di stupefacenti divenne generale negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta, e si estese poi agli altri paesi occidentali, nonostante le politiche di fermo proibizionismo quasi ovunque in vigore. Se le droghe allucinogene della controcultura avevano espresso anche un desiderio creativo, la diffusione dell’eroina, della cocaina e di altre droghe fortemente tossiche negli anni successivi fu solo un tentativo di fuggire da un mondo di fronte al quale ci si sentiva impotenti o che si avvertiva come nemico. Le droghe “pesanti”, presenti in tutti gli strati sociali, si diffusero però soprattutto tra gli emarginati, mentre l’espansione di un enorme mercato illegale portò il commercio delle sostanze più redditizie sotto il controllo della criminalità organizzata, garantendole enormi profitti.
Gli anni Sessanta si concludono con la contestazione giovanile. Sul fronte politico il movimento mondiale rifluisce ma le sue conquiste su quello sociale e culturale proseguono senza sosta. Sono soprattutto i rapporti tra i sessi a uscirne rivoluzionati. Entra in crisi il pilastro del sistema sociale che fino a quel momento aveva retto il mondo: la famiglia.
Si comincia a concepire una vita autonoma fuori dal matrimonio. Tra il 1960 e il 1980 la percentuale di single rispetto alle famiglie cresce dal 12% al 22%. La liberazione dei costumi sessuali ha portato anche ad accettare, cosa impensabile fino a pochi anni prima, la procreazione fuori dal matrimonio. Un caso limite, ma indicativo della tendenza in atto, è la Svezia dove nel 1985 la metà delle nascite non ha avuto alle spalle un matrimonio.
La rivoluzione sessuale ha toccato anche le società più conformiste. In Italia, caratterizzata da una forte tradizione cattolica, il divorzio fu legalizzato nel 1970. Nel referendum del 1974 gli abrogazionisti furono sonoramente sconfitti. Lo stesso per l’aborto: autorizzato nel 1978, è confermato da un referendum nel 1981. D’altronde già nel 1971 in Italia era stata autorizzata la vendita di contraccettivi. Nel 1975 poi venne riformato il codice civile nella parte che disciplinava il diritto di famiglia e si introduceva una normativa basata sulla parità tra i sessi. Era possibile convivere senza sposarsi.
E’ stato soprattutto il movimento femminista a spingere nella direzione di una liberalizzazione dei costumi sessuali, che è poi soprattutto una liberazione della donna dal giogo di secoli di cultura maschilista e patriarcale. Nel 1973 Betty Friedan, fondatrice dell’American National Organization for Women, organizzò il primo congresso nazionale delle femministe. L’anno precedente, tuttavia, proprio il movimento femminista americano non era riuscito a far ratificare l’Equal Rights Amendament, che avrebbe riformato la Costituzione americana garantendo la parità tra i sessi.
Cambiarono, nel corso degli anni, anche gli obiettivi delle lotte delle donne. Apparvero le prime richieste per il “trattamento paritario” o “pari opportunità”, cioè l’annullamento delle differenze tra i sessi nell’accesso al lavoro e alla vita sociale: esigenze che riguardavano soprattutto il ceto borghese. Le donne della classe operaia avevano invece bisogno di tutela proprio in quanto “differenti” rispetto agli uomini. Un ripensamento divenne inevitabile; così, a piccoli passi, i movimenti femministi cominciarono a rivendicare interventi sociali che sancissero proprio il riconoscimento delle differenze, come la licenza di maternità o la creazione di asili nido pubblici. Nel frattempo le donne divennero un gruppo sociale visibile e riconosciuto, portatore fra l’altro di un grande consenso. Governi e partiti, soprattutto della sinistra, cercarono di integrare i movimenti femministi, facendo proprie alcune loro istanze. Ma il rapporto tra il femminismo e i movimenti politici più sensibili ad esso resterà sempre dinamico e spesso conflittuale.
Lo shock petrolifero causato dalla guerra del Kippur e la conseguente crisi economica che colpì tutto il mondo a metà degli anni Settanta influenzarono anche il mondo della moda. La recessione allontanava i consumatori dalla produzione tradizionale e poco economica delle sartorie e li spingeva verso l’abbigliamento industriale, più a buon mercato. Questo fenomeno costrinse anche le firme dell’alta moda a rivedere le proprie strategie, e a tentare la strada di un legame più stretto con la produzione in serie.
I primi a sperimentare questa novità furono alcuni esponenti della moda francese: Christian Dior, Yves Saint-Laurent e Chanel. Tra le firme italiane, la prima a uscire dal proprio ovattato atelier è quella di Capucci, che, nel 1977, dopo una collezione presentata a Roma, stipulò un contratto con la grande industria. Seguirono prontamente l’esempio numerosi altri nomi in vista dell’italian style, quali Valentino, Fendi e Gucci. Il sarto d’élite, dunque, si trasformava nello “stilista”; vale a dire in colui il quale non si limitava a lanciare un’idea, ma la produce o la fa produrre sulla base di intese imprenditoriali, seguendone la realizzazione e curandone il marketing.
Intorno alla metà degli anni Settanta, mentre l’alta moda e le sue grandi firme attraversano un delicato momento di riorganizzazione, una galassia di piccoli e medi produttori di moda “alternativa” viveva la sua stagione di gloria. Si trattava, per lo più, di giovani imprenditori, soprattutto italiani, che avevano iniziato quasi tutti a livello casalingo, e il cui successo trova la causa nell’aver dimensionato la propria attività alla situazione di recessione del mercato. In particolare, grazie a una maggiore snellezza e flessibilità nella struttura produttiva, che consentiva loro, a differenza della grande industria tessile, di adeguarsi facilmente agli umori e ai capricci della strada, erano in grado di approntare in pochi mesi collezioni in sintonia con le richieste del pubblico: è questo il mondo del prêt-à-porter, che elesse a propria capitale Milano e mirava a fare dei propri “marchi”, in analogia alle grandi firme degli stilisti, degli status symbol, anche se più a buon mercato.
Il 1978 è stato l’anno che ha visto la definitiva esplosione del prêt-à-porter ed ha anche segnato l’inizio di una stagione nella quale l’alta moda e tutta l’industria dell’abbigliamento presero a ispirarsi a temi del passato, seguendo, in questo, il gusto del pubblico che, dopo il trionfo negli anni precedenti di jeans e tessuti poco sofisticati, desiderava tornare ad uno stile più curato. A tornare in auge furono innanzitutto gli anni Quaranta e Cinquanta, con la loro compassata e rigorosa eleganza che prevedeva il ritorno di tutti quegli accessori considerati in precedenza anacronistici: gemelli, spille da colletto e fermacravatte per “lui”; cappelli, guanti e scarpe con tacchi a spillo per “lei”. In Francia il nuovo stile perbene venne battezzato B.C.B.G. (bon chic, bon genre).
Erano i primissimi anni Settanta quando Vivienne Westwood, giovane donna intelligente e anticonformista proveniente dalle zone industriali dell’Inghilterra del nord, aprì a Londra, al 430 di King’s Road, la boutique Let it Rock. Fu la prima uscita pubblica della coppia Westwood - Malcom McLaren, musicista trasversale, eccentrico animatore e futuro produttore illuminato del movimento giovanile del punk.
Tutto nel negozio aveva suggestioni anni Cinquanta: tra vecchi vinili “nostalgici”, Vivienne rielaborò personalmente giacche e pantaloni di raso dai tagli rigorosi attualizzandoli con citazioni ricche di senso: così nacquero le applicazioni in vinile, le bruciature di sigarette, i tagli ricuciti con spilloni a vista, le foto applicate. In un’escalation di successo tra i giovani di tendenza londinesi, la boutique cambiò il suo nome prima in Too Fast To Live, Too Young To Die, in seguito più esplicitamente in Sex. Glenn Matlock era il commesso, Steve Jones il migliore cliente. Insieme a Mc Laren organizzarono un’audizione a Johnny Rotten proprio dentro la boutique: nacquero i Sex Pistols. Da allora in poi le magliette con gli slogan di Mc Laren, le catene al collo, il body-piercing, i vestiti strappati e i capelli a cresta induriti con spray coloratissimi - sfoggiati in negozio dalla stessa Vivienne - divennero i segni caratteristici della rivoluzione punk.
Ma Vivienne non si fermò e ha cominciato a studiare i tagli e le strutture degli abiti del passato e nel 1981, quando ormai il fenomeno punk si era esaurito, ha sfilato in passerella la sua prima collezione dal titolo “Pirate”. Modelle sofisticate dall’alto di platform shoes vertiginose sfilavano con camice annodate in vita e maniche da moschettiere; la Westwood ha riproposto il modo di tagliare gli abiti del passato e scioccato l’establishment con il paradosso della moda controcorrente.
Gli ultimi anni si sono affermati come l’era dell’immagine e della comunicazione. La vita dei personaggi del jet-set, delle stelle del rock o dei rampolli delle antiche aristocrazie appassiona la gente della strada. Quel mondo di lustrini e serate di gala, di amori facili e liti furibonde ha suscitato sempre più interesse. Era inevitabile che l’informazione fosse allettata da un mercato che prometteva di raggiungere alte tirature. Le cronache mondane si ricavavano uno spazio sempre maggiore nei giornali, e spesso sono le pagine più lette e richieste.
La stampa si “specializzò”. In Inghilterra furono soprattutto i quotidiani a occuparsi del mondo del gossip. Giornali popolari come gli inglesi “The Sun” e “Daily Mirror” (che pur hanno orientamenti politici distinti, vicino ai laburisti il primo, più conservatore il secondo) vendono, tuttora, un numero di copie infinitamente superiore rispetto a testate autorevoli come “The Independent”. E’ una corsa allo scoop, alla fotografia rubata, allo scandalo a sfondo sessuale ad animare la competizione tra i giornali. E le vicende preferite dagli inglesi furono e sono senza dubbio quelle che riguardavano la casa reale.
In Italia la stampa scandalistica è invece periodica. Dapprima sono le donne ad essere fruitrici della fabbrica del pettegolezzo. Ma ben presto ai tradizionali settimanali femminili (“Oggi” e “Gente”) si affiancano pubblicazioni (“Novella 2000”, “Eva 3000” ecc.) che mirano allo scandalo purchessia. Poco importa se esso sia vero o solo una pura invenzione. Anche gli uomini diventano cultori della foto dell’attrice in spiaggia o del politico sorpreso in dolce compagnia all’uscita di un locale. I quotidiani finiscono per adattarsi. Tipico è il caso del “Messaggero”, da sempre attento ai gusti popolari, che pubblica ogni giorno due o tre pagine che raccontano le feste dei vip, fotograficamente documentate; e i lettori della capitale (il “Messaggero” è diffuso soprattutto a Roma) dimostrano di apprezzare.
In Europa, e soprattutto in Italia, acquisirono grande popolarità le telenovelas sudamericane, provenienti soprattutto dal Brasile, basate su lunghe quanto complicate vicende “familiari”, melodrammatiche, piene di buoni sentimenti, intrighi e un numero infinito di puntate.
Grande fu inoltre la popolarità delle soap opera statunitensi, con storie dalla trama simile a quella delle telenovelas ma con un modello di vita che finiva per essere quello da seguire e da imitare per i loro spettatori. Nell’Italia della fine degli anni ‘70 si imposero Dallas e Dynasty, il cui successo fu tale che i modi di fare e di vestire venivano imitati dai telespettatori.
Sempre dagli Stati Uniti provenne il grande successo di Happy Days - moltissimi adolescenti e giovani allora vestivano come Fonzie e imitavano i suoi modi di dire - trasposizione e idealizzazione della società americana degli anni Cinquanta, che aprì il lungo filone del telefilm americano, di costume e poliziesco, che avrebbe massicciamente invaso l’Europa negli anni Ottanta.
In Inghilterra il rock mutava frequentemente nella forme e nei contenuti. Alla fine degli anni Sessanta la risposta inglese agli show psichedelici d’oltre oceano fu la musica dei Pink Floyd, guidati dal poeta visionario e lunatico Syd Barrett. Anche loro proponevano viaggi onirici nelle sensazioni con canzoni che si aprivano a lunghe improvvisazioni strumentali, ed anticipavano il nuovo corso della musica inglese, la corrente definita progressive rock. Questa musica era segnata da lunghe parti strumentali in cui risaltava l’abilità tecnica dei musicisti che non erano più sprovveduti strimpellatori di chitarre ma specialisti del proprio strumento, stimolati dalle nuove possibilità che la tecnologia metteva a loro disposizione. A fianco alle chitarre elettriche, il cui suono poteva mutare grazie a nuovi effetti elettronici e distorsori, il progressive rock era segnato dal trionfo della tastiere elettroniche, i vari melloton, moog e sintetizzatori, che consentivano di avere in una tastiera le potenzialità ed i suoni di un’intera orchestra. Ciò diede vita ad una musicalità ricercata, in cui il rock si arricchiva di nuove sonorità, recuperando atmosfere anche dalla musica classica. Il grande successo per la band inglese arrivò negli anni Settanta, con l’album The dark side of the moon che sarebbe rimasto in classifica per moltissimi anni.
Il trio Emerson, Lake & Palmer, diretto dal tastierista Keith Emerson, che usava un immenso apparato composto da decine di tastiere, si confrontò con una pagina classica in Pictures at an exhibition, nel ‘71, che proponeva un efficace rilettura rock della famosa suite Tableaux d’une exposition composta dal russo Mussorgski.
Un’altra caratteristica del progressive rock era il ricorso, nei concerti, a sontuose messe in scena, con ambiziose scenografie, in cui venivano sistemati i numerosi strumenti di ogni gruppo. Le liriche delle loro canzoni erano ricche di suggestioni romantiche, di aperture al misticismo, di simbolismi e tradizioni popolari. Tra i gruppi di punta di questa scena si ricordano i King Crimson, diretti dal chitarrista Robert Fripp, alfieri di una musica intrisa di jazz e sperimentazione, gli Yes, innamorati di sagre nordeuropee e delle musica classica, i Genesis ed i Jethro Tull, il cui leader Ian Anderson ha assicurato un posto di rilievo per il flauto nel rock.
Alla fine degli anni Settanta, mentre si assisteva all’epilogo della stagione punk, fu un’inchiesta della rivista americana “New Yorker”, dal titolo “I riti tribali del sabato sera”, a segnalare in che direzione si stesse muovendo l’universo adolescenziale e giovanile. Secondo l’autore dell’articolo, il giornalista Nik Cohn, l’impegno politico stava divenendo sempre più marginale ed era destinato ad estinguersi, mentre lo stile “superficiale” e narcisistico dei giovani che andavano a ballare nelle discoteche era la nuova tendenza che si sarebbe affermata. Intorno al 1975-76, infatti, erano sorti un po’ ovunque negli USA nuovi ritrovi caratterizzati da luci stroboscopiche, specchi, piste da ballo con il soffitto ribassato e altoparlanti a pochi centimetri dalla testa, e due o più bar all’interno. Ma, soprattutto, la caratteristica di questi ritrovi era costituita dalla diffusione, a livelli assordanti, di un nuovo tipo di musica da ballo, la disco music, una commistione di tanti diversi generi, tutti uniti dalle nuove sonorità elettroniche.
Quasi per caso l’articolo venne letto da un produttore teatrale e cinematografico, Robert Stigwood, che decise di utilizzare lo spunto per realizzare un film. Il ruolo di protagonista della pellicola fu affidato a un giovane ventiduenne italoamericano, buon attore ma soprattutto provetto ballerino: John Travolta. Il film, Saturday Night Fever, che uscì nelle sale nel 1977, divenne il manifesto della nuova generazione tutta casa e discoteca, e John Travolta era il nuovo mito dei ragazzi e delle ragazze appassionati della “disco”.
Sulla scia del “travoltismo”, dunque, il ballo divenne il passatempo preferito dei pomeriggi e delle serate di molti adolescenti, che in esso vedevano uno strumento per appagare il proprio desiderio di “evadere” dalla realtà.
La musica d’oltreoceano più ascoltata nella seconda metà degli anni Settanta e per tutti i primi anni Ottanta sarà quindi la “disco”. Il successo del film Saturday Night Fever e delle canzoni dei Bee Gees fanno da traino agli album di artisti quali Gloria Gaynor, Barry White e la sensuale Donna Summer. Il bastione della produzione dance, che prende d’assalto le classifiche di tutto il mondo è Miami, e, in particolare, una piccola etichetta locale, la T.K. La “disco” nasce come un’evoluzione del rhythm’n blues e del soul, ma anche come una commistione di tanti altri diversi generi da ballo: il funky, il suono latino, la samba, la salsa e i nuovi suoni elettronici.
Tra il 1976 e il 1977 prende le mosse da Londra una nuova ondata musicale, la cosiddetta New Wave, che segna, per i teen-ager di tutto il mondo, una sorta di anno zero in fatto di rock e pop. L’esordio è di quelli che fanno scalpore; ne sono protagonisti quattro giovani della working class londinese, i Sex Pistols, i quali danno vita a un genere musicale rozzo, violento e con scarsa conoscenza delle sette note che diviene ben presto la colonna sonora del movimento punk.
Il punk di New York, che faceva capo al club CBGB, era rappresentato al meglio dalla poetessa e cantante Patti Smith. La Smith era l’erede della beat generation, dei poeti maledetti francesi, e rivelò nelle sue performance il carattere intellettuale ed elitario del punk newyorchese.
In Inghilterra, invece, il punk era l’esplosione rabbiosa del proletariato, era la violenza nei comportamenti e nel linguaggio, era il ricorso ad un look estremista fatto di abiti logori e strappati, di orecchie trafitte da fermagli e spilloni. Ugualmente violenti erano i concerti di questi gruppi e così il loro rapporto con il pubblico che scandalizzava i benpensanti. La loro musica è basata su riff di chitarre abrasive, su un continuum frenetico della batteria, su un canto veloce e concitato.
I Sex Pistols si imposero all’attenzione generale, nel 1976, con la canzone Anarchy In The U.K. Le liriche del brano erano esplicative: “sono un anticristo, sono un anarchico, non so cosa voglio, non so ciò che ho!”, ed il gruppo incarnava il senso di una generazione allo sbando, in un sentimento diffuso di autonichilismo che culminava nella scomparsa per overdose del bassista della band Sid Vicious. Altri gruppi di punta della scena inglese erano The Clash, i Damned e i Buzzcocks. Malgrado il suo messaggio distruttivo e senza speranza, il punk ha scosso e rivitalizzato il rock dalle fondamenta, ed ha indicato un nuovo corso per la musica nel valore ritrovato della canzone semplice e diretta.
La New Wave spopolò fra i teen-ager di tutto il mondo, che cominciarono a trascurare le sezioni dei negozi di dischi dedicate ai grandi gruppi del passato, anche recente, come i Beatles e i Pink Floyd.
Figura che attraversa tutti gli anni Settanta, e che rappresenta un punto di riferimento importante, è quella del cantante e musicista inglese David Bowie. Si impose come musicista nuovo ed originale, che cercava la sua identità nella confusione dei generi. La sua musica degli esordi era chiamata glam rock (rock dei lustrini), rock abbagliante, che catturava con il fascino degli abiti variopinti dei suoi cantanti, con le loro eccentriche performance che sempre di più assicuravano spettacolarità ad ogni concerto rock. Bowie affidava le sue canzoni ad un’immagine poco definita, androgina e dandy, truccato, pronto a cantare di avventure insolite, muovendosi in un’atmosfera languida e decadente. Bowie si appropriava delle teorie della Pop Art e diveniva egli stesso un oggetto Pop, pronto a cambiare di continuo, tanto d’abito e d’immagine, quanto nelle scelte sonore. La sua attività è iniziata dalle ballad malinconiche dei primi successi, The Rise And Fall Of Ziggy Stardust del 1972, per proseguire tra echi del beat e aperture alla musica da ballo sconfinando all’elettronica del disco Heroes, del 1977. Tra le numerose collaborazioni di Bowie è da segnalare, a metà degli anni Settanta, quella con il tastierista e compositore Brian Eno, uno dei punti di riferimento del rock degli ultimi anni. Anche Eno aveva esordito negli anni del glam rock, nel gruppo Roxy Music, e come Bowie era fedele ad un’immagine androgina, con lunghi capelli biondi e vestito con pellicce dai colori sgargianti.
Fin dai suoi inizi il rock aveva assimilato le musiche degli afroamericani: il rock and roll era nato rimodellando lo stile del rhythm’n’blues, ed afroamericani furono alcuni suoi primi eroi quali Chuck Berry e Little Richard. Negli anni dell’affermazione del rock nella comunità afroamericana si era definito un nuovo stile, il soul, che raccoglieva il messaggio elettrico e metropolitano del rock e lo confrontava con la tradizione musicale dei neri d’America. Il soul era una versione moderna e sanguigna del gospel, la musica che veniva eseguita in chiesa ed ebbe un ruolo fondamentale nella definizione di un’identità afroamericana. Alla popolarità del soul contribuirono le case discografiche, caratterizzate ognuna da sonorità differenti in grado di rendere riconoscibili i propri artisti all’istante. I marchi furono quelli dell’Atlantic, della Stax di Memphis, della Tamla Motown di Detroit, per i quali esordirono le nuove stelle della musica, i vari R. Charles, S. Cooke, A. Franklin, M. Gaye, O. Redding e S. Wonder.
Con la sua energia incontenibile, con i suoi messaggi diretti che infiammavano la sua gente un posto di rilievo spetta a J. Brown, il cantante che più segnò l’affermazione del black is beautiful. Brown fu soprannominato Mr. Dynamite per la vitalità delle sue performance, fatte di danze isteriche che spesso, alla fine del concerto, culminavano nella simulazione di un infarto. I testi delle sue canzoni parlavano di sesso ed orgoglio di razza, come nel cruciale Say it loud I am black and proud (dillo forte sono nero ed orgoglioso) del 1968. Brown definì un nuovo clima sonoro, torrido, denso di energia funky, incrociando riff di chitarra al suono poderoso delle sua sezione di fiati, sfornando una serie di successi irresistibili, come Sex Machine nel 1970, Get On The Good Foot nel ‘72, impossibili da ascoltare rimanendo seduti. Un tributo alle sonorità di questi geniali artisti menzionati sopra, fu il film The Blues Brothers, in cui si ritrovano quasi tutte le canzoni più famose del decennio, interpretate dagli stessi musicisti che le avevano rese popolari.
Una selva musicale misteriosa ed elettronica, pulsante di ritmo e sonorità inedite era espressa dal disco Bitches Brew, l’album con cui il trombettista Miles Davis rivoluzionò il mondo del jazz nel 1969. Davis aveva esordito di fianco a Charlie Parker negli anni del be-bop, e da allora la sua musica era in costante divenire, pronta a catturare lo spirito dei tempi. Bitches Brew indicò una contaminazione tra jazz e rock, e testimoniava l’interesse di Miles Davis per la musica di James Brown e Jimi Hendrix, la cui energia era evocata nei solchi del disco. Grazie alle più aggiornate ed evolute tecniche di registrazione, Davis definiva un nuovo sentiero sonoro in cui lo avrebbero seguito tanti colleghi più giovani. Bitches Brew fu un disco epocale e permise a Miles Davis di approdare nei grandi templi del rock, come il Fillmore East di New York. L’opera di Miles diede il via al movimento jazz rock, in cui lo seguirono alcuni dei suoi ex collaboratori. Il sassofonista Wayne Shorter ed il tastierista Joe Zawinul crearono il gruppo Weather Report, il chitarrista John McLaughlin fondò la Mahavishnu Orchestra, il pianista Herbie Hancock il gruppo Headhunters, accomunati dall’uso di strumenti elettrici e dal ricorso ad una scansione ritmica vicina a quella del rock. Questo primo capitolo di un’originale ricerca sonora sfociò successivamente nella fusion, segnata dall’uso di ritmi marcati e funk, che edulcoravano il clima sperimentale del primo jazz rock. Ma anche in questo periodo Davis mostrò tutto il suo valore, suonando splendidamente anche nell’ultima parte della sua carriera.
Il boom economico degli anni ‘60 si riflette anche nella diffusione sempre maggiore di alcuni sport, fino ad allora rimasti d’élite: nel decennio seguente si affermarono, in particolare, il tennis e lo sci.
Nonostante il tennis fosse già conosciuto e praticato in tutti i continenti, la costruzione di molte strutture dove imparare a giocarlo e la televisione, che ne trasmetteva gli incontri più spettacolari, lo resero uno sport popolare. Giovani e adulti cominciarono a giocare con la speranza di emulare le gesta dei grandi campioni – Connors, Borg, McEnroe, Evert –, per cui si “adottava” lo stile di gioco di un campione scegliendo di essere degli attaccanti “serve and voley” o più semplicemente dei “pallettari” da fondo campo. Ma anche ci si vestiva come il proprio beniamino, si acquistava la stessa racchetta o se ne imitavano certi particolari gesti sul campo di gioco.
Un discorso simile può essere fatto per lo sci: anche tale sport era assai conosciuto e diffuso in tutte le parti del globo là dove esistevano montagne. Ma l’alto costo dell’attrezzatura e del vestiario necessario per praticarlo ne avevano limitato la possibilità di fruizione specialmente da parte dei giovani; inoltre era difficile raggiungere alcune località sciistiche mentre altre avevano poche piste a disposizione per gli sciatori. Ancora una volta, il benessere economico accumulato nei decenni precedenti, permise la crescita impetuosa di questo sport proprio nel momento in cui si affermava la crisi economica internazionale degli anni ‘70. Interi villaggi furono progettati e costruiti a ridosso di antichi borghi o sperduti paesi in alta quota, molti impianti di risalita furono installati sui pendii delle montagne e, in pratica, nacque una vera e propria industria degli sport invernali che andava incontro ai desideri di famiglie e classi scolastiche che cominciarono ad organizzare la “settimana bianca”. Tutti ricordano i nomi di Stenmark, Klammer e dei principali componenti della “valanga azzurra”, Thoeni e Gross. Anche in questo caso si formavano schiere di seguaci che cercavano di adottare lo stesso stile di sciata, gli stessi sci, le medesime tute del proprio campione.
Gli anni Settanta videro irrompere la politica nello sport. A Monaco di Baviera, sotto gli occhi di tutto il mondo, mentre si stavano disputando i giochi olimpici, il 5 settembre dei terroristi arabi si infiltrarono nel villaggio olimpico, uccisero due atleti della delegazione israeliana e sequestrarono nove membri della stessa squadra olimpica. La tensione salì alle stelle. Le trattative durarono 21 ore. I terroristi chiedevano la liberazione di loro compagni imprigionati in Israele. All’aeroporto, un tentativo maldestro di liberazione degli ostaggi da parte della polizia tedesca degenerò in un conflitto a fuoco nel quale morirono i nove ostaggi e cinque guerriglieri palestinesi. Il mondo intero restò scosso. Ma la scia di sangue si trascinò ancora per molti anni.
Anche le olimpiadi di Montreal del 1976 videro la presenza della politica nello sport, sebbene in modo meno tragico di come a Monaco quattro anni prima. Infatti, i paesi africani decisero di boicottare i giochi olimpici, visto che il Canada aveva permesso agli atleti della Rodesia, paese che discriminava la popolazione di colore, di partecipare ai giochi. Il boicottaggio dei paesi africani aprì la stagione dei boicottaggi, che sarebbe continuata anche con le olimpiadi del 1980 e del 1984, e coinvolse anche altri grandi avvenimenti quali i mondiali di calcio, come nel caso della Coppa del mondo organizzata nel 1978 in Argentina.
L’impresa sportiva forse più rilevante del decennio è stata quella che vide protagonista un nuotatore americano: Mark Spitz. Egli riuscì a conquistare ben sette medaglie d’oro alle olimpiadi di Monaco, un’impresa che nessun altro atleta ha mai potuto pareggiare o battere.
Negli anni ‘70, il calcio restava di gran lunga la principale passione collettiva: per la facilità di giocare ovunque, per la semplicità delle regole, lo sport era in vigore in tutti i continenti e i Mondiali del 1970 e del 1974 videro alcune partite considerate, ancora oggi, fra le più belle e avvincenti del secolo: una soprattutto, la semifinale Italia-Germania Ovest, giocata allo Stadio Azteca di Città del Messico, è restata scolpita nell’immaginario collettivo di intere generazioni di sportivi e non solo. Un’altra grande sfida fu la finale del ‘74 che vide di fronte la squadra forse più forte del decennio, l’Olanda, contro la Germania Ovest che alla fine risultò vincitrice. Anche ai mondiali del ‘78, svolti in Argentina, la squadra olandese raggiunse la finale ma, ancora una volta, fu sconfitta dai padroni di casa. All’inizio degli anni ‘70 proprio la squadra olandese si fece promotrice di una nuova impostazione di gioco detta del “calcio totale”: i giocatori si tenevano molto vicini l’uno all’altro e seguivano complessivamente l’azione attuando una specie di pressing, quando erano in difesa, e aprendosi su tutto il fronte dell’attacco, con sovrapposizioni di terzini e ali, quando la squadra si portava in attacco. Il profeta di questo nuovo verbo calcistico si chiamava Johan Crujff, atleta dotato tatticamente e fisicamente: alcune sue azioni, alcuni suoi gol restano un esempio di questo nuovo modulo.
Le trasformazioni radicali che colpiscono la società alla fine degli anni ‘60, si riflettono nel mondo dell’arte, generando dei profondi mutamenti che investono il senso stesso della sua esistenza. La domanda potente di libertà e d’uguaglianza, che sfocia nei rivolgimenti del ‘68, coinvolge anche la figura dell’artista: il superamento di una posizione strettamente individuale lo porta a riaffermare un rapporto con le strutture conoscitive e partecipative del pubblico.
Joseph Beuys, uno degli artisti europei più rappresentativi degli anni Sessanta e Settanta - aveva partecipato a Fluxus - parla addirittura di un “concetto” ampliato dell’arte, riuscendo a sintetizzare con questa formula il significato delle nuove ricerche estetiche: l’arte si estende e si concentra in se stessa allo stesso tempo. Diventa concetto perché s’interroga con profonda chiarezza teorica sui propri fondamenti e sul processo di pensiero che la determina. Si amplia perché si apre a nuovi ambiti estetici che coinvolgono inconsuete dimensioni spazio-temporali, compreso quella del corpo stesso dell’artista.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, soprattutto in America, si è generata un’attitudine a ridurre l’opera ai suoi termini essenziali. Semplicità, chiarezza e razionalità sono le parole d’ordine da opporre al frastuono dell’arte Pop. Questa tendenza alla riduzione è messa in atto dalla Minimal Art e si svilupperà in breve tempo a livello internazionale, assumendo aspetti e caratteri diversificati. Il movimento italiano dell’Arte Povera risponde per molti versi a quest’esigenza di riduzione, ma in pochi anni le esperienze si diversificano in modo tale da non consentire un profilo unitario del gruppo. Tale difficoltà diventa una testimonianza del clima di ribellione e di trasgressione proprio di questo periodo storico. L’attenzione alla fase della progettazione dell’opera d’arte, e al processo della sua percezione, messa in atto dalla Minimal Art, porterà alla perdita dell’opera in quanto oggetto artistico.
La tendenza alla riduzione dell’opera si esprime anche in un’altra corrente artistica che si manifesta alla fine degli anni ‘60: l’arte concettuale. Gli artisti concettuali hanno condotto ad uno spostamento del valore dell’opera dall’aspetto materiale ed esecutivo a quello progettuale. Tracce e testimonianze del loro lavoro si sono sostituite ai quadri e alle sculture: progetti, fotografie, documenti filmati e appunti sono subentrati al loro posto. La materia dell’arte diventa così il concetto, mentre lo studio dell’artista si trasforma sempre più in un ufficio. Non più costretta a calarsi in una forma precisa l’arte si espande in ogni settore del privato e del collettivo: il suo campo d’azione diventa il corpo stesso dell’artista, il suo comportamento, così come l’ambiente, il territorio e ogni aspetto del sociale.
Nella primavera del ‘66 con la mostra Primary Structures allo Jewish Museum di New York è presentata una nuova corrente artistica: la Minimal Art. Con questa formula si designa un’area di ricerca artistica abbastanza ampia e variegata che, insieme alla Pop art, caratterizza e contraddistingue l’arte americana alla metà degli anni Sessanta, ma che prosegue negli anni ‘70 e nel periodo successivo. La definizione fu coniata nel 1965 dal noto filosofo inglese Richard Wolheim sulla rivista “Arts Magazine” per indicare le ricerche di quegli artisti che, in contrapposizione con l’espressionismo astratto, tendevano ad azzerare mezzi espressivi individuali e a produrre opere della massima essenzialità e freddezza. Artisti come gli americani Donal Judd, Dan Flavin, Tony Smith, Carl Andre, Robert Morris, Sol Lewitt, Walter De Maria e gli inglesi Anthony Caro, William Tucker, Philip King e Richard Smith si servirono per le loro sculture di oggetti, materiali grezzi, strutture geometriche con il fine di privilegiare una fattura impersonale basata sulla semplicità esecutiva. Ricordiamo le strutture di legno grezzo di Andre, i tubi fluorescenti che creano ambienti di luce e colore di Flavin e le combinazioni di Lewitt dove il cubo diventa l’elemento basilare. Sebbene questi artisti, le cui opere sono contraddistinte da espressioni differenti ed eterogenee, non si siano mai riconosciuti nell’etichetta onnicomprensiva Minimal Art, tuttavia mostrano nelle loro opere caratteristiche comuni: la predilezione per le forme squadrate e i solidi geometrici, la scomparsa della base o del piedistallo della scultura, l’estrema semplicità formale, il frequente ricorso ad elementi modulari standard, la tendenza a realizzare le forme in scala gigante in modo da occupare tutto lo spazio o da annullarlo, la preferenza per l’uso di materiali di tipo industriali, il far coincidere il colore con quello dei materiali. Sovente questi artisti hanno realizzato strutture modulari, ossia strutture-sculture costituite da elementi componibili riproposti in maniera seriale, o basate su rapporti numerici e calcoli matematici. L’arte minimalista si caratterizza inoltre per la scomparsa della rappresentazione e l’assenza di qualsiasi significato simbolico.
Parallelamente alla Primary Structures aveva luogo, al Guggenheim Museum di New York, la mostra Systematic Painting che presentava al vasto pubblico la corrispondente tendenza minimale in pittura. L’esposizione, organizzata nel 1966 da Lawrence Alloway, voleva chiarire le analogie tra la ricerca pittorica e quella del minimalismo plastico. La stretta connessione apparve evidente: era in atto in pittura un processo di radicale riduzione degli elementi pittorici e una tendenza a sviluppare un’analisi sui propri materiali e sul processo del proprio fare. Punti di riferimento per la generazione degli artisti americani, che iniziò a lavorare negli anni Sessanta, erano le opere di Newman e di Reinhardt di cui si faceva una lettura in chiave riduzionista. L’artista che per primo si avvicinò alle problematiche minimaliste, già dal 1958, fu Frank Stella con i suoi quadri a strisce che negano allo spettatore l’accesso ad una dimensione interiore. La dichiarazione che i suoi quadri erano basati sul fatto che “in essi esisteva solo ciò che si può vedere” dava voce a quello che sarebbe stato un tema dominante della Minimal Art. I due pittori più significativi della tendenza della pittura minimalista sono Agnes Martin e Robert Ryman. La prima dipinge superfici quadrate monocrome, ricoperte di una griglia finissima disegnata a matita che crea un effetto di smaterializzazione del quadro. Il secondo esegue, già dal 1960, quadri monocromi bianchi, su tela o su lastre d’acciaio, portando alle estreme conseguenze il processo minimale di fare pittura: i suoi quadri si distinguono dal modo in cui viene usato il pennello per l’ampiezza e la dimensione delle pennellate, sono quindi solo impercettibilmente diversi uno dall’altro.
In Francia una ricerca di carattere riduzionista viene avviata nel 1967 dal “gruppo” BMPT (Buren, Mosset, Parmentier, Toroni). L’attività comune durerà solo un anno, in seguito ognuno di loro continuerà la propria ricerca in linea con i presupposti iniziali.
L’appellativo Process Art non è mai stato realmente rappresentativo di una corrente artistica precisa. Sono piuttosto i caratteri della ricerca post-minimalista, che si sviluppa a partire dal 1967 negli Stati Uniti contemporaneamente all’Arte Povera europea, a prendere il nome di process art o antiform. Queste caratteristiche sono: il rifiuto di una forma oggettuale rigida e statica; l’esaltazione dell’espressività primaria dei materiali e delle loro proprietà fisiche (peso, durezza, leggerezza, fluidità, luminosità ecc.); il dare importanza al processo di realizzazione piuttosto che all’idea; l’elaborazione di una processualità aperta nel senso che l’opera è sottoposta a cambiamenti dovuti alle dimensioni spazio–temporali. Le sculture Assemblages autostabili di Richard Serra sono esemplificative di questi caratteri: le grandi lastre di ferro sono appoggiate le une sulle e contro le altre, le placche si mantengono grazie al loro peso e alla loro resistenza. Sfruttando le specifiche proprietà fisiche dei materiali e la forza di gravità, attirano l’attenzione sul processo necessario alla loro realizzazione. L’artista tedesca immigrata negli Stati Uniti, Eva Hesse, fin dal 1966, lavora materiali malleabili e flosci che si deformano facilmente per realizzare opere che hanno valenze organiche ed erotiche; spesso i suoi lavori conservano traccia dei gesti che l’artista ha compiuto. Anche Robert Morris si dichiarò per una scultura priva di forma precisa o la cui forma potesse variare nel tempo.
Nel 1968, diversi artisti, di cui molti esponenti del minimalismo, parteciparono, a New York, ad una rassegna di interventi sul territorio intitolata Earth Works; le azioni artistiche filmate dal gallerista Gerry Schum furono chiamate Land Art. Quest’indirizzo artistico era teso alla realizzazione di enormi opere ambientali che hanno imposto delle variazioni a volte durature e rilevanti a un territorio. Lo sviluppo maggiore e più spettacolare si ebbe negli Stati Uniti dove molti artisti sono affascinati dagli immensi spazi incontaminati come i deserti, i laghi salati, i canyon. Il recupero del “sublime naturale” attraverso il mito della dominazione del caos originale, e la riscoperta dei modelli delle culture arcaiche (cerchi magici, labirinti), anche in opposizione alla fredda monumentalità delle città, rappresentano alcuni aspetti precipui di tale poetica. Gli artisti di questo movimento portarono l’arte fuori dei suoi limiti tradizionali, al di fuori dei luoghi e dei mezzi abituali di creazione, d’intervento e d’esposizione; dietro queste operazioni si celava naturalmente un intento polemico mirante a denunciare la mercificazione dell’opera d’arte. Terra, sabbia, rocce, ghiaia, catrame sono i materiali-strumenti che i minimalisti utilizzavano per realizzare le loro opere che erano finalizzate a creare delle “modificazioni ambientali” e non ad essere installate nella natura. Intraprendere un’opera di questo tipo poteva avere dei costi altissimi e portare pochi profitti poiché l’unico modo per recuperare del denaro era vendere materiale con quotazione minore, come fotografie o schizzi del progetto. Non solo: spesso le opere erano di così scarsa visibilità, così isolate e irraggiungibili che rischiavano di non essere viste da nessuno se non dall’autore e di deperire per le condizioni meteorologiche, abbastanza velocemente. Tra gli interventi più famosi ricordiamo quello di Michel Heizer che dal 1969 al 1971 realizzò Double Negative: una lunga linea disegnata nel paesaggio del Virgin River Mesa nel Nevada, vale a dire una passerella che in parte si incunea nel terreno roccioso e in parte sbalza fuori di esso; il capolavoro di Walter de Maria è Lightning Field, in pieno deserto nel Nuovo-Messico vennero piantati in un campo incolto quattrocento pali di acciaio di sei metri di altezza che rilucevano al sole ed attiravano i fulmini durante i temporali; sono da annoverare, inoltre, le famose impacchettature di luoghi naturali realizzate da Christo. Ma l’artista americano più autorevole del movimento è Robert Smithson del quale ricordiamo Spiral Jetty, realizzata nel 1970. Anche artisti europei (come l’inglese Richard Long) non strettamente catalogabili nella Land Art, hanno incentrato il loro lavoro sul tema della relazione con l’ambiente, ad esempio nell’opera Inghilterra (1967).
Un’alternativa alla replica iconografica della Pop art consistette nell’eliminazione della realizzazione artistica stessa. Ciò fu quanto teorizzato, alla fine degli anni Sessanta, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dai “concettualisti”, promotori di un’arte che si esprimesse senza oggettivarsi, esaurendosi nella sua concezione teorica, nell’idea. Tale eliminazione prese forme diverse: la pubblicazione di ricerche teoriche e di cataloghi di mostre che sostituivano le mostre stesse, o la realizzazione di opere prive di soggetto. Il concettualismo, che evidenziava anch’esso, come il New Dada, influenze di derivazione duchampiana, ebbe vita relativamente breve sul piano strettamente teorico, ma la crisi dell’oggetto artistico ha continuato ad essere uno dei temi fondamentali nelle elaborazioni degli ultimi trenta anni.
In Inghilterra è coniato il termine di “arte concettuale” dal gruppo di “Art Language”, con riferimento all’opera del pittore e teorico Joseph Kosuth che concepisce l’arte come idea, come prodotto della dimensione mentale e non come manufatto. Una delle sue opere più conosciute, One and three chairs del ‘65, costituisce un esempio della ricerca concettuale in cui tutto è risolto nell’oggetto e nella sua definizione: il significato dell’opera si risolve nel rapporto di similitudine, ma anche di differenza, tra una vera sedia, una sua fotografia e la sua definizione tratta dal vocabolario.
Padre riconosciuto di questa tendenza artistica è Marcel Duchamp ma il primo artista a valersi della definizione Conceptual Art fu Sol Lewitt nel testo teorico Paragraphs on conceptual Art da cui si deduce che l’idea, o il concetto, è più importante della realizzazione materiale dell’opera. Questo trasforma totalmente il concetto di oggetto artistico: dalla presenza fisica dell’oggetto si passa a un’operazione mentale che può fare a meno di oggettivarsi. L’opera può essere ridotta a un progetto o anche solo a un comportamento, a un atto, l’aspetto esecutivo diventa del tutto secondario. Iniziano così ad essere esibite delle “tracce di opere” sotto forma di pubblicazioni, documentazioni, catalogazione di materiali scritti e fotografici. L’artista inizierà a parlare di proposizioni secondo definizioni legate alla logica matematica. La critica ha manifestato reazioni molto dure alle prime iniziative pubbliche del movimento parlando di “mistificazione collettiva”. All’opposto altri critici, nel 1968, inneggiarono alla nascita di un’arte che perdeva interesse nei confronti dell’evoluzione dell’oggetto fisico. Joseph Kosuth è l’artista paradigmatico di questa tendenza. Egli ha affermato in Arts Language del 1970 che l’arte è concettuale in quanto basata sulle strutture linguistiche delle proposizioni artistiche, gli artisti quindi non lavorano più sulle forme ma sui significati, elaborano e sviscerano tutte le implicazioni di tutti gli aspetti del concetto/arte. Oltre a Kosuth, i primi artisti ad essere definiti dalla critica concettuali sono stati gli americani Burgin, Barry, il tedesco Beuys, il gruppo inglese facente capo alla rivista “Art Language” (Atkinson, Bainbridge, Baldwin e Hurrel), il polacco Opalka, il giapponese On Kawara i francesi del “gruppo” BMPT (Buren, Mosset, Parmentier, Toroni).
In Italia l’arte concettuale trova un precursore in Manzoni, e negli anni Sessanta e Settanta molti lavori di artisti dell’Arte Povera rientreranno in una sfera concettuale. In particolare Giulio Paolini e Gino De Dominicis fanno parte di quegli artisti che riflettono, attraverso l’arte, sull’arte stessa.
Alla fine degli anni Sessanta il termine concettuale ha incominciato a divenire una definizione capace di dilatarsi per accogliere tutti quei movimenti che partivano dal presupposto che l’installazione, l’opera, la messa in scena del corpo (Body Art) o della natura dovessero essere veicolate da un concetto. Una miriade di movimenti o di gruppi sperimentali - Process Art, Eccentric Art, Arte Povera, Body Art, Land Art, Fluxus, Performance Art - trovarono in questo periodo di sconvolgimento dei valori artistici, un punto d’incontro teorico, politico e ideologico nell’arte concettuale.
La Narrative Art è una tendenza internazionale dei primi anni Settanta che rientra a pieno titolo nell’ambito dell’arte concettuale, ma che privilegia, al di là dell’analisi linguistica, altri aspetti della ricerca estetica: l’attenzione è rivolta, infatti, ad una riflessione intimista che coinvolge la vita stessa dell’artista. L’opera d’arte diviene quasi autobiografia. La Narrative Art utilizza la combinazione di testi scritti e immagini fotografiche, spesso in sequenza, per mettere in scena temi minimalisti sulla vita quotidiana spesso autobiografica. Due mostre allestite alla John Gibson Gallery di New York sanciscono la nascita di questa tendenza “Story” nel 1973 e “Narrative” nel 1974. Tra gli artisti che vi parteciparono ricordiamo John Baldessari, Bill Beckley, i francesi Jean Le Gac e Christian Boltansky. Il lavoro di quest’ultimo è caratterizzato da una reinterpretazione del proprio passato e da un voyeurismo verso la vita altrui. Mosso dal presupposto che tutte le infanzie somiglino alla sua, inizia il lavoro fotografico 62 Membri del Club Mickey nel 1955. Dall’inizio degli anni Settanta cataloga la totalità degli oggetti appartenuti ad una persona, realizzando un vero e proprio inventario che espone nei musei in scatole di cartone etichettate con le fotografie, e disposte in mensole metalliche illuminate da candele elettriche. Molti altri autori partono da una riflessione esistenziale per arrivare ad un lavoro concettuale, tra questi il polacco Roman Opalka e il giapponese On Kawara. Quest’ultimo ha spedito ogni giorno, dal 1968, ad amici, cartoline con indicazioni banali sulla propria condizione di esistenza: la serie delle cartoline raccolte insieme forma un lavoro concettuale sulla problematica del tempo dell’artista.
La definizione Arte Povera fu coniata dal critico Germano Celant nel settembre 1967 in occasione di una mostra alla Galleria La Bertesca nella quale riuniva alcuni artisti italiani tra cui Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Paolini, Penone, Pistoi, Marisa e Mario Merz, Kounellis, Pascali, Pistoletto, Prini, Zorio. L’accostamento di questi artisti era giustificato dal fatto che usavano, seppure con modalità visive differenti, materiali non legati alla tradizione dell’arte, come legno, carta, brandelli di stoffa, gesso, pietre, paglia ed elementi primari come terra, acqua, fuoco. Attraverso la totale eliminazione dell’inutile e del superfluo essi tentano un recupero dell’essenziale attraverso i quattro elementi della natura, giungendo in questo modo ad attuare una contaminazione dell’arte con la vita quotidiana. I loro lavori dimostravano, secondo Celant, una tendenza generale all’impoverimento e alla decultura dell’arte: il materiale era esaltato senza subire metamorfosi in maniera radicale, per il suo carattere empirico e non speculativo. Il desiderio di combattere convenzioni e poteri costituiti nel campo dell’arte fu precisato da Celant nel testo programmatico Arte Povera. Note per una guerriglia, pubblicato sulla rivista “Flash Art” nel dicembre del 1967: “L’importante era di corrodere, incidere, infrangere. Tentare una scomposizione del regime culturale imposto”. Dal 1967 al 1972 si alternano mostre personali dei protagonisti dell’Arte Povera alle gallerie torinesi Sperone e Christian Stein e nello spazio autogestito Deposito d’arte Presente, nonché negli spazi romani delle gallerie Attico e la Tartaruga. Spesso la mostra consisteva in un’“azione povera”, che si presentava e si consumava davanti allo spettatore, rivelando aspetti cui di solito non si mostra attenzione. Il repertorio delle opere e delle azioni è variamente articolato e comporta un mutamento dell’esperienza di chi osserva. Tra i gesti più eclatanti ricordiamo quello di Kounellis che portò dodici cavalli nella galleria Attico a Roma: una maniera per mettere in relazione lo spazio dell’arte con quello naturale degli animali. Di Pistoletto ricordiamo la Venere degli stracci che rappresenta un caso di contrapposizione tra ordine classico e disordine contemporaneo. A partire dal 1972, i percorsi degli artisti si diversificarono tanto da non rendere più possibile alcuna definizione comune del loro lavoro.
La tendenza della pittura e della scultura detta iperrealismo o Scharp Focus Realism, emerse nei primi anni Settanta negli Stati Uniti e fu consacrata ufficialmente nella rassegna Documenta 5 del 1972. Attraverso l’uso della fotografia e del calco, gli artisti cercano di raggiungere “il vero più vero del vero”. Gli artisti di questo movimento si rifiutarono di interpretare la realtà e preferirono offrirne una riproduzione meccanica senza alcun intento ironico e neppure critico nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa. Era quindi esaltata, con fredda precisione, l’immagine in quanto rappresentazione ottica, riflesso speculare della realtà. L’oggetto della pittura non è la realtà ma l’immagine fotografica: la pittura sembra sfidare la fotografia sul suo stesso terreno per scoprire l’impossibilità di andare in pittura al di là della rappresentazione illusoria. Nell’approccio riflessivo degli artisti più interessanti di questo movimento, si scoprono difatti assonanze con il minimalismo o l’arte concettuale. I tratti stilistici che identificano i quadri iperrealisti sono l’estrema precisione della rappresentazione, i colori saturi e brillanti più che nella realtà, e la predilezione per le superfici riflettenti. L’americano Malcom Morley è stato uno degli iniziatori dell’iperrealismo con le sue immagini tratte da fotografie di viaggi turistici e crociere, i lavori di Alex Coville sono legati a temi della vita quotidiana. Di grande effetto sono le sculture di John De Andrea, figure umane realizzate in materiali plastici, poliestere a grandezza naturale, replicanti bloccati in pose naturali. Le sculture di Duane Hanson sono manichini vestiti e dipinti che rappresentano atteggiamenti comuni: donna delle pulizie, uomo che legge il giornale, turisti (Turisti, 1970).
La cosiddetta Body Art comprende tutte quelle ricerche di artisti che usano il corpo come materia espressiva. I riferimenti e gli antecedenti culturali di quest’arte vanno dalla pratica del tatuaggio delle culture primitive alla vitalità del panorama teatrale degli anni Sessanta e Settanta con le rappresentazioni del Living Theatre, le regie di Peter Brook, il teatro povero di Grotowsky, le performance di Meredith Monk e di Laurie Anderson che agivano al confine tra musica, teatro e arti visive. Alcuni atti che possiamo individuare come precursori della Body Art sono “la tosatura” di Marcel Duchamp, nel 1919, la Scultura vivente di Manzoni (1961) e le Anthropométries con “pennelli vivi” di Klein (1962). Anche molti degli artisti Fluxus nei loro happening raggiunsero effetti legati alla persona fisica dell’artista. La differenza fondamentale che distingue la Body Art è che il corpo non è solo esibito come opera ma modificato. E’ evidente che la diffusione della Body Art è resa possibile dalla società più permissiva e dalla “liberazione” e rivalutazione del corpo. Opere d’arte divengono eventi minimi, banali o poco significativi che riguardano la sfera strettamente privata dell’individuo. Si esibiscono radiografie, registrazioni vocali, si mostrano travestimenti e trasformazioni del corpo (Urs Lüthi); si realizzano performance e video che insistono su aspetti di autoindagine corporale (Vito Acconci; Dennis Oppenheim); video di azioni ironiche o di situazioni assurde che sfigurano il corpo (Bruce Nauman) messinscene di esperienze violente fino ai limiti della sofferenza (Gina Pane; Chris Burden; Abramovic, Ulay); azioni che mirano a indagare i rapporti tra sé e l’altro (Marina Abramovic, Ulay, Acconci). Un caso a parte è rappresentato da Hermann Nitsch, che arrivò a compiere azioni sado–masochiste e violente all’interno del gruppo Azionisti Viennesi e del “teatro della crudeltà”. Al polo opposto, rispetto a queste esperienze estreme, si trova la coppia di artisti inglesi Gilbert & George. La loro ricerca è caratterizzata da una straordinaria carica ironica da un estetismo paradossale, da humour. Anziché identificare l’arte alla vita, i due identificano la vita con l’arte: tutta la loro esistenza è proposta come scultura vivente, ogni situazione della vita quotidiana diventa “living sculpture”.
Negli anni ‘60 il dibattito culturale architettonico giunse ad una svolta decisiva. Le rigide codificazioni del razionalismo, già minate dall’epilogo “manierista” dell’International Style, non erano in grado di soddisfare le esigenze di una società che allargava velocemente i propri confini ed orientava ottimisticamente le proprie energie alla conquista del futuro. I mass-media trasmettevano contemporaneamente, in tutto il mondo, le immagini dei primi astronauti alla “conquista” della luna, nutrendo negli eccitati spettatori l’entusiasmo per le potenzialità dei calcolatori elettronici, degli ordigni spaziali, della cibernetica. Anche sulle riflessioni architettoniche l’eccezionalità degli avvenimenti ebbe un effetto “esplosivo” generando il desiderio di una “nuova dimensione”, che si manifestò tanto nel mito dell’utopia metropolitana, quanto nell’ironica progettazione di futuribili città ipertecnologiche. Tuttavia, molti architetti si opposero all’estetica dell’effimero che disgregava l’immagine della città, recuperando le forme pure, archetipiche, atemporali, radicate nella memoria collettiva.
Il veloce sviluppo tecnologico ed elettronico dei primi anni ‘60 contribuisce ad alimentare l’idea di una città nuova, completamente libera dai vincoli dell’urbanistica tradizionale. Il modello stesso della città-funzionale (divisa razionalmente in settori differenziati), promosso dai maestri del Movimento Moderno ed esposti nella Carta d’Atene, non sembrava adeguato per rispondere alla complessità e al dinamismo della città del futuro. L’impegno degli urbanisti si concentrò nel progetto, spesso utopico e fantastico, di ipertecnologiche megalopoli: la città diventò il luogo di proiezione di tecnologie fantascientifiche che suggerivano nuovi modelli di aggregazione e di crescita. Kenzo Tange, nel piano per Tokyo (1960), propose megastrutture dalle funzioni imprecisate che affondano nell’utopia, pur nella loro precisione progettuale. Il mito della megalopoli venne portato avanti dai protagonisti del Metabolismo, gruppo giapponese di cui l’esponente principale è Kurokawa , che proposero megastrutture colossali, intese come somma di infrastrutture tecnologicamente avanzate, controllabili e rinnovabili. Il nome stesso del gruppo fa riferimento ad una concezione della città come organismo vivente e quindi soggetto a processi di crescita, trasformazione, invecchiamento e decadimento. Applicando il ciclo metabolico al processo di crescita della città, gli uomini avrebbero potuto mantenere il controllo della tecnologia. L’utopia metropolitana raggiunse livelli paradossali con le ironiche città-macchina del gruppo inglese Archigram, formato da Cook, Chalk, Herron, Crompton e Webb. Al di là della loro apparenza grafica, i “mostri” tecnologici degli Archigram non si proponevano come ipotetiche realtà costruibili, ma come messaggi autoironici, immagini stimolanti di città avveniristiche, happening, da inserire nei circuiti della comunicazione di massa. Anche in Italia si diffuse l’utopia dell’espansione urbana regolata unicamente da meccanismi tecnologici: la provocatoria proposta della No-Stop-City (1968) del gruppo Archizoom.
Accanto a queste tendenze, si può riscontrare un influsso della Minimal Art anche in campo architettonico. I minimalisti ricorsero a volumi semplici (cubi, parallelepipedi) e a forme regolari. I materiali (cemento armato, legno, acciaio e, per gli allestimenti, alluminio, playwood, tubi al neon, plexiglas) non vennero mai assemblati per ottenere effetti di contrasto, piuttosto vennero utilizzati “puri”, uno alla volta. La sensibilità minimalista, che operava per via di riduzione, sottrazione, semplificazione, fu magistralmente tradotta in architettura da Ando (si pensi alle case individuali Manabe, 1977; Horiuchi, 1978; alla chiesa sull’acqua, Tomamu, Hokkaido, 1985-88). Ma al lessico scarno ed essenziale del linguaggio minimalista si avvicinarono, nel corso della carriera, molti professionisti. Ad esempio, la critica è ricorsa al minimalismo per descrivere i primi progetti di Botta (si pensi alla casa rotonda a Stabio, Canton Ticino, 1982).
Negli anni ‘60 gli architetti della “vecchia generazione” si trovarono costretti a confrontarsi con la posizione precaria dell’architettura contemporanea, in bilico fra la retorica degli epigoni del Movimento Moderno e la sfrenata utopia tecnologica che stava riducendo l’architettura alla mera condizione di happening. Di fronte al disgregarsi del significato stesso dell’arte del costruire, Kahn divenne un fondamentale punto di riferimento per quei professionisti che desideravano ristabilire l’austera dignità del mestiere, credendo che l’architettura potesse ancora esprimere valori. Kahn creò un ponte con la storia, alla ricerca dell’essenza stessa dell’attività dell’architetto.
All’inizio degli anni ‘60 si sviluppò inoltre in Italia, Svizzera, Belgio, Germania, Spagna, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone il neorazionalismo. Sotto la sua denominazione accoglie diverse correnti e scuole di pensiero, che trovarono la massima espressione nel movimento italiano Tendenza. Il neorazionalismo, rifiutando il linguaggio ludico delle utopiche sperimentazioni negli anni ‘60 e ‘70, negava l’idea della città come happening, evento instabile e spettacolare assoggettato alla logica consumistica della società dell’immagine, predicando, al contrario, il ritorno al lessico razionale dell’architettura. Opposte alle megalopoli in continua trasformazione anelate dai metabolisti, la città di Rossi era concepita come “un insieme di pezzi in sé compiuti” e organizzati secondo regole compositive di matrice classica. Grassi, autore del testo La costruzione logica dell’architettura (1967), indagò la storia del costruire alla ricerca di tipologie edilizie eternamente valide. Negli Stati Uniti i Five Architects (gruppo newyorchese formato, negli anni ‘70, da Eisenman, C. Gwathmey, M. Graves, J. Hejduk e Meier) manifestarono molti punti di contatto con le problematiche neorazionaliste, recuperando il messaggio formale purista del primo Le Corbusier e il neoplasticismo di van Doesburg.
Negli Stati Uniti il cinema ha rappresentato fin dal principio una vera e propria industria, con le sue factories ed il suo “indotto”. Hollywood ha conquistato saldamente fin dall’inizio del secolo il mercato mondiale. Lo star system e l’organizzazione fondata sulle grandi case di produzione (le majors) continuarono a funzionare senza grandi scossoni fino agli anni Sessanta. Dalla fine di quel decennio, e poi nel corso di tutti gli anni Settanta, il cinema americano fece da specchio alla crisi della società statunitense determinata dalla guerra in Vietnam e dal crollo di quell’idea di fiducia nel futuro che aveva pervaso l’opinione pubblica fino a quel momento. Hollywood aveva già affrontato in passato, in diverse opere di molti dei suoi più grandi registi, temi scottanti, ma a partire dalla fine degli anni ‘60 emerse una nuova leva di autori decisi a cambiare il sistema. Erano gli anni della contestazione studentesca e della “controcultura”, dei movimenti delle minoranze (come quello dei neri), e, soprattutto, della guerra del Vietnam che divise in due parti il paese. Il cinema americano, anche sulla scorta di quello europeo, rifletté la maggiore politicizzazione della società e indagò con un tono più realistico la realtà statunitense, quella presente come quella passata.
I generi tesero ad essere più mischiati, tramontarono filoni storici (come il western), aumentò il livello di violenza nei film. Il cinema, però, più che in passato, rifletteva e anticipava (in alcuni casi) quello che stava succedendo nella società, evidenziando i fenomeni di costume. Pensiamo all’impatto di film come (solo per citare alcuni esempi) Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos Forman o Kramer contro Kramer (1979). In quegli anni uscirono film che raccontavano in modo diverso l’epopea del west, recuperando le ragioni degli indiani, come ad esempio Soldato blu (1970) di Nelson, Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn o Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972) di Sydney Pollack. Infatti, si parlò di una “nuova Hollywood”. In questo quadro di rinnovamento, si fecero strada due registi - Lucas e Spielberg - che reinventarono il cinema spettacolare con film di grandissimo successo, come Guerre stellari o Incontri ravvicinati del terzo tipo. Un altro filone, già presente nel decennio precedente, fu quello che raffigurava le grandi calamità naturali, come L’avventura del Poseidon (1972) e L’inferno di cristallo (1974), nei quali hanno sempre maggiore importanza i cosiddetti “effetti speciali”.
Si affermava, inoltre, una nuova generazione di divi più tormentata, più intellettuale, meno solare di quella che l’aveva preceduta: Robert De Niro, Richard Dreyfuss, Gene Hackman, Dustin Hoffman, Deane Keaton, Jack Nicholson, Al Pacino, Robert Redford, Meryl Streep, solo per citare alcuni nomi.
La generazione di registi che approdò a Hollywood nei primi anni ‘70 fu l’artefice di un autentico rinascimento che dura ancora oggi ed assicura il primato di popolarità al cinema a stelle e strisce.
Basti ricordare lo stile eclettico e personale di Robert Altman (M.A.S.H., 1970; Nashville, 1976; Un matrimonio, 1978) che spaziava tra il western, il film di guerra, la spy story, il musical. Con un esordio che guardava alla tradizione neorealista italiana e al cinema di Godard, Chi Sta Bussando Alla Mia Porta, del 1969, il giovane Martin Scorsese si impose per i suoi personaggi autobiografici raccontando la vita di Little Italy a New York al centro anche del suo primo successo (Mean Streets, 1972) in cui si consacrò l’attore Robert De Niro, presente spesso nei film successivi del regista (Taxi driver, 1976; New York New York, 1977). I film di Scorsese, dinamici e violenti, fatti di inquadrature veloci, di montaggi serrati, hanno definito una sua vena metropolitana ed iperrealista che ha animato i suoi capolavori. Francis Ford Coppola (Il Padrino, parte prima e seconda, 1972 e 1974), ha affrontato per primo il tema del Vietnam attraverso un indimenticabile film (Apocalypse now, 1979), o ancora Michael Cimino (Il cacciatore, 1978). Senza dimenticare una figura eccentrica e originale come quella di Woody Allen (Io & Annie, 1977; Manhattan, 1979) in cui, intrecciando autobiografia e fantasia unite alla capacità di far ridere e di ironizzare su tutto ciò che lo circonda, l’autore descrive quanto siano cambiati i costumi nella società, ad esempio nei rapporti conflittuali di coppia, fino a cambiare radicalmente i caratteri dei protagonisti.
Espressione del rinnovamento che il cinema americano conosce nel corso degli anni settanta, sono due registi come George Lucas (American Graffiti, 1973; Guerre stellari, 1977) e Steven Spielberg (Duel, 1971; Lo squalo, 1975; Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977). Se andiamo a scorrere l’elenco dei film che più hanno incassato nella storia del cinema scopriamo che più della metà sono stati realizzati da Lucas e Spielberg, come registi o come produttori. Questi due autori hanno cambiato il modo di fare cinema spettacolare. Attentissimi alle nuove tecnologie, ma con un gusto per la saga, per l’epica, hanno ridato spessore a due generi, quelli del film d’avventura e della fantascienza, per molti aspetti in declino.
Era il 1977 quando il film Saturday Night Fever, diretto da John Badham, registrava il successo della disco music. Il film ruotava intorno al personaggio Tony Manero ed al suo amore per la discoteca, lo spazio prediletto dei giovani. Il ruolo di protagonista della pellicola fu affidato a un giovane ventiduenne italoamericano, buon attore ma soprattutto provetto ballerino: John Travolta. Il film divenne il manifesto della nuova generazione, rappresentata con crudo realismo e un linguaggio volgare, “ribelle senza una causa” tutta casa e discoteca, e Travolta il nuovo mito dei ragazzi e delle ragazze appassionati della “disco”, tanto che venne coniato il neologismo “travoltismo” per rendere l’idea della nuova mania. La colonna sonora, in particolare le canzoni dei Bee Gees, fece furore in tutto il mondo. Gli ammiratori impararono a memoria la biografia del nuovo idolo, paragonandolo addirittura a James Dean, ed affollarono le sale cinematografiche l’anno successivo, quando uscì il film Grease, in cui il re delle discoteche seguitò ad affascinare il pubblico ballando e cantando in coppia con l’australiana acqua e sapone Olivia Newton-John, stavolta al ritmo del rock and roll anni ‘50.
Il cinema europeo, dato in molte occasioni per morto, come vittima dello strapotere di Hollywood, è al contrario una realtà artistica viva dell’epoca presente. Il cinema francese, con l’ultima stagione degli autori della Nouvelle vague e una nuova generazione di registi emersa negli ultimi anni; il cinema dell’Europa centrale e del nord, con il nuovo cinema tedesco e quello dell’Europa dell’est; il cinema spagnolo e quello italiano, con moltissimi autori di grande livello, hanno tenuto alta la bandiera della cinematografia continentale.
Il cinema francese degli anni Settanta si distingueva in primo luogo per le opere realizzate dai registi della Nouvelle vague, o, comunque, dagli autori emersi nel corso degli anni Sessanta. François Truffaut realizzò una serie di bellissimi film, nei quali la ricerca formale era strettamente funzionale all’impianto narrativo, e l’occhio sulle vicende umane era disincantato e allo stesso tempo partecipe, mai cinico: Adele H, una storia d’amore (1975), Gli anni in tasca (1976). Bresson proseguì il suo percorso solitario con capolavori quali Lancillotto e Ginevra (1974), Il diavolo probabilmente… (1978). Non è possibile dimenticare, inoltre, registi del calibro di Claude Chabrol (Violette Nozière, 1978), Louis Malle (Cognome e nome Lacombe Lucien, 1974), Erich Rohmer (La marchesa von…,1976). Nuovi e meno nuovi divi del cinema francese furono al centro dell’attenzione internazionale. Tra gli altri, Isabelle Adjani, Fanny Ardant, Daniel Auteil, Jean-Paul Belmondo, Bernard Blier, Alain Delon, Gerard Depardieu, Michel Piccoli, Philippe Noiret.
Come in Francia, anche in Italia furono soprattutto i registi affermatisi nel periodo precedente agli anni Settanta a produrre i film di maggiore rilievo. Possiamo ricordare alcuni nomi. Innanzi tutto i “grandi vecchi”: Federico Fellini (con capolavori quali Amarcord, 1974; Prova d’orchestra, 1979), Michelangelo Antonioni (Professione reporter, 1974); Luchino Visconti (Ludwig, 1973; Gruppo di famiglia in un interno, 1974). Paolo e Vittorio Taviani si impegnarono nella rivisitazione populista della storia italiana, con uno stile evocativo e pulito che univa all’essenzialità la poeticità mai didascalica della visione (San Michele aveva un gallo, 1971, Allonsanfan, 1974). Con Padre Padrone, 1977, tratto dal romanzo autobiografico di Gavino Ledda, i Taviani si sono addentrati nel territorio delicato della riappropriazione dell’identità umana, della propria cultura d’origine, dell’affrancamento personale da ogni tipo di potere. Il film, un successo internazionale, vinse a Cannes la palma d’oro ed ebbe un vastissimo consenso nelle sale cinematografiche di tutto il mondo.
Negli anni Settanta il panorama del cinema italiano, benché si facciano sentire gli effetti della crisi (calo di pubblico per le pellicole italiane, chiusura delle sale, etc.) appare quanto mai vario e ricco: da Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli, 1978), a Marco Ferreri (Non toccare la donna bianca, 1974; L’ultima donna, 1976), da Ettore Scola (C’eravamo tanto amati, 1974; Brutti, sporchi e cattivi, 1976; Una giornata particolare, 1977) a Pier Paolo Pasolini (Il fiore delle mille e una notte, 1974; Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975). Fu il tradizionale filone della commedia all’italiana a perdere colpi, malgrado i film di autori quali Mario Monicelli (Amici Miei, 1975; Un borghese piccolo piccolo, 1977) e Luciano Salce (Fantozzi, 1975; Il secondo tragico Fantozzi, 1976). Scomparve il cinema medio che lasciò il posto ad un cinema di cattivo gusto, a opere dove prevaleva la volgarità o la ripetizione di moduli narrativi di tipo televisivo, e interpretate da attori affermatisi in televisione.
Gli anni Sessanta e Settanta in URSS furono caratterizzati dall’ambigua “politica di distensione” operata da Breznev, che si risolse sul fronte interno in un rafforzamento delle strutture di controllo sociali e culturali che avevano caratterizzato i primi decenni del regime sovietico, ma che non si espressero in forme artistiche altrettanto significative. Il ritorno auspicato al realismo socialista prese il nome di realismo pedagogico, e lo stato finanziò per lo più adattamenti letterari di classici della letteratura russa.
Il dissenso fece nascere, dalle repubbliche sovietiche profondamente antirusse, un vivaio di giovani registi che, forti della lezione lirica di Dovzenko, dettero vita ad un cinema poetico che offrisse una possibilità di trattazione emotiva delle tradizioni popolari, per denunciare con tocco lieve e personale lo stato di degrado dell’ideologia comunista più democratica (C’era una volta un merlo canterino, Otar Ioseliani, 1973).
Il potere concreto dell’immagine evocativa è la cifra caratteristica di Andrej Tarkovskij, il cui primo film Andrei Rublev, del 1966, venne distribuito in URSS solo nel 1972. Solaris, 1972 e Stalker, 1979, sono i due film di argomento fantascientifico che indagano però i percorsi della coscienza dell’uomo, dei suoi rapporti con la memoria e con le responsabilità etiche. L’infanzia del regista, le poesie del padre (il poeta Arsenj Tarkovskij) ritornano come suggestioni nel film Lo specchio, 1974, un montaggio onirico dove le immagini, ricche di simboli, si susseguono in una comunione di pubblico e privato, di simbologia e documentario.
I film erano per Kubrick un’esperienza totale, erano la sua esistenza, che difendeva gelosamente, ed erano i risultati di una ricerca interdisciplinare, che scandagliava in ogni direzione, condotta personalmente, come regista, produttore, sceneggiatore, direttore della fotografia, fonico, selezionatore della colonna sonora, e curatore di ogni edizione straniera. Il riserbo assoluto ha sempre circondato i suoi film e solo Kubrick era autorizzato ad anticiparne qualcosa.
Concentrandosi totalmente sul mezzo cinematografico Kubrick riuscì in una rappresentazione assoluta, che lo ha visto perfezionare il film di “genere” elevato al massimo grado di cinema d’autore. Kubrick ha spaziato tra film di fantascienza, horror, di ricostruzione storica, noir, di guerra, offrendo opere impeccabili formalmente ed ognuna aperta a differenti chiavi di lettura, dense di riferimenti e sintesi di tutte le espressioni artistiche, la letteratura, la musica, la pittura che circondano le vicende narrate.
Nei suoi film, Kubrick rifletté sul cinema stesso nel continuo confronto con i generi cinematografici, e, contemporaneamente, ne rinnovò e sublimò il linguaggio approfittando di ogni innovazione tecnologica, ideando egli stesso nuove soluzioni, come quando chiese la messa a punto di una nuova pellicola, ad alta sensibilità, per girare delle scene illuminate solo con delle candele, per il film Barry Lindon, nel 1975, così che il film potesse rappresentare “realmente” le atmosfere ed i colori del passato.
Il cinema di Kubrick è un appassionante viaggio nella storia dell’uomo, è la summa di tutte le sue esperienze, è il racconto delle sue conquiste e dei suoi errori, è un diario per immagini del cammino dell’umanità. Il suo capolavoro indiscusso rimane, infatti, 2001 Odissea nello spazio, 1968, che riassume in una visione onirica tutto il percorso dell’esistenza umana.
Oltre le cinematografie francese e italiana, quella tedesca fu la più rilevante nel panorama europeo. Negli anni Settanta iniziò la stagione del cosiddetto “nuovo cinema tedesco”, di cui avevano rappresentato una premessa le pellicole di autori come Kluge o Schlöndorff, emersi nel corso del decennio precedente. Il nuovo cinema tedesco emerge da un gruppo di registi incredibilmente vario, quanto a tematiche e a scelte artistico-espressive, che hanno come comune denominatore la volontà di riflettere sul passato della Germania e sulla realtà tedesca attuale. Le tre figure principali furono sicuramente Werner Herzog, Wim Wenders e Rainer Werner Fassbinder.
I film di Herzog, sempre impegnativi sul piano formale e narrativo, si occuparono in molti casi di figure prometeiche (Aguirre furore di Dio, 1972) o marginali, schiacciate dall’impatto con la società (L’enigma di Kaspar Hauser, 1974; La ballata di Stroszek, 1977; Woyzeck, 1978). Wenders reinventò in chiave europea spunti e suggestioni del cinema americano riflettendo sul potere dell’immagine e sulla solitudine (Alice nella città, 1973; Falso movimento, 1975; Nel corso del tempo, 1975; L’amico americano, 1977). Fassbinder affrontò tematiche impegnative, come il passato nazista o l’omosessualità, con una visione tragica senza speranza sulla realtà (Il mercante delle quattro stagioni, 1971; Le lacrime amare di Petra von Kant, 1972; Effi Briest, 1974; Il matrimonio di Maria Braun, 1978).
Oltre al già citato Schlöndorff, vincitore a Cannes nel 1979 con lo sconvolgente Il tamburo di latta, tratto dal romanzo di Günther Grass, si deve citare almeno Margarethe von Trotta, che con Anni di piombo (1981) realizza il miglior film dedicato al terrorismo di sinistra degli anni ‘70.
Importante per la letteratura degli anni Settanta è stata “Presenza africana”, la rivista del poeta senegalese Senghor, che per prima affrontò l’argomento della negritudine. Nel 1971 Senghor scrisse sulla sua rivista che “l’emozione è nera, come la ragione è ellenica”. Il movimento della negritudine aveva per lui il compito di mettere in rilievo la civiltà del mondo nero, assimilando le convergenze di altre culture. La lotta per i diritti civili e contro il razzismo compiuta dai neri d’America esercitò la sua influenza anche sugli africani sui quali incombeva ancora il peso del colonialismo. Per secoli l’occidente aveva loro imposto la sua visione del mondo per esercitare meglio lo sfruttamento e la violenza. E il nero finì con l’integrarsi, accettando una cultura a lui estranea, scrivendo libri che imitavano quelli europei, alienando le proprie origini e i propri valori. La colonizzazione culturale fu denunciata e messa in crisi a Parigi, negli anni Venti, quando alla Sorbona un’educazione libertaria facilitava l’affrancatura degli studenti neri dal servilismo letterario. Lo stesso non era avvenuto nelle colonie inglesi, dove la conquista degli strumenti culturali era più difficile. A Parigi gli africani conobbero i fermenti che agitavano i neri americani. La crescita della consapevolezza culturale dei popoli africani nel dopoguerra fu influenzata anche dal Surrealismo e dall’arte che spesso si rifaceva alle sculture “primitive”, come nel caso di Picasso. André Breton arriva fino a dichiarare che l’arte nera era l’espressione corretta a cui anche l’artista europeo doveva ispirarsi. Si incominciarono a studiare a fondo gli usi e i costumi delle nazioni nere. Scienziati, etnologi e africanisti studiarono per recuperare il passato e le tradizioni perdute con il colonialismo. La negritudine spinse a scoprire e ad apprezzare la propria diversità, che non significava più inferiorità di fronte all’uomo bianco.
Negli anni Settanta, sull’onda del clima sociale del 1968, in Italia si sviluppò fortemente il romanzo autobiografico scritto da persone non appartenenti al mondo della cultura “ufficiale”. Il più famoso di questi fu Gavino Ledda, ex pastore analfabeta che nel 1975 scrisse il famoso Padre padrone. L’educazione di un pastore.
Autori già affermati, come Cassola e Moravia, continuarono a pubblicare le loro opere durante tutto il decennio. Numerose furono anche le opere di Italo Calvino e Leonardo Sciascia, entrambi scrittori legati ai problemi sociali e politici dell’epoca da loro vissuta. Calvino seppe poi legare questi stimoli provenienti dalla società con la ricerca di nuovi linguaggi e nuove forme stilistiche come nel caso di Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Negli anni Settanta pubblicò alcune delle sue opere più significative anche Pier Paolo Pasolini. Tra queste vanno ricordate la raccolta di poesie Transumar e organizzar e Affabulazione, e le raccolte di saggi ed articoli di Scritti corsari e Lettere luterane.
Infine, nella poesia Eugenio Montale, attivo e conosciuto fin dagli anni ‘30, fu insignito del premio Nobel nel 1975. Egli, come nessun altro, seppe coniugare nuove forme espressive e nuovi soggetti con il rispetto ed il dominio della regola metrica e classica.
La letteratura americana ed inglese vide negli anni Settanta la differenziazione tra due filoni: da una parte la narrativa tradizionale, in disparte rispetto alle logiche del mercato, dall’altra quella della “narrativa di consumo”, caratterizzati per generi particolari, come la fantascienza, i gialli o le storie sullo spionaggio, alle volte realizzati o pensanti in vista di una loro trasposizione sullo schermo.
Alcuni autori si affermarono nella fantascienza: tra questi il più famoso fu sicuramente Isaac Asimov che continuò negli anni Settanta la pubblicazione della sua immensa opera. Si affermò in questi anni anche Arthur Clark che acquisì fama internazionale grazie al successo del film di Stanley Kubrick 2001. Odissea nello spazio, tratto da un suo libro. Altro genere commerciale che si affermò, sulla scia dei successi cinematografici di James Bond, fu senza dubbio quello di spionaggio, nella quale importante fu soprattutto John Le Carrè, autore di una trilogia che aveva come protagonista la spia George Smiley. Nello stesso filone di Le Carrè possono essere inserite i libri di Patricia Highsmith con Il diario di Edith e L’amico americano.
Negli Stati Uniti la letteratura “di protesta” trova in Charles Bukowsky un nuovo interprete, che trasforma la rabbia e l’impegno collettivo contro il sistema, in un’esasperata foga autodistruttiva.
Se c’è una branca della scienza che si è evoluta ad un ritmo rapidissimo è stata proprio l’informatica. La svolta che aprì le porte ai moderni computer è la costruzione nel 1971 ad opera di due fisici americani, Robert Noyce e Gordon Moore, del primo microprocessore, costruito con circuiti integrati di silicio in grado di aumentare in modo esponenziale la velocità di calcolo. Da allora l’informatica ha fatto passi da gigante. Venne utilizzata prima per gestire grandi archivi o sistemi di sicurezza, poi anche per la produzione industriale. Alla metà degli anni Settanta entrarono in funzione i primi robot, pilotati da calcolatori, in grado di dare le direttive alle catene di montaggio.
La rivoluzione informatica ha influenzato fortemente il mondo del lavoro. I computer erano capaci di sostituire da soli il lavoro di molti uomini e da allora in poi furono richieste nuove competenze nel mondo lavorativo. Furono i giovani ad avvantaggiarsi di queste continue innovazioni, grazie alla duttilità e facilità di apprendimento delle regole dell’informatica.
Anche l’architettura dei computer si è evoluta rapidamente. La domanda di software più complessi ha richiesto processori sempre più veloci e macchine sempre più potenti. La memoria dei computer raddoppiava ogni diciotto mesi. Le evoluzioni imposero anche il cambio dei linguaggi di programmazione (dal Basic, inventato nel 1965 dagli americani Kurtz e Kemeny si è passati agli attuali compilatori) e dei sistemi operativi, visto che si è passati dall’MsDos alle versioni più recenti di Windows.
La fine degli anni Settanta vedono la comparsa dei personaggi e delle aziende che avrebbero caratterizzato il mondo dell’informatica anche nei decenni successivi: infatti, nel 1977 tre giovani americani - Cupertino, Wozniak e Jobs - fondarono la fabbrica di calcolatori elettronici Apple mentre nel 1978 Bill Gates fondò la Microsoft, per la produzione di software per i personal computer.
Gli anni Settanta videro la comparsa di molte novità concernenti il mondo dell’audio e del video che influenzarono profondamente la vita di milioni di persone.
Furono soprattutto i giovani ad essere interessati da questa tendenza. Innumerevoli gadget entrarono nella loro vita quotidiana. Nel 1979 il giapponese Akio Morita realizzò per la Sony il primo walkman, un apparecchio che consentiva di ascoltare musicassette attraverso delle cuffie individualmente: la novità era nelle ridotte dimensioni del lettore musicale che poteva stare in una tasca o in una mano permettendo un libertà di movimenti fino allora impensabile. Nello stesso anno entrarono in commercio i primissimi compact disc, che nel giro di un decennio hanno mandato in soffitta i vecchi dischi in vinile. Alla fine del decennio, inoltre, iniziò la diffusione dei videogiochi, sia domestici sia da sala giochi, il primo dei quali era stato Pong, progettato nel 1972 dallo studente americano Noland Bushnel. Lo sviluppo dei videogiochi fu impetuoso e nelle città di tutto il mondo, accanto ai vecchi flipper, apparve un numero quasi infinito di giochi sempre più complessi e accattivanti, pieni di luci e suoni, comandi e pulsanti: la sala giochi diventò un nuovo luogo di frequentazione per adolescenti e giovani. Infine nel 1969 sempre la Sony aveva cominciato a produrre i primi videoregistratori. Nel 1975 venne commercializzato il sistema “betamax” che rese commerciale e di massa il videoregistratore.
La diffusione degli apparecchi audio e video fu resa possibile grazie alla diffusione dei “moduli”, cioè dalla costruzione in serie di strutture metalliche contenenti i componenti del sistema: tale sistema permetteva di riparare o ammodernare più rapidamente gli apparecchi stessi.
Nel corso degli anni ‘70 si affermarono, o videro la luce, gli orologi digitali e i compact disc. All’orizzonte del panorama cittadino si sono insediate delle scritte, di dimensioni variabili, in cui l’ora e la data sono raffigurate in modo digitale: la visualizzazione del tempo acquistò così una nuova forma. Furono messi in vendita gli orologi digitali che conquistarono, per la novità rappresentata, il favore della clientela, specialmente di quella più giovane.
Alla fine del decennio fu sviluppato, anche se per la commercializzazione si sarebbero dovuti attendere la metà degli anni Ottanta, il compact disc (CD). Nato inizialmente per la registrazione di musica, in sostituzione del tradizionale disco di vinile, sarebbe poi passato anche nel mondo dell’informatica come contenitore di un numero maggiore di dati rispetto al floppy disk, inventato a sua volta nel 1970. Particolarità del CD è che la lettura delle informazioni avviene mediante un dispositivo a laser. I compact disc permettono la registrazione di 74, o più, minuti di musica in alta fedeltà, in stereofonia. Non esistendo, in fase di riproduzione, un contatto meccanico fra disco e dispositivo di lettura, i compact disc consentono un’audizione più “pulita” del suono che non altera nel tempo le loro caratteristiche, a differenza dei dischi tradizionali in vinile, facilmente soggetti a logoramento con conseguente perdita di qualità del suono.
La conquista della Luna non fu l’unico episodio nella conquista dello spazio intrapresa dalle due superpotenze: si è assistito a sonde spaziali che esplorano i pianeti del sistema solare e si spingono ai suoi limiti ed oltre, ma anche alla costruzione di stazioni orbitanti permanenti come la sovietica Salyut 1 nel 1975. Sovietica era anche la sonda Mars 3, che il 14 novembre 1971, effettuò il primo atterraggio morbido sul pianeta Marte, mentre l’americana Mariner sarà il primo satellite artificiale del pianeta rosso, a partire dal 1972.
L’altra frontiera dello sviluppo spaziale sono stati i satelliti artificiali in orbita geostazionaria intorno al nostro pianeta. Essi hanno dato un incredibile sviluppo allo studio della Terra, offrendo prospettive inedite per studi civili, oltre che a fini militari. Il primo satellite di telerilevamento che studiava la conformazione dei terreni, cioè le risorse del suolo, fu l’americano Landsat 1, dell’estate del 1972. Nel maggio del 1973 anche gli USA misero in orbita un laboratorio spaziale, lo Skylab, mentre nel 1973 la sonda americana Mariner 10 mandò le prime immagini del suolo di Mercurio; infine, l’8 giugno 1975 la sonda Venera 9 (URSS) trasmise le prime fotografie del suolo di Venere.
Sempre nel 1975, nell’ambito del rinnovato clima di distensione mondiale, USA e URSS diedero inizio al volo congiunto Apollo-Soyuz. I due veicoli spaziali si agganciarono in orbita in modo da permettere agli astronauti americani e sovietici di stringersi la mano.
Nell’ultimo quarto di secolo i sovietici e gli statunitensi hanno inviato nello spazio sonde spaziali per conoscere meglio il sistema solare e quello che si nasconde oltre i suoi limiti. Ne è nata l’ennesima gara tra le due superpotenze per raggiungere i diversi pianeti del sistema stesso. Nel 1971 una sonda spaziale sovietica, Mars 3, atterrò sul suolo di Marte, seguita, l’anno successivo, da una sonda americana (Mariner 9). Nel 1974 la sonda americana Mariner 10 fu la prima a sorvolare Mercurio. L’anno seguente, il modulo sovietico Venera 9 trasmise sulla terra le prime fotografie di Venere. Gli Stati Uniti avviarono i progetti Viking e Pioneer per esplorare i pianeti del sistema solare. La sonda spaziale più famosa, fino al recente Mars Pathfinder, è stata però sicuramente la statunitense Voyager che sorvolò, in successione, Giove (1979), Saturno (1981), Urano (1986) e Plutone (1989), spingendosi poi oltre i limiti del sistema solare.
Negli anni immediatamente seguenti alla conquista della Luna molti ritenevano prossima la possibilità per l’uomo di sbarcare su Marte. Ma venendo meno la pressione politica sulle strutture di ricerca spaziale ed essendo diminuita la tensione tra i due blocchi, americano e sovietico, le speranze si affievolirono del tutto. D’altro canto, anche gran parte degli scienziati mostrava di aver perso interesse per il viaggio esplorativo con uomini a bordo. Molti risultati si stavano, infatti, ottenendo con le sonde automatiche le cui potenzialità venivano continuamente confermate.
Il pianeta Venere era stato raggiunto dai sovietici nel 1967 con la sonda Venera 4 e con le successive spedizioni del programma: la Venera 8 (1972), dopo essersi posata sul pianeta, era rimasta attiva per quasi un’ora compiendo numerose misurazioni, mentre la successiva sonda Venera 9 (1975) era riuscita ad inviare sulla Terra la prima fotografia del suolo del pianeta, e così era riuscita a fare poco dopo la Venera 10. Verso Venere si era diretta anche la statunitense Mariner 5 e successivamente la Mariner 10, partita il 3 novembre del 1973, che, dopo un sorvolo del pianeta a 700 chilometri di distanza, si diresse verso Mercurio, riuscendo a “osservarlo” a distanza ravvicinata per ben due volte negli anni 1974 e 1975.
Mentre le esplorazioni venusiane si erano rivelate molto incoraggianti per i russi, non altrettanto lo furono quelle dirette verso Marte: Mars 2 (1972) si schiantò sul suolo del pianeta, e soltanto le Mars 4 e 5 poterono trasmettere una grande quantità di informazioni e diverse immagini. Con il “pianeta rosso” ebbero più fortuna gli americani: nel 1971 dal Mariner 9, postosi su un’orbita marziana, fu possibile ottenere quasi 7000 foto. Le migliori esploratrici di Marte furono poi le sonde della serie Viking 1 e Viking 2. Il loro programma, benché interamente automatico, era simile a quello dell’esplorazione lunare: consisteva di un Orbiter e di un Lander, il primo destinato a rimanere parcheggiato in orbita, il secondo progettato per scendere al suolo e analizzare così in dettaglio la composizione chimica, le caratteristiche fisiche delle rocce marziane e dell’atmosfera, oltre che indagare se il pianeta ospitasse qualche forma di vita. Grazie ai due Viking oggi sappiamo che su Marte non c’è vita.
Nel corso degli anni, le esplorazioni spaziali hanno suscitato interesse soltanto se riuscivano ad inviare dati e materiali degni di nota. Ma la dilatazione dei tempi tra il momento del lancio e quella dell’ottenimento dei risultati ha ulteriormente abbassato l’interesse dell’opinione pubblica attorno a queste imprese.
Questo generale atteggiamento nei confronti delle esplorazioni spaziali non si è verificato in occasione delle spedizioni delle sonde Pioneer 10 e 11. Fatte partire rispettivamente il 3 marzo 1972 e il 6 aprile del 1973, esse erano destinate all’esplorazione degli immensi pianeti Giove e Saturno. Dopo un viaggio di 800 milioni di chilometri, il 4 dicembre del 1973 la sonda Pioneer 10 transitò nei pressi di Giove fornendo immagini dettagliate del pianeta. La Pioneer 11 ottenne un risultato ancora più significativo: dopo aver superato Giove, nel 1974, nel settembre del 1979 è passata vicino a Saturno. Entrambe queste sonde stanno viaggiando lungo una traiettoria interstellare, portando con sé un messaggio rivolto ad ignoti abitanti di altri mondi, che consiste in poche essenziali notizie grafiche: due silhouette di un uomo e di una donna, lo schema del sistema solare, la traiettoria della sonda, un “segno” compiuto dall’uomo con la mano alzata in segno di pace. L’esigenza di inviare un simile messaggio è probabilmente sintomatica del disagio che l’uomo prova nel sentirsi un navigatore solitario dell’universo e, allo stesso tempo, del desiderio di mettersi in contatto con altre forme di vita.
Dopo le serie Pioneer, le conoscenze attorno a Giove sono state meglio precisate grazie alle spedizioni statunitensi Voyager 1 e Voyager 2 che raggiunsero il pianeta nel 1979. Si tratta di sonde molto sofisticate: posseggono un generatore elettrico a radioisotopi e una grande antenna parabolica di 4 metri di diametro puntata verso la Terra. Esse possono compiere svariate rilevazioni: osservazioni nel campo dell’infrarosso, esperimenti per la misurazione dei raggi cosmici, ed inoltre quelli relativi alla spettroscopia ultravioletta. Tra le acquisizioni più spettacolari si deve ricordare la scoperta di un anello di Giove non visibile con gli strumenti ottici da terra, ed inoltre la verifica che la grande macchia rossa sulla sua superficie è dovuta ad una sorta di immenso ciclone. Grazie a queste sonde adesso sappiamo che su Io, uno dei suoi satelliti di Giove, ci sono anche dei vulcani in eruzione e che, nelle zone più vicine a Giove, la radiazione è fortissima, migliaia di volte quella sopportabile per un uomo. Anche sulla sonda Voyager sono stati posti dei messaggi per eventuali altri esseri intelligenti: più di un centinaio di fotografie della Terra, un nastro magnetico con le voci degli uomini e con vari saluti recitati in svariate lingue e inoltre con la quinta sinfonia di Beethoven.
Mai, come nel secondo dopoguerra, sono stati compiuti prodigiosi progressi nel campo della medicina. E mai, come negli ultimi venticinque, anni si ha avuto l’impressione che la scienza medica e quella genetica bruciassero le tappe, procedendo verso innovazioni impensabili poco tempo prima.
Il primo trapianto di cuore, effettuato da Barnard nel 1967, ha aperto la strada ai trapianti di molti altri organi: la cornea, i reni, il fegato, il midollo osseo, il polmone. Nuovi procedimenti hanno ridotto il rischio del rigetto da parte dei pazienti. Più in generale, la possibilità di intervenire sul corpo umano è stata resa più ampia dall’evoluzione delle tecniche chirurgiche, da una sempre più avanzata ricerca in campo fisiologico, dall’introduzione di nuovi strumenti di diagnostica come la TAC (la Tomografia Assiale Computerizzata) o la RMN (la Risonanza Magnetica Nucleare).
Lo studio della genetica dell’uomo ha permesso di compiere grandi passi avanti nella conoscenza delle malattie di origine ereditaria. L’ingegneria genetica promette di liberare l’umanità dalle malattie e dalla fame, mentre la medicina mette a punto tecniche e terapie rivoluzionarie. Ma la grandiosità delle prospettive è pari all’enormità dei problemi di ordine etico e giuridico, primo fra tutti quello della clonazione umana, teoricamente già possibile. Il futuro è popolato di uomini brevettati e di pecore fatte in serie? Non è facile conciliare la logica del profitto, propria ad un sistema regolato dalle leggi del mercato, con gl’interessi collettivi dell’umanità. Anche l’indispensabile tutela dell’autodeterminazione e della dignità individuale, come nel caso della procreazione assistita, dell’aborto e dell’eutanasia, svela inquietanti risvolti di ordine morale.
La scienza e la tecnica si accingono a subentrare alla natura, manipolando l’identità genetica in laboratorio: oggi è possibile creare e brevettare interi organismi, nonché parti, organi e geni di qualsiasi essere vivente, compreso l’uomo. Un giorno il patrimonio genetico del pianeta potrebbe essere proprietà privata: il pensiero corre alle caste biologicamente predeterminate del Mondo nuovo di Aldous Huxley. I cibi transgenici sono già in commercio e noi, senza saperlo, potremmo essere le cavie d’un colossale esperimento. Gli ambientalisti non sono i soli a sostenere che l’industria e il commercio delle biotecnologie siano stati prematuramente legittimati senza le necessarie verifiche. Siamo consapevoli dei pericoli che si corrono nell’interferire con la vita, che ha impiegato milioni di anni per mettersi a punto?
Nel 1953 la scoperta del DNA (acido desossiribonucleico) da parte di James Watson e Francis Crick, svela i meccanismi fondamentali dell’ereditarietà, e dischiude prospettive impensabili. Da tempo immemorabile, l’uomo ha selezionato, a proprio vantaggio, specie animali e vegetali mediante incrocio: a partire dagli anni Sessanta, con l’isolamento dei geni, ha invece inizio la grande avventura dell’ingegneria genetica. Nel 1971 lo scienziato americano Paul Berg è riuscito a modificare geneticamente il colibacillo, microscopico inquilino dell’intestino umano, dimostrando la possibilità di renderlo resistente agli antibiotici, fargli produrre insulina o tramutarlo in un vettore del cancro. Nel 1974 l’intuizione della portata delle possibili conseguenze dell’ingegneria genetica ha indotto gli scienziati, ad Asilomar negli Stati Uniti, a promuovere una moratoria biennale: alla ripresa della sperimentazione, questa si è orientata soprattutto verso l’applicazione all’agricoltura e all’allevamento.
La manipolazione genetica consiste nel modificare il genoma, ossia il complesso delle informazioni genetiche caratteristiche d’una data specie, mediante l’inserimento di parti del patrimonio genetico di altri organismi. A dispetto d’ogni facile trionfalismo, i procedimenti dell’ingegneria genetica, ancora parzialmente empirici, non sono esenti da pericoli e imprevisti, dato che il gene estraneo va a inserirsi in un punto imprecisato della catena del DNA dell’organismo ospite, modificandone in maniera imprevedibile la sequenza, regolata da leggi ancora in larga parte sconosciute.
Mentre molti paesi asiatici e africani erano costretti a dotarsi di politiche per il controllo delle nascite, nei paesi occidentali il problema dell’infertilità veniva vissuto come un limite alla realizzazione della persona e della coppia, determinando il ricorso a tecniche di procreazione assistita. L’inseminazione artificiale (IA) si è sviluppata sui lavori di Jean Rostand (1945) che, sviluppando le ricerche dell’abate Spallanzani, ha dimostrato la possibilità di conservare a lungo lo sperma a bassa temperatura.
Le banche del seme, conservato in azoto liquido a -179 °C, divengono una realtà nei primi anni Settanta. La fecondazione in vitro (FIV), dopo gli esperimenti degli anni Trenta, ottenne i primi successi con embrioni di coniglio (1954) e d’uomo (1969): il primo “figlio” della FIV è Louise Brown, nata nel 1978. Lo sviluppo di embrioni congelati e scongelati, realizzato nel 1972, è applicato all’uomo nel 1984, con la nascita in Australia della piccola Zoe: ma la tecnica non ebbe rilevanti sviluppi.
L’IA con sperma del partner di donne con anomalie dell’apparato riproduttivo non ha posto problemi di ordine medico-chirurgico né etico, tranne nel caso in cui questo sia stato conservato affinché, in caso di morte dell’uomo, la donna abbia la possibilità di dare alla luce un figlio, generando così un orfano. Più complessi sono stati gli aspetti giuridici e psicologici concernenti il ricorso, in caso di sterilità dell’uomo, al seme d’un donatore. La donazione è stata resa anonima (salvo alcune eccezioni, come in Svezia, ove si è previsto un monitoraggio dei donatori in modo da prevenire la trasmissione di malattie genetiche), gratuita e attuata in istituti statali o riconosciuti. L’IA tramite donatore è praticata in molti paesi solo da una ventina d’anni, a causa dell’opposizione della chiesa cattolica.
Il quadro si è complicato nel caso di ricorso alla FIV, che configura alti costi economici per i singoli e la collettività. La fecondazione in vitro con trasferimento di embrione (FIVET) nell’ambito della coppia, richiede il prelievo d’ovuli tramite intervento chirurgico. Dato che il congelamento di embrioni ha presentato gravi difficoltà, oltre al rischio di alterazioni cromosomiche, si è reso necessario prelevare un discreto numero d’ovuli da fecondare immediatamente in attesa dell’impianto nell’utero.
Questo ha però creato nuove implicazioni morali sul destino degli embrioni non utilizzati, tra chi li intende utilizzare per sperimentazione scientifica e chi ne vuole la distruzioni per ragioni etico-morali. Le perplessità sono aumentate nel caso di FIVET con donazione d’ovuli da parte di donna estranea alla coppia, soprattutto per casi di “utero in affitto”.
Molto importante per il progresso della medicina e per una migliore prevenzione e diagnosi dei traumi fu l’invenzione e il perfezionamento della TAC, sigla che sta per Tomografia Assiale Computerizzata. Metodo radiodiagnostico messo a punto dall’inglese Geoffrey Hounsfield agli inizi degli anni Settanta, venne dapprima applicato nella diagnosi delle affezioni endocraniche. Il suo uso è stato in seguito esteso allo studio di tutto il corpo e, in particolare, alle parti “molli”. Le apparecchiature impiegate associano l’uso dell’elaboratore elettronico alla comune tecnica radiologica. Una sorgente puntiforme di raggi X si muove su di un piano trasversale attorno alla regione del corpo da esplorare, descrivendo un arco di circonferenza di 180º; durante questo percorso vengono eseguite delle rilevazioni successive che permettono di scandagliare un intero piano di sezione del corpo. I raggi X, dopo aver attraversato i tessuti, colpiscono un cristallo che a sua volta emette dei raggi luminosi. Gli impulsi luminosi vengono trasformati in segnali elettrici la cui intensità è proporzionale a quella dell’impulso luminoso e quindi all’energia del raggio X incidente sul cristallo. Gli impulsi elettrici vengono successivamente digitalizzati e analizzati da un computer che ricostruisce, per ogni punto della sezione corporea esplorata, un certo livello di radioopacità. In tal modo, nell’arco di un’ora, si ottengono immagini anatomiche molto precise, la cui chiave di lettura è data dalle diverse densità con cui vengono visualizzate le varie strutture.
L’espandersi del benessere, dell’opulenza e il vertiginoso aumento demografico portarono al massiccio aumento dei rifiuti urbani ed industriali. Si stavano, infatti, accumulando milioni di tonnellate di rifiuti nelle discariche delle piccole e grandi città dei paesi maggiormente industrializzati. Iniziarono a diffondersi gli inceneritori, impianti in cui i rifiuti erano sottoposti ad elevate temperature per ridurne il volume attraverso l’estrazione dei gas di combustione. Divenne fondamentale lo studio di siti più adatti per impiantare le discariche, evitando di inquinare le falde acquifere. La crisi petrolifera, e la conseguente limitatezza delle risorse disponibili, spinse le varie amministrazioni pubbliche a limitare il più possibile gli sprechi, anche quelli dei rifiuti. Anche il ferro e l’acciaio furono sottoposti al processo di riciclo.
Sempre negli anni Settanta venne introdotta per la prima volta la consuetudine di dividere i rifiuti domestici come plastica, carta e vetro in contenitori differenziati che, una volta depurati, potevano essere riutilizzati nuovamente attraverso una procedura semplificata della loro stessa produzione; mentre i rifiuti alimentari ed altri consimili potevano essere mischiati per creare prodotti per la concimazione agricola.
Per lungo tempo gli studiosi si erano posti il problema dell’estinzione dei grandi rettili preistorici, che sembrava poter essersi verificata solo con un evento unico e catastrofico, circa 65 milioni di anni fa. Nel 1976, alcuni studiosi dell’Università di Berkeley in California constatarono che in varie parti della Terra esisteva uno strato di rocce sedimentarie particolarmente ricco di minerali di iridio (presente in concentrazioni 30 volte maggiori rispetto alle normali). Considerando il fatto che questo metallo è di origine extraterrestre, proviene generalmente da meteoriti e micrometeoriti, una simile concentrazione era imputabile alla caduta e disintegrazione sulla Terra di un enorme asteroide, circa 65 milioni di anni fa, proprio all’epoca della grande estinzione in massa dei dinosauri. L’impatto del meteorite con la Terra avrebbe creato onde alte alcuni chilometri, se fosse caduto in mare, o enormi nubi di gas e polveri, se fosse caduto sulla terraferma, oltre a sismi e onde d’urto nell’atmosfera che avrebbero stravolto in breve tempo ogni ecosistema. L’oscuramento del cielo avrebbe reso l’atmosfera troppo fredda per i rettili sopravvissuti all’impatto, i quali nel giro di pochi giorni sarebbero morti anche per questa causa.
Nel 1979, dopo l’osservazione del fenomeno astronomico delle supernove (collasso ed esplosione di una stella che muore), venne ipotizzato che un fenomeno del genere avrebbe potuto provocare la grande estinzione: una supernova sufficientemente vicina avrebbe investito la Terra con flussi di radiazioni elettromagnetiche, raggi cosmici, pioggia di frammenti, della durata di alcuni anni; questa teoria, contrariamente all’evento dell’asteroide, concorda con l’ipotesi che l’estinzione in massa sia avvenuta sì in un tempo “breve”, ma tutto sommato lungo parecchie migliaia se non milioni di anni.
Con questa e altre cicliche estinzioni di massa si calcola che il 99,9% delle specie viventi sulla Terra siano scomparse, venendo ogni volta sostituite da nuove specie. Simili estinzioni di massa fungono quindi come una sorta di ricambio generale dei codici genetici, innescando rapidissimi processi di evoluzione biologica.
Nel 1889 a Giava e poi nel 1929 vicino a Pechino erano stati trovati reperti fossili di ominidi preistorici che parvero anteriori agli ominidi europei: furono attribuiti all’Homo erectus. Nel 1924 nel continente africano erano avvenuti i primi ritrovamenti di Australopitechi. Il primo di essi venne classificato con il nome di Australopithecus africanus, e mise in evidenza come esso avesse caratteri intermedi fra le scimmie antropomorfe e l’uomo: se il cranio era piccolo, più da scimmia, lo scheletro in generale era più da ominide (eretto e bipede), così come la dentatura. Studi successivi mostrarono però che il cervello, seppur in un cranio così piccolo, doveva essere ben sviluppato, più che nelle scimmie. Altri ritrovamenti si verificarono nel 1959, poi nel 1972, tutti nell’Africa sud-orientale. Nel 1974 fu rinvenuto uno scheletro semi-integro che fu riconosciuto come appartenente a una giovane donna di vent’anni, probabilmente annegata o travolta da una piena e sepolta nel fango: fu chiamata Lucy e divenne famosa per essere l’esemplare meglio conservato di Australopiteco, quello che dette risposta ai molti interrogativi suscitati dai reperti frammentari precedenti. Nel 1978 a Laetoli in Tanzania, furono scoperte, sulla superficie di una roccia sedimentaria, le impronte calcate da piedi di 3,7 milioni di anni fa, impronte indubitabilmente simili alle nostre.
Nel frattempo altre specie di ominidi fossilizzati venivano scoperte in Africa e in altre parti del mondo, complicando il quadro geografico e storico, ma riempiendo mano a mano i vuoti nella scala evolutiva umana. Nel 1961 e nel 1972 furono scoperti reperti riconducibili all’Homo abilis, africano, più “umano” degli Australopitechi, con un cranio più voluminoso. Questi si inserirono dunque, nella linea evolutiva dell’uomo, fra gli Australopitechi e l’Homo erectus dell’Asia.
Si dovette ridisegnare una buona parte della geografia preistorica, ma anche la geografia attuale assumeva un nuovo aspetto. Ma soprattutto si abbandonarono definitivamente, perché divenute infondate, le idee di “razze” umane superiori, già ripetutamente dimostratesi assurde e distruttive.
Il neopositivismo, una delle maggiori correnti filosofiche del Novecento, si proponeva di costruire un nuovo metodo filosofico fondato sulle scienze fisiche, respingendo, come metafisica non verificabile, l’idealismo dialettico nelle sue varie manifestazioni. Esso riteneva che la filosofia fosse un lavoro di chiarificazione concettuale e non un’elaborazione delle diverse concezioni del mondo. Il neopositivismo ebbe lo scopo di criticare i vecchi modelli di interpretazione della natura grazie all’aiuto delle scienze matematiche, che ne fondarono la scientificità; i neopositivisti, concentrarono l’attenzione sulla logica matematica e la formalizzazione degli enunciati nella convinzione di poter costruire un sapere oggettivo fondato sulla realtà. La caratteristica più importante del movimento fu l’applicazione delle tecniche logico-formali all’analisi linguaggio.
Tuttavia, anche il neopositivismo conobbe modificazioni in senso relativistico, come fu evidente dalle opere del maggiore esponente del movimento: Karl Popper.
Sebbene postulasse l’esistenza di una realtà oggettiva in sé, Popper respingeva quella parte di logica neopositivista che ammetteva la deducibilità del sapere scientifico sulla base di una verificabilità empirica. Portando alle estreme conseguenze le stesse nozioni neopositiviste, la logica di Popper negava la verificabilità delle teorie scientifiche, ammettendo solo la possibile falsificazione sperimentale. Benché Popper mantenesse salda la sua fiducia, sia nella cumulabilità delle conoscenze che nella costruzione di un sapere scientifico vicino alla realtà, la sua filosofia esaltava il confronto tra le diverse teorie scientifiche e la problematicità della scienza stessa. In Che cosa è la dialettica, egli rifiuta il principio di contraddizione che rende impossibile ogni indagine scientifica; nel suo razionalismo critico non ci sono contraddizioni nella natura delle cose, e la conoscenza scientifica deve evitare il più possibile le contraddizioni per cogliere l’oggetto nella sua pienezza. Il metodo popperiano può essere chiamato ipotetico-deduttivo: alla formulazione delle ipotesi segue la constatazione empirica dei fatti. Nel caso in cui le ipotesi non siano d’accordo con l’esperienza, la teoria viene giudicata falsa, al contrario se c’è l’accordo tra asserzioni di base ed esperienza, la teoria è provvisoriamente vera anche se suscettibile, in futuro, di confutazioni. In ambito storico e sociale, il relativismo scientifico popperiano divenne la base di una filosofia politica di stampo liberal-democratico, a sostegno di una società “aperta” fondata sul pluralismo e i diritti dell’individuo, in netta opposizione ai totalitarismi politici e ideologici. Le critiche al neopositivismo furono sollevate dai filosofi della scienza, Thomas Kuhn e Paul Feyerabend, che approfondendo la dimensione teorica della conoscenza scientifica, ne sottolinearono la irriducibilità a fatto empiricamente verificabile, arrivando a negare la possibilità di un’accumulazione lineare del sapere.
L’ultimo quarto del XX secolo è stato caratterizzato dalla crisi delle ideologie onnicomprensive ma ciò non significa che il panorama non fosse ricco di spunti fecondi. In linea generale si può però affermare che nessun pensatore, o linea filosofica, ha proposto una rifondazione unica, normativa. Emerse nel complesso una visione pessimistica della realtà e della condizione umana: l’uomo non è più predisposto verso una realizzazione. Il pessimismo nasceva da una reazione alla fede nel progresso e nella razionalità degli anni ‘60. Per molti aspetti la filosofia degli anni ‘70 diventò una rielaborazione delle teorie passate senza proporre nulla di nuovo. Sono gli anni in cui in Italia si affermò il “pensiero debole” di Gianni Vattimo e all’estero emergono autori come Derrida, Habermas, Feyerabend. Tra i settori più vivaci ci sono quelli strettamente legati all’ambito scientifico e la rivoluzione tecnologica di questi anni.
Per quanto riguarda l’Italia, Gianni Vattimo è sicuramente uno degli esponenti più importanti della filosofia: la sua ricerca si muove nell’ambito dell’ermeneutica che, per Vattimo, è un’interpretazione della storia dell’essere nella sua fase presente. Ciò che caratterizza la sua concezione, il “pensiero debole”, è il progressivo indebolimento della nozione di essere, finché non ne rimane più nulla. Ma come comportarsi di fronte a questo indebolimento? Vattimo propone di assecondarlo e accoglierlo come un destino tipico della nostra storia.
Allievo di Adorno, formatosi presso la Scuola di Francoforte, attivo nell’ambito scientifico a partire dagli anni ‘60 e impegnato in molti movimenti di protesta, Habermas sviluppò una problematica collegata alla teoria critica della Scuola di Francoforte. Egli difese una sociologia anti-positivista e dialettica che teneva conto delle contraddizioni e degli interessi socialmente e storicamente determinati, mirando al superamento di queste opposizioni in prospettiva di una “emancipazione” dell’uomo. Habermas respinse anche l’impostazione delle scienze sociali che postulavano una correttezza tecnica dei problemi collettivi secondo una razionalità derivata dall’analisi dei sistemi complessi. La società contemporanea, per Habermas, non è riconducibile a modelli cibernetici, né l’agire umano è interpretabile secondo modelli matematici. Esiste la necessità di sviluppare una riflessione collettiva dei bisogni della società, sottraendola ai bisogni illusori generati dal consumismo: ciò è possibile sottraendo alla razionalità tecnologica l’organizzazione sociale. Per Habermas, la stessa partecipazione politica concessa ai cittadini è soltanto fittizia poiché svuotata di potere. Il consenso democratico si realizza attraverso la comunicazione simbolica e la formazione collettiva delle volontà che devono essere sottoposti a criteri normativi.
Il linguaggio è il tema più caratteristico della filosofia del Novecento in generale. Più volte in filosofia, anche nell’antichità, si è prestata attenzione all’analisi dei significati delle parole, cercando al contempo di elaborare un linguaggio chiaro e rigoroso. Il linguaggio, però, non era mai stato il tema principale della filosofia, come invece per molte delle correnti filosofiche di maggior peso nel nostro secolo.
Schematizzando, mentre la filosofia moderna dal Seicento fino all’Ottocento ha assunto come oggetto privilegiato di indagine la mente (considerata in modi molto vari, con le sue proprietà e funzioni), in quanto organo della conoscenza e della rappresentazione del mondo, nel Novecento è stato perlopiù il linguaggio a prendere questa posizione centrale nella ricerca filosofica. Ciò è avvenuto soprattutto all’interno delle due correnti che, nella seconda metà del secolo, hanno dominato, da antagoniste, la scena filosofica (entrambe peraltro nate molto tempo prima), vale a dire la filosofia analitica e l’ermeneutica. Queste due tradizioni hanno dato alla centralità filosofica del linguaggio sensi diversi. In gran parte dei programmi di ricerca della filosofia analitica il primato del linguaggio significa prima di tutto primato della filosofia del linguaggio, e in particolare della teoria del significato come disciplina guida della filosofia. Nell’ermeneutica filosofica, invece, il linguaggio viene preso come oggetto della comprensione e dell’interpretazione in un contesto saldamente ancorato alla cultura umanistica europea. La forte caratterizzazione culturale in senso storico-letterario dell’ermeneutica, fin dalle sue origini, ha portato a una grande attenzione soprattutto alla dimensione storica del linguaggio come mezzo di comunicazione e quindi di trasmissione di esperienze e di modi di pensare. A differenza di molte scuole di filosofia analitica, quelle ermeneutiche non hanno mai dato importanza ai metodi di analisi basati sulla logica simbolica e in generale ai metodi formali e matematici di analisi delle teorie e delle argomentazioni.
Con questo termine si designa un complesso di ricerche su vari problemi filosofici: da un lato la ricerca si basa sull’analisi dei significati della parole, dall’altro sui concetti che definiscono i linguaggi come tali (concetti come “significato”, “nome” o “verità”.
Nella filosofia si distinguono tre “dimensioni” del linguaggio: la semantica, cioè l’analisi dei simboli linguistici; la sintattica, che studia i rapporti tra i segni; e la pragmatica, cioè quella relativa all’impiego delle espressioni linguistiche nella vita sociale. Uno dei più grandi studiosi del linguaggio, oltre a Ludwig Wittgenstein, fu Jacques Derrida. La tesi dell’autore francese va sotto il nome di “decostruzionismo”: la sua proposta era di abbandonare la ricerca di un linguaggio puro e originario, data l’impossibilità di una verità filosofica di ribaltare i concetti fondamentali del sapere filosofico precedente, svelandone le contraddizioni implicite e avviare un discorso sul sapere volutamente ironico e sdrammatizzante. Il linguaggio non descrive com’è l’essere nella sua pienezza e, dunque, pone all’origine non le parole ma i segni (da lui chiamata ‘scrittura originaria’); viceversa la scrittura può cogliere la totalità dell’essere a cui la parola non può arrivare. Il lavoro di decostruzione non è un vero lavoro concettuale, ma testuale, nel senso che i suoi oggetti sono i testi della tradizione filosofica.
A proposito del linguaggio, la filosofia post-analitica merita una piccola appendice. Per i filosofi post-analitici, l’analisi del linguaggio, anche se condotta con strumenti logici e matematici raffinati, è solo uno dei mezzi che possono essere impiegati nell’attività filosofica, ma non può essere un metodo risolutivo da impiegare per dare risposte definitive e scientifiche ai problemi millenari sulla natura della conoscenza.
Feyerabend fu un acceso sostenitore dell’inadeguatezza e dell’insostenibilità di qualunque teoria del metodo che voglia costringere i tipi di comportamento e di scelte entro un certo numero di norme rigide. La scienza, secondo il filosofo, ha bisogno di una pluralità di regole e gli stessi scienziati lavorerebbero meglio senza sentire il peso dell’autorità della ragione stessa. Egli sosteneva, nel testo Contro il metodo, un vero anarchismo metodologico, secondo cui non ci sono regole del metodo che nella storia della scienza non siano state violate, e proprio grazie a queste violazioni è stata possibile una crescita della conoscenza scientifica. Il testo era una provocazione rivolta agli sforzi di Popper di costruire un apparato di regole in grado di guidare lo scienziato. Inoltre, Feyerabend asseriva la non confrontabilità tra le teorie cosmologiche generali: ecco perché non è possibile relazionare la teoria di Newton con la tesi della relatività di Einstein.
La filosofia contemporanea ha più volte annunciato la sua fine. Il corpo della filosofia si è smembrato dando origine a scienze autonome e specifiche con il compito di risolvere, in maniera migliore, i problemi che la filosofia non era più in grado di superare. Negli anni ‘70 l’applicazione di modelli teorici complessi e l’introduzione di tecniche sperimentali sofisticate, hanno portato allo sviluppo di una nuova disciplina centrata sullo studio dei sistemi caotici e della “teoria del caos”. La teoria si basava sull’imprevedibilità del comportamento dei sistemi caotici dopo un certo intervallo di tempo, data l’impossibilità teorica e pratica di misurare con esattezza sufficiente i dati necessari alla determinazione degli eventi. Essa si dimostrò adatta a descrivere il funzionamento di sistemi di natura disparata come per esempio i mercati economici, il ciclo evolutivo ecc. Questa teoria contraddiceva il principio di causalità newtoniana, postulando l’impossibilità di discernere da una situazione causale a una conseguenza necessaria nei sistemi caotici, data l’imprevedibilità combinatoria che li caratterizza.
Inoltre, il collegamento tra fisica astronomica e fisica nucleare, avviato dalla teoria della relatività generale di Einstein, si rafforzò nel dopoguerra dopo l’elaborazione del “modello standard” nel 1968. Tale teoria spiegava tutti i fenomeni naturali ipotizzando l’esistenza di determinate particelle e forze che agiscono nell’universo. Il “modello standard” si basa sull’esistenza di due famiglie di particelle fondamentali (quark e leptoni) che si combinano producendo particelle complesse come gli atomi. Questa teoria ipotizza l’esistenza di quattro forze universali: l’elettromagnetismo, la gravità, la forza nucleare debole e quella forte. Essa servì a risolvere le difformità irrisolte tra la fisica newtoniana e quantistica, e tra quest’ultima con quella della relatività generale.
La caratteristica del suo programma, nel saggio intitolato Economia libidinale è una rilettura di Marx e Freud che mira ad una emancipazione politica fondata sulla liberazione dalle pulsioni. Le pulsioni agiscono su una “banda libidinale” dove non esistono gerarchie, né contraddizioni, ma tensioni in conflitto. Alla fine degli anni ‘70 la fine del poststrutturalismo, (Derrida, e lo stesso Lyotard) come movimento politico fece cambiare profondamente l’orientamento di pensiero. Lyotard (La condizione postmoderna, 1979), sosteneva che l’uomo è entrato ormai in una “condizione postmoderna”, conseguente alla trasformazione della società industriale. La rivoluzione nei campi della comunicazione, dell’elettronica e dell’automazione ha mutato, secondo questo nuovo filone di pensiero, la struttura della società e l’identità stessa dell’uomo occidentale. Lyotard descrisse l’età contemporanea dando una prima interpretazione filosofica dell’epoca postmoderna: certi atteggiamenti tipici della modernità sono definitivamente superati, soprattutto è mutata l’idea di come si concepisca il sapere e come esso sia applicato, i grandi sistemi onnicomprensivi non esistono più e lasciano spazio a delle pratiche smembrate del sapere senza connessione tra di loro. Lyotard descrisse una società pluralistica caratterizzata da una frammentazione dei linguaggi, che relativizzava il discorso filosofico, negandogli qualsiasi valenza universalistica. La crisi dei grandi sistemi per Lyotard rifletteva, quindi, la loro resistenza ad accettare tale stato di fatto mentre, d’altra parte, la riduzione della filosofia a discorso sulla logica ne faceva un mero sapere tecnico. Il filosofo affermava l’incompatibilità tra affermazione e differenza: l’affermatività era giunta all’eliminazione della differenza, e dunque rimaneva una semplice asserzione.
Per il postmodernismo, l’affermatività nega inizialmente le differenze ma genera delle differenze anarchiche negando l’enfasi sulla sperimentazione e sul nuovo. In un certo senso il postmodernismo decreta la fine della filosofia come strumento di emancipazione della ragione filosofica.
La critica alla concezione della società come una totalità organica fortemente integrata in nome di una priorità dell’individuo, è presente nella storia della sociologia già nella riflessione dei classici, come Max Weber e, soprattutto, Menger.
L’individualismo metodologico, in quanto posizione specifica all’interno delle scienze sociali, è stato ripreso negli anni Sessanta da alcuni sociologi, economisti e filosofi. Tra questi un posto di rilievo spetta all’economista austriaco Friedrich August von Hayek che muove dall’idea secondo la quale il livello specifico delle scienze sociali prende forma nel momento in cui si trascende il senso comune. I concetti di “società” o di “capitalismo” sono costrutti del senso comune e non possono essere assunti come termini designanti realtà concrete: l’unica realtà concreta della vita sociale sono le persone e, dunque, la scienza sociale deve collocare lo studio al livello degli individui e delle motivazioni coscienti delle loro azioni. Il filosofo austriaco Karl Popper si è inserito in questo dibattito sostenendo la validità dell’individualismo metodologico contro il determinismo delle filosofie della storia, sia di destra, sia di sinistra. In questo senso l’obiettivo primario dell’individualismo metodologico deve essere quello di mettere in luce e di comprendere le conseguenze impreviste dell’azione sociale degli individui.
Con questo quadro sullo sfondo, uno sviluppo recente all’individualismo metodologico in sede sociologica è stato dato da Raymond Boudon. Nella Logica del sociale (1979) egli sostiene che la concezione individualistica può essere applicata anche a fenomeni microsociali, come i movimenti politici e religiosi o i mutamenti rivoluzionari. Secondo Boudon tuttavia, non si riesce a comprendere efficacemente il mutamento sociale se non si considerano anche gli effetti collettivi che sorgono dalla giustapposizione delle azioni individuali e che non sono previsti dagli attori implicati nell’azione. Queste conseguenze inintenzionali dell’azione sociale, discusse da Boudon nel saggio sugli Effetti “perversi” dell’azione sociale (1977), costituiscono un’importante fonte del mutamento sociale.